Scolpire la fotografia: Incontro con Mari Mahr

15 Dicembre 2014

Mari Mahr nasce a Santiago del Cile nel 1941. Otto anni dopo si sposta a Budapest con la famiglia. Oggi vive e lavora a Londra, ma divide il suo tempo tra Londra e Berlino.

 

Life chances_12, in http://marimahr.com/

 

Questa geografia frastagliata, ripercorsa con passo lieve e giocosa scrittura fotografica, deve essere un formidabile apprendistato all’arte sommessa della non appartenenza. È la prima cosa che penso guardando le opere esposte alla Kunststiftung Poll di Gipsstrasse 3, nel quartiere di Mitte a Berlino, in un palazzo storico che fino ai primi anni Trenta del secolo scorso ospitava una scuola di musica per bambini ebrei e dall’edificazione del Muro alla sua caduta diventa parte della Berlino orientale.

 

Persecuzione degli ebrei e costruzione del socialismo, “due eventi cruciali nella storia europea dell’ultimo secolo”, mi dice Mari Mahr, “che sono parte della mia storia personale. Le mie immagini non potevano trovare una collocazione migliore. Tutto il mio lavoro parla di sradicamento, ma anche della capacità di reinventarsi, di ricominciare a vivere, mettendo in discussione il tema dell’identità e il bisogno di sapere da dove si viene”.

 

La mostra, curata dalla figlia della fotografa, Yulia Mahr, per il Mese europeo della fotografia, si intitola “Life chances and other work”. Difficile tradurre senza banalizzarlo questo titolo all’apparenza semplice che, come in tutte le serie fotografiche create nel tempo da Mari Mahr, racchiude il senso profondo dell’opera a venire, quasi ne fosse l’origine e il movente, come la scintilla lo è del fuoco. Chance: occasione, opportunità, possibilità, ma anche rischio, caso, fortuna. Perché la Storia ci accade, cade su di noi, irrompe nelle nostre vite e ne spezza e reindirizza il corso.

 

 

Davanti a quell’accadere politico che agisce sulla sfera più intima e privata delle vite individuali, Mahr risponde con un gesto potente di narrazione, raccogliendo (forse salvando) nelle sue delicate composizioni fotografiche in bianco e nero ciò che la Storia disperde, ma non può cancellare. Il suo non è un atto di memoria, ma di ricomposizione. Ciò che ci sopravvive – oggetti, abiti, lettere, fotografie, le infinitesimali particelle che formano il diario di un individuo e il lessico affettivo di una famiglia – serve a scrivere al presente il nostro passato, a tenere insieme dimensioni temporali incommensurabili, a suturare il distacco.

 

“Life chances è un buon titolo, perché parla di quanto poco controllo abbiamo su quel che ci succede. Alla fine degli anni Trenta i miei genitori, intellettuali ebrei cosmopoliti e di sinistra – mio padre, architetto, aveva stretti rapporti di lavoro con il Bauhaus di Walter Gropius e Josef Albers – furono costretti a lasciare l’Europa e ripararono in Cile. Da lì sono tornati a casa, in Ungheria, non appena la nuova situazione politica lo ha consentito. La loro vita, la nostra vita, è stata segnata irreversibilmente da questi eventi.

 

È in quel duplice strappo coincidente con la scoperta di sé che Mari Mahr impara la scienza duttile degli addii. Al ritorno nel paese d’origine della madre e del padre dimentica a poco a poco la lingua spagnola, adotta l’ungherese e presto sceglie come suo vero linguaggio la fotografia. Iscrittasi alla Scuola di Giornalismo di Budapest dove si diploma negli anni Sessanta, fa tirocinio come fotogiornalista presso il Dipartimento culturale dell’Agenzia di stampa ungherese. Tra i suoi maestri, Endre Friedmann e Gábor Pálfai.

 

Life chances_05, in http://marimahr.com/

 

Mi sono formata come fotogiornalista nell’Ungheria degli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1973, quando mi sono trasferita a Londra, ho ripreso a studiare fotografia per “reiventarmi” in una nuova lingua e in una nuova cultura. Il mio atteggiamento nei confronti della fotografia non era più quello che avevo in Ungheria. Ero una persona diversa, parlavo inglese con un accento terribile e varie sgrammaticature. Le mie immagini non potevano essere sicure di sé, arroganti. Volevo che fossero opache, insicure, gentili, che comunicassero la stessa incertezza che comunicavo io con il mio inglese stentato. Le volevo esitanti, capaci di dire che non sempre sono sicura di quel che penso. Ecco perché mi sono messa a lavorare a quelle che chiamo serie fotografiche, per avere ogni volta la possibilità di correggere.

 

Dall’‘oggettività’ costitutiva del fotogiornalismo alla ‘soggettività’ di una tessitura fotografica che ha come oggetto la biografia familiare dentro il maelstrom della Storia e come materiali le tracce, i segni, delle esistenze individuali, quel che sopravvive e va riposizionato attraverso un atto di narrazione.

 

Negli anni Ottanta c’era una grande frizione tra fotografi documentaristi e fotografi concettuali. Non ho mai capito perché. La fotografia è un mezzo talmente fantastico. Perché non usarlo come si usa la scrittura, per fare del buon giornalismo, ma anche per scrivere romanzi, per raccontare? Questa separazione non la capisco proprio.

 

Le fotografie di Mari Mahr nascono sempre da una sorta di blocco materico iniziale, da un vero e proprio documento fotografico. Può essere la facciata di un vecchio edificio di Buenos Aires, un marciapiede, un muro sbrecciato. Lei li fotografa, perché sente che non può non farlo, poi torna a casa e comincia a fotografare e ri-fotografare la fotografia fino a ottenere la texture, le sfumature e la dimensione volute per immettere su quel primo strato multipli strati successivi di cose, oggetti, lettere, fotografie rigorosamente appartenenti alle figure chiave della sua storia familiare: la madre e il padre, la nonna, la figlia. Non è un atto di conservazione o di imbalsamazione il suo, ma di creazione. Le sue immagini, minuscole sculture-mondo che prendono forma nello spazio del tempo, narrano non la perdita, ma la presenza di chi non c’è più e dei luoghi che abbiamo attraversato.

 

Il mio strumento cardine? La luce. È lei che mi permette di far fluttuare gli oggetti, di immergerli nell’ombra, di rivelare i segni nascosti della permanenza, di ancorarli.

 

(Berlino, 4 dicembre 2014)

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