Fondamenta del design

12 Aprile 2011

È forse la spettacolarizzazione e l’universale estetizzazione del mondo che ci circonda (come avrebbe potuto dire Walter Benjamin) la causa dell’affermarsi e del diffondersi oltremisura di istituzioni per la formazione nel campo del design?

Purtroppo oggi in Italia, dopo un recente periodo di espansione dentro l’università pubblica - con punte, peraltro, di grande prestigio anche internazionale-, si rischia che il succulento mercato della didattica del design ritorni riserva esclusiva delle imprese scolastiche private. Le manovre ministeriali, talora benintenzionate ma incaute ed insipienti, talora direttamente malintenzionate, stanno causando grandi guasti. Porre dei vincoli alla moltiplicazione senza regole è buona cosa, ma attraverso un’applicazione puramente astratta e idealistica, e non aderente ai fenomeni, questi vincoli finiscono semplicemente per togliere di mezzo la concorrenza pubblica alle istituzione private.

 

È inconfutabilmente l’industria della cultura, dell’informazione e della comunicazione a possedere oggi il ruolo traente: è l’immagine guida della nostra cultura e civilizzazione, come, negli anni ’50, l’industria aeronautica e, negli anni ’70, la ricerca spaziale. Oggi, dopo Silicon Valley, sono esplose l’information e poi la communication tecnology and industry.

Per riuscire a ‘passare’, perfino gli interventi più heavy e infrastrutturali si devono ammantare di massmediabilità: ci ricordiamo ancora di MITO, e ora ci rifilano l’euforica metafora della Metropolitana Europea (quando il viaggio da Kiev a Lisbona durerà comunque un numero spropositato di ore).

La predisposizione alla narratività massmediale va prodotta ad ogni costo: un prodotto noioso come l’automobile deve farsi nostro corpo ‘body–built’ di ricambio (i suv), o deve diventare un dispositivo che basta accendere perché sulle sue superfici visuali (parabrezza Zenith e finestrini) si proiettino le avventurose, esotiche e possibilmente magiche immagini del viaggio. “L’immersione è totale”.

 

Quale può essere, in un contesto come questo, il ruolo di una propedeutica del design?

La progettazione radical che, proprio per tentare di assumere la guida di questo processo tutto comunicazione, si era rapidamente riciclata in postmodern, non ha mai avuto una particolare propensione per il basic design. Cosa ovvia per un movimento che ha inventato il progetto come comunicazione e che considerava i propri risultati come allegorie di pensiero, come veicoli emozionali, dove funzione e prestazione sono solo lontani ricordi non necessari e non sufficienti.

Adesso il postmodern non è più trendy, e si parla a torto e a traverso di simplicity, ma ancora e sempre come nozione stilistica: Classico vs. Moderno, Louis Quatorzevs. Fatma Quatre, Rococò vs Neoclassico, Postmoderno vs. Simplicity/Minimal.

Ma forse la diffusione della Simplicity è un indizio. Di un fastidio crescente per palmette e ziggurat, per coloracci e formine, per bieche semantizzazioni e bambinizzazioni inconsulte.

C’è voglia di oggetti che ci sono ma possono sparire, che fanno quello che devono fare ma non si sbracciano per farsi guardare. C’è voglia di artefatti comunicativi che ci porgano con garbo i contenuti informativi di cui abbiamo bisogno e c’è voglia di interfacce interattive che ci prendano per mano e ci pilotino attraverso il mondo virtuale ma anche attraverso quello fattuale: il labirinto del mondo fisico.

La richiesta di formazione in questo settore è pressante. Di progettisti della vita urbana, della mobilità di merci e persone, dell’offerta e del consumo delle merci, della fruizione della cultura e della partecipazione ai loisir non ce n’è mai abbastanza. E di designer e conduttori che producano qualità dentro a qualsiasi settore merceologico, dentro a qualunque ambito esistenziale e dentro alla grande rete della circolazione delle informazioni ce n’è sempre più bisogno. Forse è il caso di riflettere su come vadano formati questi agenti competenti e questi diffusori della cultura del progetto: è questione non superficiale, e ci riguarda tutti come utenti.

