L’Elisir nei giorni degli anti age 

3 Novembre 2023

C’è una forma di letteratura che generazioni di studenti incontrano nell’età che sta tra infanzia e adolescenza, più o meno nel primo anno della scuola secondaria di I grado, la prima media insomma.

Personalmente, scoprire la mitologia aveva significato confondere la sensibilità ancora vicina delle favole con l’immutabilità della storia e infine vederle diventare un tutt’uno. Era in quel contrasto subito risolto che probabilmente stava ai miei occhi tutto il suo fascino. Solo più tardi avrei scoperto che si trattava di una delle più antiche forme di narrazione, giù nel tempo profondo ai confini della preistoria. Ancora più tardi, da adulto, transitato per studi scientifici, avrei scoperto come la mitologia fosse l’unica letteratura che da quel tempo profondo sembrava poter dialogare con i nostri geni.

Solo alcuni esempi: il mito di Prometeo che per il dono del fuoco agli umani (la tecnologia che ci distaccava dalla natura) veniva condannato da Zeus ad essere incatenato a una rupe, il fegato divorato eternamente da un’aquila. Quel mito e quel “peccato”, in un altro lato del Mediterraneo e della nostra eredità culturale, ricordava Adamo ed Eva e la disobbedienza davanti all’albero della conoscenza del bene e del male. Qui nell’Antico Testamento religione e mitologia erano un tutt’uno ma era lo stesso peccato di Prometeo, il destino che ci porta a ricercare la conoscenza, il peccato che ci rendeva per la prima volta umani, fuori dal volere della divinità, fuori da un Eden dove il tempo era l’eterno presente di una possibile immortalità.

E poi tornando all’antica Grecia, avremmo scoperto presto il nettare e l’ambrosia: già, erano quelli gli irraggiungibili nutrimenti degli dei dell’Olimpo che li rendevano immortali.

Di lato, da qualche parte nei poemi omerici avremmo poi incontrato il dio Efesto costruttore di automi.

Ecco, gli automi di forma umanoide (Robot sarà il loro nome a partire dal dramma teatrale R.U.R di Karel Čapek del 1921) e l’elisir sono in realtà due sogni che hanno accompagnato l’umanità fin dall’inizio della civiltà: non un caso probabilmente.

Il loro possibile punto di unione? Il desiderio solo umano di contrapporsi ai limiti e alla finitezza della vita. Più indietro ancora e al suo fondo più intimo, la solitaria consapevolezza della vita e della sua unicità e fragilità, stigmata dolorosa tra i viventi.

Di questa consapevolezza “l’estensione” cercata nell’elisir e nell’idea dell’automa è una risposta che dalla mitologia attraversa i secoli arrivando fino a noi.

Degli automi in forma umanoide (Robot nell’invenzione di Karel Čapek deriverebbe dal ceco robota, lavoro forzato) sembra ne vedremo presto realtà quotidiane inaspettate, dell’elisir non sembra esserci traccia concreta ma lo stiamo ancora cercando.

Certamente fuori dalla mitologia l’elisir di lunga vita è stato molte cose, l’idea di fondo era che da qualche parte in natura ci fosse una “magna medicina” in grado di curare la vecchiaia. D’altra parte avevamo imparato per prove ed errori che erano centinaia le piante che con le loro “virtù” potevano alleviare e curare diverse affezioni del corpo. L’efficacia delle erbe medicinali era la conferma di rimedi esistenti in natura per le diverse affezioni, erano la conferma di legami sconosciuti in segrete armonie.

Perché lo stesso principio non doveva valere per quella che poteva essere percepita, specie tra i ceti privilegiati, come la più “grande malattia”?

Ma un elisir, in ogni tempo, oltre ogni possibile rimedio, non può non essere stato prima di tutto un’idea della vita che si aveva, dalle fragilità a cui era esposta.

Così fuori da ogni mitologia il primo ostinato elisir di cui si ha una diffusa conoscenza è stato la triaca. Medicamento universale per ogni veleno e ogni male, la cui origine si perde nell’antichità ma la cui preparazione nelle diverse formulazioni arriva fino all’inizio del XIX secolo. Non è la sua eterogenea e mutevole formulazione attraverso i medici e i secoli che deve sorprenderci (diverse piante medicinali ma anche incenso, carne di vipera, mirra, oppio, radice di genziana, bitume giudaico etc…). Quelle formulazioni, repellenti ai nostri occhi, ubbidivano a un’idea della vita in cui i veleni erano presenze dalla natura misteriosa così come veleni sconosciuti erano le innumerevoli malattie che oggi chiamiamo infettive. Non è dunque un caso che la presenza della triaca duri così a lungo se abbraccia praticamente tutta l’epoca della nostra ignoranza microbica e dei relativi medicamenti.

