La morale dell'ambiente

22 Giugno 2024

È stato scritto che la fragilità – e la sua consapevolezza – costituisce la condizione più profonda dell'essere umano, la sua essenza nei giorni. 

È la stessa fragilità che peraltro caratterizza ogni organismo vivente e che oggi attribuiamo a un ambiente che tutto contiene.

Della consapevolezza di questa fragilità, i classici, le opere letterarie che da sempre “ci parlano”, appaiono la testimonianza più alta, la loro espressione più duratura. 

Devo a un passo di George Steiner questa rivelazione. Il passo è quando lui adolescente di fronte a un compito assegnato dal padre – la traduzione di un brano dell’Iliade – scopre come il classico riuscisse a parlargli da tempi remotissimi.

Le pagine sono quelle in cui il guerriero troiano Licaone è a terra e trattiene con le mani la lancia di Achille. Licaone era già stato risparmiato dall’eroe greco in cambio di un riscatto e ora la supplica del vinto è vana. Ma prima che Achille sia carnefice emerge una pietà che va oltre Licaone e la sua sorte, oltre il destino che tutti accomuna “Perché sì piangi? …E me bello qual vedi e valoroso e di gran padre nato e di una Diva, me pur la morte ad ogni istante aspetta, e di lancia o di strale un qualcheduno anche ad Achille rapirà la vita”.

Nel tempo dei guerrieri omerici fragili davanti alla natura tutta e alla guerra, è il fato l’incombente condizione esistenziale e il valore appare essere l’unica etica.

Coglieva bene quel frangente Rachel Belspaloff in un testo del 1943 “…accettiamo di designare con etica la scienza che studia i momenti di totale smarrimento, quando a dettare la decisione è la mancanza di scelta…” (citato da Valerio Meattini in Dall’Iliade etica senza alterità)

Da quei tempi “senza scelta” e lungo il progredire di una minor dipendenza dalla natura e dagli avvenimenti, anche l’etica acquisisce via via una maggiore libertà e continua a interrogarsi su cosa sia il bene e il male. Diventa così più vicina al nostro senso comune già pochi passi fuori dal cancello dell’Eden, con i dieci comandamenti che ne sarebbero una sua prima concreta espressione. 

L’etica (brutalmente la disciplina che riflette sui comportamenti che agiscono sul bene e sul male) muta nel rapporto che l’uomo ha con la natura e con gli avvenimenti, evolve nella società via via che in essa diminuiscono le sue fragilità, almeno è stato così nella storia della civiltà occidentale.

Oggi parlare di etica ambientale sottintende una consapevolezza matura in cui è la fragilità del mondo come lo conosciamo che reclama diritti e doveri, che chiede nuovi approcci a cosa sia il bene e il male.

Un libro, Il primo libro di etica ambientale (Einaudi 2024), si interroga su questa branca della filosofia, e lo fa a partire dai primi anni Settanta, periodo in cui l’autore (Robin Attfield) fa risalire idealmente la nascita della consapevolezza di come, in ambito filosofico, l’etica dovesse “abbracciare” l’ambiente.

Lo fa rincorrendo la breve storia dell’etica ambientale, le originarie basi religiose, la moderna classificazione, i distinguo e le diverse posizioni che sul tema la filosofia ha avuto nel corso di tempi recenti. Lo fa definendo la terminologia e il campo d’azione su cui l’etica ambientale opera, lo fa ricercando il quadro d’insieme filosofico da cui deriveranno poi le scelte, le azioni e le possibili prevenzioni agli invasivi mutamenti intervenuti nel nostro rapporto con la natura. Ma nel libro ogni termine non è scontato e nell'ottica di un’etica ambientale che definisce se stessa vanno definiti sia attori che scenari. La natura ad esempio è termine in cui comprendere tutte le popolazioni, le altre specie, gli ecosistemi, le future generazioni, il clima e il mondo tutto? E lo stesso vale per l’ambiente e i suoi significati e vale soprattutto per delimitare quella parte di natura degna di “attenzione etica”: l’essere umano naturalmente, ma fino a dove e come allargare l’attenzione? Fino a dove estendere il concetto di dignità morale, vale a dire “ogni cosa che abbia un bene proprio e che possa ricevere dei benefici”? È da estendere alle specie senzienti (sensiocentrismo) o a tutte le specie viventi (biocentrismo)? E come collocare in questo ambito il mondo vegetale e gli ecosistemi (ecocentrismo)? In che modo possono essere anche essi soggetti etici? Problema comunque aperto se in un ecosistema che per sua natura è instabile nel tempo e nella composizione risulterebbe impossibile identificarne il benessere. 