Non è per un vizio storicista che ci sembra opportuno abbandonare – per un momento – l’attualità e provare a ripartire dal momento di avvio, cioè dal momento mitico/genetico/originario in cui il progettista – il designer – ha cominciato a istituirsi come tale. Il momento in cui si è cominciato ad avere un concepire distinto dal fare, o meglio un concepire che è anche un poter far fare.

Il carattere mitico di un tale primo momento è ancora più fortemente sottolineato se constatiamo che il panorama attuale non presenta una sola possibilità ma ne offre moltissime. Il nostro presente è la compresenza – diciamo così – astorica, della quasi totalità dei modelli operativi e dei sistemi produttivi: arte, artigianato, industria, design, styling, marketing, moda, pubblicità, ecc.

Partiamo dunque, con legittima arbitrarietà, da un primo momento che è quello della bottega, dove il modello di apprendimento è la quintessenza del pragmatismo del learning by doing. Al ‘discente’ si comincia con l’attribuire qualche incombenza marginale. Per imparare deve guardare lungamente il ‘maestro’, l’esempio. Ogni propedeutica è assente, si lavora e l’apprendista lo fa per quello che riesce a fare. Al limite estremo c’è il lavoro infantile, tanto odiato ma anche tanto stimato da Marx come poderoso momento formativo.

 

Eppure già in questo primo momento possiamo individuare due atteggiamenti pedagogici distinti. Uno che chiameremo per comodità asiatico o orientale, dove nel discepolo è presupposta una frenetica motivazione ad imparare: È il discepolo che ha ‘sete di sapere’, e si eserciterà in tutti i modi possibili, si industrierà intensamente (training). Il compito del maestro è di metterlo in condizione, di liberarlo da ciò che gli impedisce di fare alla perfezione. Si pensi al paradigma che sta dentro a un manuale come il bel libro di Eugen Herrigel, Lo zen e il tiro con l'arco, (Adelphi, Milano, 1979).

L’altro atteggiamento, che chiameremo occidentale, presuppone un docente che possiede una grande quantità di sapere da distribuire: “Spezzare il pane della scienza”, si dice.

E ciò è accompagnato dall’idea di una motivazione all’apprendimento che, presso l’allievo è così flebile da dover venire evocata, stimolata, mantenuta salda con un gioco sottile di interventi disciplinari e non, che vanno dalla seduzione alla sanzione. Carota e bastone.

È il modello d’uomo implicito nelle due concezioni ad essere diverso. Rispettivamente quello di un essere umano inteso come fascio di facoltà da sviluppare (e qui ‘disciplina’ vuol dire allora controllo di tali facoltà e quindi allenamento e metodo), contrapposta a un’idea del discente come vaso da riempire di sapienza (e qui ‘disciplina’ finirà poi per voler dire sistema di nozioni).

Il primo modello è quello di un know-how incorporato, se non addirittura incarnato, insomma somatico, gestuale e sensoriale (il paradigma è qui quello della scuola di danza: l’attività più difficile da trasformare in un sapere formulato, da congelare in un testo trasmissibile) Contrapposto a un sapere quasi–grammaticale, consistente nell’accorto impiego di elementi appropriati secondo regole corrette.(e qui il paradigma è invece quello dell’architettura degli ordini e dei canoni, cioè della disciplina dell’utilitas, firmitas e venustas).

Per il primo caso (che è quello orientale) si tratta di facoltà, capacità, abilities. E l’attrezzatura è intesa in termini di necessario e sufficiente, anzi quasi di minimo indispensabile: il lapis, la penna, il bulino, la spatola, il pennello.

Mentre nel secondo caso (occidentale), le attrezzature vengono in primo piano. Le conoscenze stesse sono intese come strumenti, così come i mezzi tecnici materializzano, assorbono e progressivamente sostituiscono le conoscenze e le azioni. Un esempio per tutti: il normografo come attrezzo che produce ortogestualità.

E così l’ideazione si sgancia sempre di più dall’esecuzione.

