Terra fertile: la trave che tutto regge
Circa il 70% della popolazione del nostro paese vive in aree urbane. Un dato che può sorprendere o meno ma la cui realtà e significato si comprendono appieno solo se si guarda oltre i confini, almeno verso ogni nazione dove l’economia sia ad alto reddito, industriale o post industriale, poco importa il tentativo di classificare con le parole questa caratteristica della nostra contemporaneità. Ovunque, qui il panorama è comune a quello italiano.
Nel 2020 in Italia su poco meno di 62 milioni di abitanti, circa 51 milioni vivevano in aree urbane. Dunque un paese il nostro in cui una larga maggioranza dimora in città grandi o piccole e comunque, anche non considerando il luogo di residenza, tutti ormai attori anzi “comparse” di un’unica economia, quella dei consumi. È una larga maggioranza di consumatori quella che si aggira nei paesi come nelle città, ruolo e destino comune nell’Occidente contemporaneo.
Si sa, il fenomeno ha radici lontane, quando nel secondo dopoguerra, almeno in Europa, l’economia divenne via via fortemente industrializzata e le società sempre più urbanizzate. La produzione e il consumo di beni durevoli, voluttuari o meno, erano l’orizzonte esistenziale di una migliore qualità di vita, quella stessa vita che in città giorno su giorno, costringeva a dipendere dal mercato per ogni necessità. Sparivano via via i produttori – la società contadina – e nel giro di una generazione diventavamo quasi tutti consumatori. In poco più di un decennio una gigantesca bolla, quella del boom economico, trasformò il paese e ci fece quello che ancora siamo.
Eppure… eppure tutto si regge su quella esigua fetta di popolazione che ancora vive fuori dalle città e che sulla terra produce l’enorme massa di nutrimento necessario per tutti. Un’agricoltura e un allevamento che nel frattempo sono diventati sempre più industriali e intensivi. A inizio anni Cinquanta erano circa nove milioni gli addetti all’agricoltura, meno di un milione e mezzo nel 1981, mentre oggi raggiungono a stento il milione. La soluzione per fare tornare le disequazioni tra economia, demografia, stili di vita, tra il mondo urbano e quello rurale è stata l’affermazione di un’agricoltura praticata con modalità sempre più intensive, energivore, con largo impiego di fonti fossili e di chimica di sintesi in tutte le sue fasi, lavorazione dei suoli e concimazione su tutte. Così è stato negli ultimi decenni, e così ancora sostanzialmente è.
Ma qui siamo al punto, se la parola sostenibilità deve avere un senso compiuto e non essere semplicemente un meme con cui il moderno consumatore si assolve (ricordiamo l’enfasi di soli pochi anni fa sui prodotti a km 0?) un’etichetta da applicare su aziende fintamente virtuose, un alibi da cui ottenere una comprensione parziale o anche solo di facciata su quello che ci circonda, allora riflettere sul legame tra agricoltura, ambiente e alimentazione diventa essenziale.
Un libro recente, Coltivare la natura, cibarsi nutrendo la terra di Giacomo Sartori, Kellerman editore, 2023 coglie bene questo aspetto e fornisce al lettore la possibilità di comprendere la criticità attuale nel rapporto fondamentale tra agricoltura, produzione alimentare e consumi.
Giacomo Sartori, scrittore con numerosi romanzi alle spalle (vedi la recensione di Anna Stefi a Sacrificio), alcuni anche tradotti all’estero, di professione è agronomo – profondo conoscitore della biologia dei suoli – e Coltivare la natura è un libro di agronomia, anzi di chiara, e aggiungerei “benedetta” divulgazione agronomica. Il libro ripercorre la storia della produttività dei suoli e la loro fertilità. È inevitabilmente un percorso di storia materiale nella sua dimensione forse più critica per ogni civiltà. Il focus soprattutto sul Mediterraneo, dai saperi delle civiltà pre-classiche, agli antichi Romani fino alla caduta delle loro conoscenze nel periodo alto medievale e poi fino alla loro riscoperta successiva e alle innovazioni del maggese, della rotazione agraria, della valorizzazione delle concimazioni animali in sinergia con l’allevamento ovino e bovino.
I cambiamenti agrari conseguenti alla rivoluzione industriale, la prima rottura quando i fosfati estratti dalle miniere, l’azoto prodotto con processi chimici industriali, la pesante meccanizzazione dei lavori agrari, l’immissione trasversale a tutto il sistema delle fonti energetiche fossili aumentano enormemente la produttività agraria e alimentare. L’agricoltura nella seconda metà del Novecento in tutta Europa si è fatta industria, sempre meno coltivazioni – quelle più interessanti commercialmente – sono al posto delle tradizionali varietà adattate a climi e luoghi, e con l’obiettivo di sempre maggiori quantità.
Bastano tuttavia alcuni decenni di agricoltura industriale e il sistema è al limite in qualcosa che ha a che fare con le sue stesse fondamenta: la fertilità dei suoli che suoli ormai non sono più essendo diventati solo un substrato terroso reso produttivo da dosi crescenti e integrate tra di loro di concimi chimici, pesticidi, monocolture, semenze selezionate per l’agricoltura industriale.
In sostanza, e Sartori lo spiega benissimo, gran parte della piramide alimentare sulla quale una larga fetta popolazione sta poggiata, si reggerebbe su una terra che per mantenere produttività adeguata deve essere “drogata” da dosi crescenti di concimi chimici, pesticidi, monocolture, semenze selezionate.
Qual è la differenza tra suolo e terra? Che i suoli prima dell’agricoltura industriale erano fatti di terra ma anche di un complesso e vitale reticolo di lombrichi, nematodi, insetti, lieviti, batteri, protozoi, ife fungine, e Sartori mi perdoni per quello che dimentico e per la brutale semplificazione, ma sostanzialmente il suolo non era un semplice substrato ma un habitat complesso e un “tessuto vivo” per la crescita delle piante. I suoli in tempi relativamente brevi ripristinavano il loro equilibrio (qualunque forma di agricoltura infatti “toglie” materia vivente ai suoli) ed erano in grado di rigenerarsi per le semine future.
La diversità del clima, della geografia, del paesaggio agrario mediterraneo aveva portato a selezionare tecniche e saperi per la migliore fertilità dei suoli, al plurale proprio per le diversità locali di cui a lungo l’agricoltura era stata rispettosa.
Lontano dalla terra e dai suoli, oggi, almeno in Occidente, la maggior parte della popolazione è nata consumatore ed è questa l’unica condizione esistenziale che ha conosciuto. Nascere e crescere consumatori ci ha reso la vita sostanzialmente facile, prevedibile come possono essere le abitudini che via via abbiamo consolidato attraverso i giorni e quello che è il nostro invisibile ambiente di vita, vale a dire “il mercato”.
È in questo senso che uno dei tratti caratteristici dei nati consumatori è una certa passività intellettuale nell’accettare l’idea di cambiamenti drastici nel proprio stile di vita, abitudini, modi di pensare.
Non inganni il titolo, Coltivare la terra non contiene solo pagine per comprendere le differenze tra l’agricoltura tradizionale e quella industriale o per conoscere cosa sia la “terra” prima del suo utilizzo agrario e produttivo. Sono anche pagine in qualche modo in grado di scuotere quella passività intellettuale che quotidianamente ci conforta, sono altrettante “sveglie” per una riflessione sulla nostra società e le sue contraddizioni partendo dal suo fondamento più elementare; la fertilità della terra che è la trave, anzi le fondamenta su cui tutto si regge.