Siamo ciò che mangiamo?

5 Novembre 2024

Qual è stata l’espressione verbale più efficace in grado di farsi da sola sintesi filosofica?

Quale può essere stata cioè la massima, l’aforisma più rappresentativo rispetto a tutta la storia della filosofia occidentale?

Credo che un’indagine virtuale tra la popolazione non porterebbe al “Tutto scorre”, di Eraclito o al “È sapiente solo chi sa di non conoscere” di Socrate né tanto meno al “Cogito ergo sum” di Cartesio.

Questo nonostante che gli aforismi di cui sopra, come altrettanti chiodo e martello, abbiano dato forma alla percezione emotiva con cui ciascuno di noi, sui banchi del liceo, faceva suo il pensiero di alcuni dei principali filosofi.

No, non sarebbero quelle espressioni a riuscire vincitrici; credo che inaspettatamente sarebbe il “Noi siamo ciò che mangiamo” di Ludwig Feuerbach.

Feuerbach, alfiere del materialismo tedesco e filosofo che la maggior parte delle persone mediamente colte neppure ha sentito nominare, pensatore spesso relegato in una lezione affrettata di fine anno scolastico.

Sì, l’espressione vincitrice sarebbe il siamo ciò che mangiamo perché oltre ad essere un aforisma filosofico, per tutti è in realtà un meme, verità virale che si è propagata e si propaga indipendentemente da sesso, età, condizione, istruzione, cultura.

La frase, usata la prima volta in recensione di un volume del 1850 di Jacob Moleschott, Trattato dell’alimentazione per il popolo, è stata fin da subito folgorante se aveva in seguito curiosamente perseguitato l’autore, reo di aver banalizzato il dibattito rispetto alla filosofia idealista allora dominante.

Moleschott è stato un valente fisiologo olandese che aveva indagato sui fenomeni vitali da un punto di vista chimico e che vedeva la nutrizione (il prelievo di sostanze chimiche nell’ambiente da parte dei viventi) alla base di tutte le espressioni della vita; tutte, anche quelle più elevate – e qui era lo “scandalo” – spirito incluso.

Ma dove risiederebbe il potere virale dell’espressione “noi siamo ciò che mangiamo”?

Credo che questo potere stia nell’essere sintesi della nostra idea di vita rispetto alla natura che chiamiamo cibo. È un’“idea di vita” contemporanea ma sostanzialmente non molto dissimile da quella nata appunto nella seconda metà dell’Ottocento.

In quel periodo, alla concezione meccanicistica della fisica newtoniana della realtà (vita compresa) si sovrappone una “veste nuova”, vale a dire la sua interpretazione termodinamica. Il mondo stava diventando quello che in parte è ancora: l’invenzione del motore a vapore e di quello a scoppio prima e le scoperte degli scienziati Carnot, Clausius, Boltzmann poi, diedero coerenza e significato ai concetti di calore ed energia, ma ebbero come conseguenza anche quella di far assimilare gli organismi viventi, uomo compreso, a delle complesse macchine termodinamiche.

La dittatura del concetto di calorie che ancora ci portiamo dietro nelle innumerevoli diete fai da te o da rotocalco, influencer, dietisti approssimati in fondo muove da lì.

Già…ci percepiamo come complesse macchine in cui il cibo è la “sostanza che ci fa” e insieme ne è il carburante: questo, approssimativamente, racchiude intuitivamente per tutti il significato di noi siamo ciò che mangiamo.

Ma è ancora così? Oppure questa idea, questo meme persistente sta andando incontro a qualche mutamento, forse non ancora ben percepibile ma già in atto?

Due libri recenti pubblicati da Aboca sono in grado, aldilà degli obiettivi originari, di farci interrogare su questo punto.

La casa editrice Aboca occupa nel panorama editoriale italiano una collocazione per certi versi perfettamente riconoscibile, cultura salute natura recita il sottotipo della home page, la salute e natura i focus principali con la cultura a fare da indispensabile collante nel legare questi due poli della nostra esistenza. Del resto l’atto dello scegliere il cibo è sempre un atto culturale – l’albero del peccato originale non è stato forse l’albero della conoscenza del bene e del male?

Così, la scelta editoriale sembra complementare a un’azienda nata farmaceutica a forte connotazione naturale ed erboristica.

Dicevamo che due sue recenti pubblicazioni possono portare a nuove riflessioni circa il meme noi siamo ciò che mangiamo e le sue possibili verità.