In epoca medievale e rinascimentale, con alterne fortune, un altro rimedio si affacciò come incredibile elisir. L’oro potabile, reso tale con processi alchemici, avrebbe reso incorruttibili le carni per similitudine con le proprietà del prezioso metallo. Del resto, l’affinità, l’analogia, il contrasto e la somiglianza erano le equazioni elementari di un linguaggio in cui si cercava di accedere ai segreti di una natura sconosciuta. Eppure questa astrusa ricerca di una filosofia naturale in cui i diversi elementi dialogano tra loro ci lascia anche qualche perplessità, se non altro filosofica, se Isaac Newton, gigante della scienza moderna, si intrattenne comunque a lungo con studi alchemici. L’alchimia, sorta di filosofia e di protochimica che nella trasformazione della materia cercava la pietra filosofale, misteriosa fondamenta in grado di far “dialogare tra loro” i diversi elementi della materia, e dunque poter trasmutare i metalli in oro così come garantire la longevità. 

A parte gli incredibili elisir e un lunghissimo enigmatico capitolo della storia della conoscenza, il punto sembra un altro. Se ogni elisir, nella lunga stagione prescientifica e preindustriale, aveva sempre avuto alla sua base un’idea di vita e della sua fragilità, qual è ora questa idea quando cosmetici e integratori anti age, frammenti di elisir caotici quanto banali, sono diventati scontata presenza di ogni supermercato?

Qualunque sia l’idea di vita che abbiamo oggi, tra certezze e disorientamento, tra consumi e interrogativi etici, non può non essere anche un sentimento, non può non essere anche l’espressione di una nuova condizione, quella che chiamiamo antropocene, e della sua tardiva consapevolezza. Una consapevolezza che dovrebbe riportarci a ripensare il rapporto con noi stessi, con l’ambiente, la nostra presenza e il ruolo rispetto alle risorse naturali e gli esseri viventi tutti. 

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Kapka Kassabova.

Sarà probabilmente così ma gli esiti si preannunciano imprevedibili…

Un libro da poco uscito (Elisir di Kapka Kassabova, Crocetti editore, 2023), esprime questo sentimento, nel mentre attraversiamo una “terra di nessuno” fatta di nuove consapevolezze ecologiche, rivoluzioni tecnologiche, globalizzazioni pervasive, tradizioni come altrettanti fortini, intelligenze artificiali, rigurgiti metafisici, inamovibili dogmi religiosi… in mezzo, da qualche parte un’idea di noi stessi che va disfacendosi per ricomporsi. Nessun elisir materiale dunque nel libro della Kassabova ma un lungo pellegrinaggio randagio ai margini dell’Europa, in un’area balcanica non lontana dal Mediterraneo, dove l’Islam incontra la cristianità, dove una popolazione bulgara – i Pomacchi – sono la sintesi di queste culture, dove l’economia del turismo si affaccia su territori disabitati, dove la natura ha ancora la magia di dimensioni sconosciute e la raccolta delle erbe medicinali è business per il ricco Occidente e memoria di una medicina antichissima, ancora dagli aloni iniziatici.

Siamo dunque su una terra dai molteplici confini, inevitabilmente dalle molte ricchezze eterogenee, dove le certezze della modernità sembrano sospese e le incertezze pongono domande inattese. Così al viaggiatore che cerca benessere per se stesso partendo dalle erbe medicinali o da passaggi nella roccia carichi di aure misteriose, può capitare di trovarsi inaspettatamente a interrogarsi sul senso della vita aldilà del proprio destino individuale; come se ci si scoprisse a cercare dei rimedi per una società frastornata, per il corpo collettivo che siamo e che non vediamo più.

È questo probabilmente il sentimento che il lettore attento riesce a distillare in circa cinquecento pagine, troppe forse, se alla lunga questo sentimento, ovunque e comunque noi possiamo raggiungerlo, non può non riportare a intuizioni essenziali.