A una realizzazione suddivisa in fasi di elaborazione e lavorazione si accompagna un apprendimento strutturato secondo un iter. La trattatistica pittorica rinascimentale che rappresenta lo sforzo di costruire e oggettivare una disciplina, è anche il luogo dove si manifesta esplicitamente l’idea di una propedeutica. “Il giovane deve prima imparare la prospettiva, poi le misure di ogni cosa, poi di mano di buon maestro per assuefarsi a buone membra, poi dal naturale per confermarsi la ragione delle cose imparate” dice Leonardo (Leonardo Da Vinci, Trattato della pittura, Parte I, 45). Un processo che, con eccezionale chiarezza, va dal generale (teoria prospettica) sempre più al particolare pragmatico. Passando per le tecniche e il lessico figurale dell’arte, approda alla conferma percettiva del naturale. Ecco delineato un iter didattico.

 

Il basic design in senso proprio, quello della cultura industriale, è segnato anch’esso dal carattere della propedeuticità, ma in più, tale propedeuticità è analitica, è intesa come il prevalere volta a volta dell’una o dell’altra vocazione, quella olistica dello skill, o della maestria, da un lato e quella analitica della trasmissione di un sapere parcellizzato dall’altro. Un sapere oggettivo e, insomma, legato alla esistenza e alla costruzione di fondamenti disciplinari.

Prendiamo il caso del Bauhaus, dove abbastanza inequivocabilmente il design come disciplina nasce, e nasce inestricabilmente intrecciato con il basic design dentro al Grundkurs, cioè al corso di base, in cui nella primissima fase si sente sullo sfondo la presenza dei movimenti della pedagogia infantile di fine e inizio secolo, ma anche la pedagogia antroposofica e vitalista di Rudolf Steiner. Insomma sono proprio le forti eredità espressionistiche a spingere alla istituzione di un momento che sia preliminare alle attività creative vere e proprie. Un momento teso a liberare le forze creative dell’uomo e, come dicevamo, decisamente impostato su una stimolazione diretta e su un training che si espande alle facoltà di tutto il corpo.

Eppure nel Bauhaus, anche nel caso di figure di insegnanti non certo connotate in un senso razionalistico, l’impatto con la didattica e l’incontro con gli allievi in carne ed ossa, spinge alla produzione di proto–teorie. Proviamo a consultare la collana dei Bauhausbücher e leggiamo Punto, linea e superficie di Kandinskij e soprattutto quell’autentico trattato che è Il pädagogisches Skizzenbuch di Klee, o ancora i suoi scritti sulla disciplina della forma e della configurazione (raccolti sotto il titolo Das bildnerische Denken da Jiirg Spiller, Basel, Benno Schwabe & Co,1956). Nell’uno e nell’altro ci è offerta la chance di assistere in tempo reale allo sforzo di trasformare una poetica artistica personale in un sapere condivisibile.

 

E soprattutto c’è il basic del giovane Johannes Itten che, al seguito di un pedagogo dell’arte come Franz Cizek, proveniva da sfondi concettuali di impostazione vitalista e anche direttamente antroposofica, come emergerà poi completamente nella Ittenschule di Berlino, dove egli sarà del tutto autonomo nello sviluppare la propria linea di pensiero. Ma anche il basic di Itten, che aveva dei caratteri curativi e addirittura catartici (come avrebbe potuto dire il primo Freud), finisce però nel condensarsi in una teoria. Persino le esercitazioni di scioltezza gestuale: e penso alle volute a mano libera che coinvolgevano, in una sorta di danza del tracciato, la postura del polso, del braccio, della spalla e di tutta la stazione eretta hanno degli sbocchi disciplinari. Anche il basic di Itten produce una documentazione oggettivante, che raccoglie una serie di osservazioni stabilizzate e protoscientifiche: il trattato della Teoria del colore.