La prima, La nuova scienza dell’alimentazione di Pier Luigi Rossi, medico e già docente di Scienza dell’alimentazione presso l’Università di Siena, ha il grosso merito di sovvertire la comoda e ancora diffusissima visione termo-meccanicistica della vita e del metabolismo. Uscire dalla dittatura delle calorie e dell’enfasi sui singoli nutrienti (in particolare carboidrati, proteine, grassi) significa comprendere che il rapporto con la nostra alimentazione è fatto di una combinazione di alimenti che ogni volta agisce sul nostro organismo a livello metabolico, ormonale, così come sul sistema nervoso e sul microbiota intestinale, vale a dire l’insieme dei microrganismi che in simbiosi con il nostro corpo sono di fatto un organismo solo apparentemente alieno. Il microbiota è piuttosto un organismo nell’organismo che interagisce e si modifica in base alla nostra dieta, una sorta di eredità ancestrale impiantatasi in noi lungo il percorso dell’evoluzione che ci consente di essere animali con una dieta non specializzata, ovvero dalle possibilità di composizione e di utilizzazione vastissime, specie nella componente vegetale. Nel complesso, il tema affrontato è l’alimentazione che l’autore chiama “molecolare” in cui i singoli principi attivi assunti con il cibo interagiscono e modulano l’organismo nel profondo, anche nell’espressione delle nostre caratteristiche più “intime”, vale a dire nell’espressione del genoma.

Dopo il piacere di ogni pasto, tutto è silenzioso e tutto sembra immobile in noi, invece nulla è come prima. Ogni volta che noi mangiamo, il nostro sangue cambia la sua composizione in rapporto agli alimenti ingeriti, che ci rendono diversi”.

È solo la premessa necessaria a un’alimentazione “molecolare” perché fatta delle interazioni con le decine e decine di sostanze nutritive e bioattive che ci arrivano dagli alimenti, anche se i nostri alimenti, attraverso processi di industrializzazione spinta, possono essere diventati “altro” rispetto alla loro natura originaria. È questo un punto che spesso sottovalutiamo, perché se è vero che è dagli alimenti che muove la salute, quegli stessi alimenti – e le loro proprietà – sono diventati tali solo attraverso il tempo profondo della selezione e dell’evoluzione.

Un quadro, quello riassunto nel libro dal prof Rossi, utile come aggiornamento delle conoscenze nutrizionali dei molti (troppi) esperti del ramo ma anche al lettore comune (a tutti i consumatori si potrebbe dire se il termine non fosse così brutto di suo) che rinunciando a comode narrazioni vuole comprendere maggiormente come la nutrizione sia una funzione importante non solo della vita ma del dirsi essere viventi.

Il secondo libro porta lontano, porta ad immaginare qualcosa di quella che potrebbe essere la nostra (?) alimentazione in un futuro incerto. Piantare patate su Marte di Stefania De Pascale, docente presso il dipartimento di agraria dell’Università Federico II di Napoli, è di per sé una sintesi – al limite della fantascienza – di nuovi scenari ma che già in modo limitato sono stati prefigurati e sperimentati sull”ISS, la stazione spaziale internazionale che dall’anno 2000 è abitata continuamente da un team di astronauti e ricercatori. Carenza o assenza di acqua, condizioni di micro gravità o assenza di gravità, l’effetto letale dei raggi cosmici e di altre radiazioni ionizzanti su tutti i tessuti biologici, la sostanziale mancanza di fertilizzanti organici, la selezione di specie vegetali idonee alla coltivazione in condizioni estreme sono solo alcuni dei fattori limitanti per una produzione agraria che inoltre dovrebbe essere comunque continua e auto sostenibile vuoi per le materie prime vuoi per l’energia, senza considerare tutta la complessità della sua necessaria validità nutrizionale.

La base di partenza sarebbe quella di realizzare “ecosistemi artificiali, conosciuti come sistemi biorigenerativi di supporto alla vita (BLSS). Si tratta di ecosistemi artificiali basati sulle interazioni tra esseri umani, microrganismi (batteri) e organismi fotosintetizzanti (alghe e piante superiori), alloggiati in relativi compartimenti, in cui ciascuno utilizza come risorsa i prodotti di scarto dell’altro”

Si potrebbe dire un’“alimentazione dell’altro mondo” se il sottotitolo, Il lungo viaggio dell’agricoltura, non chiarisse meglio un importante focus, a mio avviso il più interessante, vale a dire quale potrà essere la declinazione da dare al futuro incerto sul nostro pianeta. Perché studiare e sperimentare forme di agricoltura estreme sulla luna o addirittura, in un futuro difficilmente definibile, su Marte aprirebbe alla possibilità di ricadute sulla fame di calorie che attanaglia “questo mondo”, un mondo che non ha niente di extraterrestre, sovrappopolato e allo stremo della sostenibilità ambientale. La ricerca su sistemi agrari in condizioni estreme potrebbe essere utile per garantire una maggior produzione alimentare in un mondo che si avvia, e non in senso figurato, verso i 9 miliardi di bocche da sfamare.