Ma i tempi sono quelli che sono, confusi, per certi versi imperscrutabili, affascinanti… e le strade, qualunque percorso uno voglia intraprendere, mai sicure…

Rispetto ai nostri giorni, credo che una condizione simile, la sensazione di vivere il disfarsi delle certezze e il loro successivo confuso ricomporsi, quella di comprendere quale fosse l’idea della vita e di un possibile benessere, almeno per l’umanità più colta, l’abbiamo attraversata nel XVI secolo. Nel Cinquecento vengono finalmente meno le certezze della tradizione scolastica che anche nella medicina, nel cibo e nella dietetica, nel mondo naturale avevano dettano legge ed erano state per millecinquecento anni semplicemente l‘unico “verbo”. Un nuovo sconosciuto morbo – la sifilide – una nuova geografia, le sconosciute piante provenienti dalla Americhe smentiscono l’immutabilità della natura tramandata dalle sacre scritture, scuotono certezze millenarie, mentre le osservazioni provenienti dalla pratica popolare e la nuova tendenza a curare per sperienza introducono a una nuova conoscenza del corpo e del benessere. In mezzo il disfarsi delle certezze e il plasmarsi di una nuova idea della vita che confusamente emerge.

Ora so che è stato questo quello che mi aveva affascinato nell’incappare e poi studiare Castor Durante (Herbario nuovo Venezia 1585) o Pietro Andrea Mattioli (I discorsi di Pedacio Dioscoride, Venezia 1565) entrambi medici di papi o imperatori, o nell’incontro con il medico spagirico (un medico di esperienza, non letterato, non dotto, che pratica terapie da erbe medicinali e minerali) Leonardo Fioravanti che sempre nel Cinquecento aveva speso la vita peregrinando per l’Italia e per l’Europa e aveva imparato curando, aveva curato imparando e molto aveva scritto.

Piero Camporesi ha studiato a lungo il caotico agitarsi della vita nell’età preindustriale e ci ha lasciato di Leonardo Fioravanti un ritratto (Camminare il mondo, vita e avventure di Leonardo Fioravanti medico del Cinquecento, Il Saggiatore 2021) in cui tra le pagine, le terapie e la filosofia naturale del medico spagirico emerge quell’idea della vita nel suo disfarsi e ricomporsi che a ben vedere è sempre il più autentico humus di un’epoca, il suo fermento più nascosto.

E allora, venendo ancora una volta a noi, il punto è quale sia l’humus che oggi ci appartiene, oggi nell’età degli anti age…

Difficile vederlo quando quell’humus è dentro di noi, quando è tutto intorno e noi siamo in mezzo. Certamente oggi come allora, l’idea della vita e della sua fragilità sta mutando; lontana l’epoca della nostra ignoranza e impotenza microbica siamo diventati umanità che teme e pena soprattutto per malattie degenerative, spesso invalidanti, spesso riducenti la vita solo a un suo surrogato. Inevitabile allora che la forbice tra desiderio di longevità e giovinezza, nei secoli sempre evidente si sia ancora più allargata. Conquistata con i progressi della medicina, i miglioramenti dell’igiene e dell’alimentazione una relativa longevità, è un elisir di eterna giovinezza quello a cui soprattutto si ambisce.

Inevitabilmente allora l’elisir sembra aver preso due strade: da un lato si è fatto cosmetica, sostanzialmente succedaneo e finzione di giovinezza, dissimulazione, negazione superficiale dei segni del tempo, dall’altro, dal lato razionale della nostra idea di vita, quell’elisir si è fatto prevenzione, consapevolezza che è con il controllo di se stessi e dell’ambiente di vita che “quello che ti accade durante gli anni” può lasciare segni minori, può rendere più lievi i giorni e i danni.

È in questa distanza, tra superficiale dissimulazione e perdurante disciplina, che probabilmente sta tutto ciò che può ancora essere chiamato elisir nel significato che è sempre stato, ovvero quello di farmaco risolutivo, di ancora possibile “magna medicina”...

Leonardo Fioravanti scriveva nella sua Della Fisica, Venezia 1582, a proposito di un’acqua rinvenuta in un’isola delle “Indie del Perù”: “…dicono che tutti coloro che si bagnano diventano bianchi e paiono proprio stare di argento purissimo… e vanno alla detta fonte e la detta acqua ha virtù di conservare coloro che la bevono per molti anni senza infermità e perciò che molti si vanno per conservarsi”.

“Dicono che tutti”… Fioravanti, il medico spagirico che cura per sperienza, riporta dunque solo una diceria ma mostra anche la spia di un desiderio e di un sentimento non così nascosto di quella società se ad esempio il conquistador Juan Ponce de León, governatore dell’isola di Porto Rico la cercò a lungo in una spedizione in cui avrebbe scoperto quella che sarebbe stata la Florida. 

Di questo sentimento e di questa dimensione, resterebbe da capire se, trasposta nelle forme scientifiche tecnologiche dei nostri giorni – una pillola, un integratore, una dieta, un farmaco – persiste o meno ancora qualcosa, se resta ancora qualcosa di questa idea di elisir, sogno futuristico di magna medicina…. 

Ma questa non può non essere che un’altra storia.

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