Nel caso dell’approccio al corso preparatorio proposto da László Moholy–Nagy, invece, la tensione non si sviluppa più tanto fra saper fare e sapere trasmissibile, in quanto la scelta è decisamente sperimentale e creativista. O meglio qui il sapere, la scienza con cui fare i conti è il sapere materializzato nella tecnologia. E l’approccio è sensorialista, anzi multisensoriale e cinestetico. Il protagonista è il corpo con le sue facoltà ricettive, elaborative e esecutive, da portare ad uno stadio di armonia tale da essere in grado di assorbire e orchestrare con entusiasmo tutto l’artificiale del mondo industriale. Non è un caso il ricorso a macchine cinetiche nella ricerca di Moholy–Nagy.

 

Il basic di Josef Albers rappresenta anch’esso una straordinaria e cruciale versione dell’integrazione fra i due poli concettuali: training e fondazione. E per lui questo appare con tutto il nitore necessario soprattutto nel monumentale lavoro compiuto – dopo il Bauhaus e il Black Mountain College –. a Yale, nel pieno della maturità, che culmina con la pubblicazione dello strabiliante libro/laboratorio dimostrativo Interaction of colors (stampato in serigrafia per la Yale University press, New Haven, 1963). Il punto, per Albers, è che la disciplina che deve emergere dalla sua ricerca sia adeguata agli orizzonti della concreta sensorialità e percezione, piuttosto che simulare la scientificità istituzionale. Anzi la scientificità del suo trattato risiede proprio nell’effettiva adeguatezza. Infatti la validità di risultati si fonda su un metodo di acquisizione e di giudizio che non è oggettivo né tantomeno soggettivo,ma è piuttosto un approccio intersoggettivo (come avrebbe potuto dire Edmund Husserl). E qualunque generalizzazione vale solo se ricontrollabile percettivamente. A Yale, ma anche prima al Bauhaus e a Ulm, l’atteggiamento albersiano poneva la ricerca specifica (il basic) in una posizione di equidistanza equilibratissima sia nei confronti della scienza (la fisica cromatologica) sia in quelli della inventività sensibile ed espressiva (sono noti i suoi appelli: “adesso andiamo a fare un collage di foglie nel bosco!”). È davvero da segnalare la non–ingenuità dell’approccio, l’autentica sottile sofisticatezza dell’approccio gnoseologico e pedagogico.

 

Nel Bauhaus le modalità concettuali di una disciplina nascente convivono con gli aspetti pratici del training cinestetico e sensoriale. La propedeuticità è affermata, anzi fortemente sottolineata dal fatto che c’è un corso preliminare unico e indifferenziato per tutte le future specializzazioni, che poi sono Werkstätten [laboratori, officine]. E questo varrà sia pure con pronunzie diverse per tutte le tre fasi storiche (Gropius, Meyer e Mies van der Rohe).

Quando poi, dopo la fine della guerra, si apre la Scuola di Ulm, il suo primo direttore, Max Bill (che aveva studiato al Bauhaus) propone la medesima formula: un grande unico atélier accoglie tutti gli studenti, che si suddivideranno solo a partire dal secondo anno nelle diverse sezioni (Architettura industrializzata, Design del prodotto, Comunicazioni visive e Informazione). L’accento è posto dunque sul training creativo, sull’avviamento alla progettazione e – molto importante – sulla omogeneizzazione dei linguaggi espressivi degli studenti.

La successiva revisione innovativa dell’impostazione, comincia proprio dal Grundkurs [Corso di base], dove Tomás Maldonado inizia a introdurre una serie di elementi tratti da discipline limitrofe. Topologia, calcolo combinatorio, simmetria, psicologia della forma ecc. Il che significa affermare che l’attività del dar forma, va aggredita con strumenti concettuali logici, scientifici, e, reciprocamente, significa portare il design al livello e all’interno del tessuto connettivo rappresentato dal sistema delle scienze.

Toccherà però all’americano Bill Huff, partendo da D’Arcy–Thompson e coniugando la lezione di Albers con l’impianto maldonadiano, stendere il testo che compendia e riassume questa nuova concezione e conferire una struttura organica alla disciplina del basic (William Huff, Argumente für ein Grundkurs/An argument for basic design, in “Ulm”, n. 12–13, 1965.).