Ecco che, sorprendentemente, ci troveremmo nuovamente di fronte alla dittatura delle calorie, quella a cui fa riferimento il lavoro di Pier Luigi Rossi ma in una declinazione diversa, che è quella demografica. Non è forse dalla rivoluzione agraria e dal suo successo – ovvero quello di garantire scorte alimentari per una popolazione crescente – che il nostro rapporto con la natura si è andato via via concentrando sulle specie più produttive ed “energetiche”?

Prima della scoperta dell’agricoltura e della rivoluzione neolitica (“solo” 10.000 anni fa, vale a dire tre minuti nella scala dell’evoluzione), la nostra dieta come cacciatori raccoglitori aveva una grande variabilità e una forte impronta casuale; il nomadismo rappresentava la risposta adattiva a quando le risorse alimentari di un territorio erano in esaurimento. Il successo dell’agricoltura e la sua diffusione nelle comunità umane è stato sostanzialmente il successo della quantità di cibo e della sua sicurezza a scapito della maggiore varietà alimentare usufruita per milioni di anni.

È questo il punto, la corretta nutrizione e ciò che questa genera nel nostro organismo, prima di essere un atto individuale (ecco l’importanza della conoscenza) è un atto collettivo che ha preso forma lungo il tempo profondo dell’evoluzione e attraverso la selezione (potremmo chiamarla conoscenza di specie o conoscenza profonda) di tutto ciò che era commestibile.

Non sembra allora difficile prevedere che più ci allontaneremo da questa conoscenza profonda più il siamo ciò che mangiamo perderà parte del suo significato.

Rendere la nostra alimentazione sempre più artificiale, benché strumentalmente più produttiva, ci renderà più distanti dal senso che questa frase ancora esprime mentre potrà rivelare i suoi aspetti negativi, legati ai rischi per la salute, al suo distacco dalla natura, alla perdita dei valori simbolici che il cibo ha sempre rappresentato in ogni comunità e nella vita di tutti.

Siamo quello che mangiamo infatti non ha solo il significato individuale oggi generalmente percepito ma vale anche per quel corpo collettivo, invisibile quanto reale, che è ogni comunità che si riconosca come tale.

Oggi può sembrare curioso come nel “tempo”profondo cui apparteniamo come specie, sia stato il caso il motore per l’evoluzione culturale sul cibo. La massima varietà in cui ci siamo evoluti è stata infatti lo sfondo necessario e primordiale, solo dopo è venuto il riconoscimento a breve termine (entro poche ore, qualche giorno) delle proprietà dei singoli alimenti che è stata la nostra bussola e il nostro ordine “fuori dall’Eden”. Di tutta la comprensione che ci sfuggiva, la varietà e la casualità dell’alimentazione sono sempre state il rimedio per la specie come per ogni comunità. Ogni eventuale “errore” veniva infatti diluito nella varietà delle scelte, almeno finché questa varietà c’è stata naturalmente.

Curioso che il caso sia oggi reietto nell’orizzonte esistenziale di una società sempre più tecnologia, ma sia stato la nostra bussola evolutiva nel destino di onnivori che esploravano il mondo.

Oggi la presunzione di conoscere tutti i dati, tutte le conseguenze anche a lungo termine derivate da un obiettivo come potrebbe essere la colonizzazione della luna (solo per fermarci a questa) se da un lato ci mette a confronto con l’arroganza del fare (quella che gli antichi greci chiamavano hybris) dall’altra prefigura le conseguenze imprevedibili che questa ha sempre comportato.

Che in queste conseguenze possa esserci anche qualcosa che riguarda la nostra alimentazione non è difficile da prevedere; la conoscenza profonda, quella della specie ci arriva da tempi lunghissimi e da “verità selezionate” che difficilmente possono essere smentite.

A margine, e lontano dall’alimentazione, ma completamente dentro l’hybris tecnologica dei tempi moderni nella forma del fervore spesso cieco intorno alla colonizzazione dei corpi celesti più vicini valga una citazione da Piantare patate su Marte, riferita a Elon Musk “…Certo, una visione alquanto ottimistica e a tratti naïf. Ma come si fa a non prendere sul serio chi, come ha fatto lui nel 2018, per provare un nuovo razzo, sceglie come carico utile dimostrativo la sua Tesla Roadster personale con un manichino chiamato Starman al volante, e la invia in un’orbita che si estende oltre Marte, mentre da lassù vengono trasmesse le immagini della Terra con la colonna sonora di Space Oddity di David Bowie?”

, “l’albero della conoscenza del bene del male” e il suo peccato sono lontani, o forse no.

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