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E poi c’è la rilevanza morale (moral significance) di ogni creatura, vale a dire “il suo peso morale e dunque il grado di considerazione che merita rispetto alle altre”.

Già, ma alla fine che fare? Come tradurre le riflessioni etiche in comportamenti morali dentro un panorama che ha i cambiamenti climatici come immediato minaccioso orizzonte? Escludendo l’antropocentrismo, per ognuna delle posizioni precedenti (sensiocentrismo, biocentrismo, ecocentrismo), una risposta generale forse potrebbe essere in “un’azione … giusta solo in relazione all’equilibrio tra conseguenze positive e negative”.

Un “approccio quest’ultimo definito «consequenzialista», nel senso che la correttezza morale dipenderebbe dagli impatti o dalle conseguenze differenziali di azioni, tratti caratteriali o pratiche”.

È evidente che si tratta di un libro specialistico come l’inserimento nella collana Mappe lascia intuire e in cui l’autore ricostruisce il quadro generale, la terminologia, la classificazione, le distinzioni con cui tentare di descrivere – rispetto all’etica in generale – la neonata etica ambientale.

Al lettore comune resta una domanda. Che fare? Come tradurre gli incerti principi in comportamenti morali utili all’ambiente nell’anno 2024 e a seguire? Come tradurre le sottili architetture dell’etica ambientale in cerca di sé stessa in azioni concrete, di lungo respiro e non contraddittorie?

L’impressione è che l’etica ambientale si trovi di fronte a una difficoltà che è sempre stata quella di gran parte della filosofia di fronte al divenire, vale a dire al mutabile, non permanente, variabile e sfuggente mondo vivente, così lontano dall’incorruttibile e permanente “essere”.

È sempre stato difficile per la filosofia dare un ordine al divenire, ma oggi sappiamo che Eraclito aveva ragione, che “l’essere è il divenire” non rappresenta un frammento tanto oscuro se la moderna fisica attraverso il secondo principio della termodinamica lo conferma. Questo principio dice una cosa semplice e definitiva, dice che in qualunque sistema in cui ci sia calore – un gas che si espande, una cellula, l’universo, noi – le reazioni avvengono spontaneamente solo in direzione dell’aumento del disordine e che in quel sistema, lasciato a se stesso, il disordine complessivo aumenterà sempre fino a quando non sarà possibile alcuna reazione. 

Ludwig Boltzmann è stato lo scienziato che più compitamente ha descritto questo principio: dal 1872 questo principio non è stato mai smentito.

Se questo è il finale già scritto, se questo è il quadro che tutto comprende e noi in mezzo a condurre fragili esistenze a precipizio verso il nulla, allora scopriamo quasi con sorpresa che c’è certamente bisogno di un’etica se dare un ordine al divenire è necessità e insieme tentativo che può momentaneamente trattenere qualcosa del sottile equilibrio che è la vita in tutte le sue forme. 

Naturalmente in questo tentativo il linguaggio della filosofia non può bastare quando per lo studio dell’ambiente sono necessari gli sguardi acuti della biologia, della geografia, della scienza della terra, della chimica, della fisica, della medicina, della paleontologia, dell’antropologia e sicuramente mi sto dimenticando qualcosa.

Durante uno dei bellissimi documentari condotti dal fisico teorico Jim Al-Khalili

(serie originariamente BBC trasmessa su Rai scuola/ Ray play) ho avuto modo di conoscere un’espressione attribuita al matematico David Hilbert: “La fisica è decisamente troppo difficile per essere lasciata ai fisici”.

In questo senso, credo che forse si potrebbe mutuare la stessa formula e azzardare che “l’etica ambientale è troppo complessa per lasciarla solo ai filosofi”.

Peraltro riconosco che, rimosso da qualche parte nella memoria, da studente lo studio dell’etica in filosofia non mi appassionava … la percepivo un po’ “fuori” dalla filosofia, lontana com’era dalla ricerca di cosa fosse la conoscenza e di cosa fosse la realtà. Intuivo poi che il bene e il male erano intrisi di sentimento e lì la conoscenza, inevitabilmente si faceva più aleatoria, più fragile … come ciò che voleva proteggere. 

Rimane tuttavia sempre la domanda urgente nel presente. Che fare?

In realtà lo stiamo tutti scoprendo, giorno per giorno. Ma se vivere, è stato detto, può essere un sinonimo di imparare (e inevitabilmente anche di sbagliare), è certo che per noi, al vertice delle specie senzienti, i margini di errore ci si stanno restringendo addosso, sempre di più.

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TAGGED: Robin Attfield