 

In un secondo tempo, sarà il piano di studi complessivo di Ulm ad accogliere i contributi scientifici rigorosi (ad es. la ‘teoria delle strutture’ di Horst Rittel, la ‘teoria dell’informazione’ di Max Bense e poi di Abraham A. Moles, oltre che la già pienamente istallata ‘semiotica’ di Tomás Maldonado). In un certo senso esse si assumono il ruolo propedeutico e omogeneizzante, il che favorisce peraltro la formazione di più corsi fondamentali specializzati e differenziati secondo le esigenze di ciascun dipartimento.

 

È ancora da sottolineare che il corso fondamentale dopo Maldonado tende ad abbandonare i caratteri di ricerca libera para-artistica, di atelier sperimentale, ma diventa piuttosto l’allenamento o l’emulazione del perseguimento di un preciso risultato o effetto. (ad esempio la sensazione di convesso, concavo, indifferente, ambiguo) da ottenere rispettando regole sintattiche e vincoli realizzativi ben definiti e formulati.

Ma perfino in questa razionalissima impostazione è possibile rilevare un residuo della problematica della maestria: la famosa esercitazione di Maldonado dal nome accattivante ‘Antiprimadonna’ lo dimostra: essa può essere impiegata come prima esercitazione introduttiva perché non necessita di nessuna conoscenza preliminare, tranne le più semplici tecniche esecutive.

A Ulm, d’altro canto, il basic può infine assumere anche il ruolo evolutivo di laboratorio seminariale per la ricerca teorica: il campo della Retorica verbo–visiva viene esplorato in un corso di basic della sezione di comunicazioni visive, tenuto da Gui Bonsiepe.

È curioso, ma proprio nel momento in cui il corso di base si apre e diventa un crocevia di influssi multidisciplinari si affaccia anche l’idea di un basic identitario, un basic che si configura come lo specifico del design. Come quell’area dei saperi progettuali che non può essere coperta dagli apporti delle metodologie, e pianificazioni dei saperi tecnologici, e nemmeno dalle semiotiche, dalle teorie informazionali o dalle teorie percettive.

Qualcosa che potrebbe essere identificato con il termine ricerche morfologiche, può essere rappresentato, ad esempio dalle ricerche morfostrutturali di Walter Zeischegg, le quali finiscono poi per avere degli sbocchi e scambi – diciamo così – eteroscientifici, per esempio di natura bionica. Sempre come ricerche morfologiche potrebbero essere classificate certe esplorazioni sistematiche guidate da Hans Gugelot su “scuretti” e “raggi di raccordo” studiati non come problemi costruttivi o geometrici, ma come effetti che oggi noi definiremmo estetici.

Va segnalato inoltre che il basic viene anche definitivamente liberato anche da un'altra branca delle discipline del progetto, che si autonomizza specializzandosi, quella delle tecniche di raffigurazione, la quale invece nella tradizione (architettonica e beaxartistica) avevano esercitato esse sole il ruolo propedeutico (il disegno dal vero, anatomico, geometrico, tecnico, a mano libera, ecc.). La sostanziale e radicale distinzione se non opposizione concettuale è favorita in Germania dall’esistenza di una parola come Gestaltung [configurazione] ben distinta da Darstellung [raffigurazione, rappresentazione].

 

Negli anni il basic ha sperimentato una esplosiva diffusione mondiale. Ad esempio negli Stati Uniti già la dispora bauhausiana aveva prodotto una molteplicità di ramificazioni, con – sempre – sullo sfondo l’alto magistero di Bill Huff e le sue Parquet deformations. Del resto il termine che noi usiamo, ‘basic’,. è l’americanizzazione dell’espressione Grund (di Grundkurs e Grundlehre).

Addirittura uno dei movimenti artistici non minori americani la Optical Art, è da mettere in diretta connessione con la diaspora bauhausiana e in particolare con Albers docente al Black Mountain College. E la propedeutica visivo–strutturale si diffonde ulteriormente durante il periodo della fioritura di Ulm,.

La diffusione ha un ulteriore soprassalto con la seconda diaspora, quella dovuta alla chiusura dell’HfG (nel 1968): la diffusione si fa universale. Moltissimo in Oriente (India, Giappone), oltre che in America (Nord e Sud), ma anche in Europa dove va ricordata la presenza della Basel di Wolgang Weingart, con il suo basic tipografico che torna (alcuni pensano ‘regredisce’) a un’estrema ispirazione sperimentalista.

