Quale agricoltura?

13 Febbraio 2024

Dallo schermo colonne di trattori avanzano su strade anonime, poi via via intorno e dentro grandi città. 

Sono immagini che hanno il potere di entrare nelle nostre case, di scuoterci, spettatori stanchi e distratti dalla propria vita come del rito annuale delle canzonette sanremesi.

Di fronte alla protesta degli agricoltori due sensazioni contrastanti: l’ennesima irruzione di una delle tante complessità del reale che rende più incerti e fragili i nostri giorni e insieme la percezione che quella protesta ci riguardi direttamente, che una parte di noi possa essere con loro: una contraddizione solo apparente.

“Da sempre” del resto abbiamo la consapevolezza che l’agricoltura sia legata a doppio filo con il cibo e con la vita, così è anche oggi, almeno per le generazioni più mature. E questo anche senza conoscere l’antica e intima correlazione tra cultura e coltura, entrambe parole e concetti derivati dal latino colere, vale a dire coltivare, avere cura.

“Colta” o meno è una consapevolezza che sfugge ai più giovani, ai quali il cibo fin dall’inizio arriva dai banchi del supermercato, dalle catene di fast food, dai distributori automatici, incellofanato, impacchettato, sterile, sostanzialmente reso “artificiale” dai modelli di produzione, consumo, distribuzione, commercializzazione in cui i giovani sono nati e cresciuti. 

Una percezione artificiale che peraltro è per tutti sottofondo del vivere contemporaneo, un “habitat culturale” che ci ha via via allontanato da una vera comprensione di cosa sia oggi l’agricoltura. Ancora ad inizio anni Cinquanta in un’Italia di poco meno di cinquanta milioni di abitanti gli agricoltori erano circa 9,5 milioni, mentre non arrivano al milione ai nostri giorni, questa la stretta base da cui dipendono circa 58 milioni di Italiani (dati 2022). 

Può essere anche un elemento come questo che spiega le profonde trasformazioni intervenute a partire dal secondo dopoguerra, quando lentamente e poi sempre più velocemente l’agricoltura tradizionale è diventata “altro”, vale a dire un’agricoltura praticata con modalità sempre più intensive, energivore, con largo impiego di fonti fossili e di chimica di sintesi in tutte le sue fasi, lavorazione dei suoli e concimazione su tutte. Nel frattempo – come gli altri paesi occidentali – diventavamo rapidamente un paese di inurbati consumatori.

Così, se si guarda alla stretta attualità si può osservare come la protesta riguardi agricoltori-imprenditori e come questa protesta abbia origine da basi sostanzialmente economiche. In sintesi è un disagio e un humus economico che è all’origine di una contestazione deflagrata rapidamente e nata “per vivere e non sopravvivere” come con efficacia ha dichiarato una manifestante intervistata nel corso di un tg.

Dunque il recinto sostanziale in cui prendono corpo le ragioni degli agricoltori potrà e dovrà trovare una sua forma e composizione all’interno di regole che hanno la loro “sostanza” nel mercato, ovvero tra redditi e fiscalità, tra qualità e quantità dei prodotti, tra opportunità e pressioni della grande distribuzione, tra costo e ricavi, tra investimenti, rischi climatici e scelte produttive, il tutto lungo la moltiplicazione e dispersione di valore di una nebulosa filiera commerciale. 

In questo orizzonte del contendere sarà allora la politica che potrà e dovrà fare la sua parte cercando mediazioni e facilitazioni per il settore là dove possibile, sempre però tenendo presente l’interesse comune superiore, mai come nel cibo davvero comune, perché alla fine noi tutti, noi consumatori inurbati non siamo altro che la parte terminale di quella nebulosa filiera di cui si diceva, la parte più esposta economicamente ma soprattutto quella più coinvolta sul piano della salute, della qualità della propria vita e dell’ambiente, del benessere generale…

Ed è qui, che di fronte a questa protesta si affaccia la sensazione contraddittoria di prima, stretta tra percezione di un rischio e condivisione sociale. Ma il recinto sostanziale del contendere è cambiato di colpo, il re è nudo e non esiste contraddizione, l’orizzonte esistenziale non può essere solo economico ma più vasto e decisivo, per tutti.

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Allora, se la protesta fosse anche il tentativo di resistere a quello che sembra ineluttabile nel presente e nel prossimo futuro, vale a dire un’agricoltura progressivamente libera da fonti fossili e pesticidi, meno dipendente da fertilizzanti chimici, meno inquinante (allevamenti intensivi) e meno esigente in termini di risorse idriche, sostanzialmente un’agricoltura sempre più sostenibile, verde, biologica, allora in questo caso sarebbe evidente che la salvaguardia del bene comune sarebbe altrove, così come l’interesse dei consumatori di cui gli agricoltori sono anch’essi parte.

Solo due esempi: come non ricordare la consapevolezza culturale e politica di Slow Food già dopo la metà degli anni ‘80; un’azione continuata nel tempo che ha contribuito a una rinnovata attenzione generale sulla qualità complessiva della nostra alimentazione e nel rapporto essenziale con la terra. Come non ricordare a partire da quegli anni l’attenzione da parte di Coop e dei settori più sensibili della grande distribuzione alle buone pratiche agrarie e alla salute dei consumatori. Una consapevolezza che è aumentata complessivamente tra la popolazione, anche se ha stentato a tradursi in inversioni di rotta nonostante il parere unanime della scienza, nascosto a lungo sotto il tappeto, vale a dire sotto superiori esigenze economiche a breve termine e sempre di corto respiro, 

Un libro recente, Coltivare la natura, cibarsi nutrendo la terra di Giacomo Sartori, (Kellerman, 2023), recensito su queste pagine, coglie bene anche la dimensione storica di questo aspetto e può fornire al lettore la possibilità di comprendere la criticità attuale nel rapporto fondamentale tra agricoltura, produzione alimentare e consumi.

In questi giorni, nell’affannata e tardiva rincorsa a inseguire le ragioni degli agricoltori ho sentito da un esponente dell’area governativa chiamare i pesticidi con il termine di agrofarmaci: un termine certo “gentile” ma anche civile quanto finto, in buona parte ipocrita. 

Non è dissimulando la realtà o negando la necessità degli obiettivi finali del Green Deal della Commissione Europea o ancora quelli dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile dell’Onu che l’urgente cambiamento epocale verso un altro ambiente e un’altra agricoltura potrà essere risolto.

Oltre l’emergenza di una protesta che viene da lontano siamo tutti dentro un orizzonte esistenziale che non potrà non essere diverso, non può non essere comune.

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