Da allora in poi, dovunque ci sia una scuola di design del prodotto, di architectural design, di visual design, si prenderà necessariamente posizione nei confronti della proposta ulmese relativa alla pedagogia della progettazione (pro o contro il basic, ad esempio) e arricchendo comunque il contesto di infinite versioni e pronunzie del basic.

 

Già con Maldonado avevamo osservato l’impostazione conferita alle esercitazioni di basic design intese come caso semplificato di problem solving. Un problem solving circoscritto alle questioni della configurazione, e un problem solving che si concentra su una sola variabile o un solo obbiettivo (la gerarchizzazione percettiva, il pilotaggio della focalizzazione attenzionale, ecc..). In fondo il tema dell’esercitazione formulato per iscritto e strutturato in obiettivi, elementi, nonché regole prescritte, e vincoli esecutivi comuni, può in un certo senso essere visto come una simulazione (di complessità ridotta) del brief progettuale.

Ad esempio io stesso, nel corso di basic tenuto negli anni ’70 presso ISIA di Roma, avevo sperimentato una formula molto spinta della prospettiva problem solving: Si trattava di esercitazioni (in particolare una intitolata “Forme e copertura modulare”) pensate come giochi con regole dove le regole e i vincoli erano stati intenzionalmente fissati talmente rigidi, da costringere il discente a imboccare la via della rottura e della ridefinizione di essi (problem setting) per poter pervenire a una soluzione. Proprio come nella prassi.

 

Ed è in un certo senso questo ricalcare il processo progettuale vero e proprio, questa esigenza di aderire alle modalità della prassi, a preparare il rovesciamento di impostazione che caratterizza l’ambito in epoca sessantottesca, quando il basic si trasforma in una sorta di servizio di consulenza al progetto. La ricerca pura, sistematica e generale si sviluppa come ramificazione del progetto, in un movimento che va dal particolare al generale, ripercorrendo, e in un certo senso ripetendo, magari con originalità, il percorso attraverso il quale le conoscenze si sono formate. Un’epistemologia rifondativa, come si diceva allora, predicata a suo tempo da Lucius Burckhardt, in contrapposizione all’apprendimento nozionale e grammaticale della scienza normale.

Di nuovo come testimonianza personale posso portare l’ormai antico corso di Disegno e comunicazioni visive tenuto da me negli anni ’70 presso il corso di laurea in Urbanistica dell’IUAV di Venezia. Il basic si trasformava in una consulenza ai progetti, che erano, seguendo gli interessi forti degli studenti, in molti casi progetti di comunicazione – come si diceva allora – antagonista. La ricerca pura si sviluppava come ramificazione generalizzante del percorso di progetto, in un movimento del pensiero che va dal particolare al generale, ripercorrendo magari con originalità, il percorso che le conoscenze hanno attraversato nel formarsi.

Molte delle posizioni antibasic di oggi (per esempio la pedagogia per progetti) hanno le loro radici in quelle prospettive, ormai quasi altrettanto antiche. Posizioni fertili e interessanti quando però non si rivelino cavalli di Troia per la regressione, che non sanno parlare altro che di talento e creatività.

La rinuncia alla ricerca pura e alla sua autonomia è qualcosa di molto pericoloso. E l’opposizione puro/applicato è un’eterna querelle ben presente agli scienziati/accademici di tutto il mondo..

Nel nostro campo è curioso come l’ideologia ‘anti–‘, con le sue origini alternative e antagoniste, si trovi oggi a “correre in soccorso del vincitore”, come diceva Ennio Flaiano. Finisca per essere cioè oggettivamente allineata con lo stravincere nell’Università del “contoterzismo” e con il suo trasformarsi – tradendo le proprie finalità istitutive, costitutive e primarie, che sono proprio formazione e ricerca, education e basic – in una agenzia di fund raising.

 

 

Tratto da "Newbasic", "il Verri", n. 43, giugno 2010

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