Il fascino discreto degli antiossidanti

24 Gennaio 2025

“…La selezione naturale ci ha foggiati – dalla struttura delle cellule cerebrali alla struttura dell’alluce – per una vita di viaggi stagionali a piedi in una torrida distesa di rovi e di deserto... Se i nostri istinti si erano foggiati nel deserto … allora era più facile capire perché i pascoli più verdi ci vengono a noia, perché le ricchezze ci logorano, e perché l’immaginario uomo di Pascal considerava i suoi confortevoli alloggi una prigione.”

È possibile trovare una conferma dell’intuizione di Bruce Chatwin – qui sospesa tra il letterario e l’antropologico – che la specie umana sia stata selezionata in atavici cammini e attraversando territori estremi?

Oggi la ricerca paleo-antropologica conferma le linee generali di questa storia profonda così come tra coincidenze e conferme può venire in soccorso la nutrizione o più semplicemente il cibo. Del resto, come potrebbe essere diversamente se la dieta è stato il nostro primo linguaggio, il più importante, l’unico che abbiamo imparato come specie?

Non è stato forse questo il nostro primo “dare del tu al mondo”? Sceglievamo dall’ambiente ubbidendo a ciò che ci era più intimamente necessario, proveniente dalla profondità delle cellule e del metabolismo. È in questo senso che quello della nutrizione è l’unico linguaggio umano che non può mentire, conosce solo l’indicativo ed è incapace di ideare “bugie”, pena sempre una qualche malattia o un qualche danno organico.

Vorrei soffermarmi su alcune verità di questa eredità sconosciuta ai più ma che le nostre cellule non riescono a ignorare.

La prima, la dobbiamo immaginare dispersa in terreni marginali, terreni da capre e poco altro ancora. È in questi ambienti che infatti possono essere ospitate piante quali curcuma, mirtillo nero, mirtillo rosso, more, tra gli alimenti più umili e allo stesso tempo più ricchi di sostanze antiossidanti protettive. Un caso?

Un’altra sostanza, l’astaxantina – probabilmente la più efficace tra quelle antiossidanti – è prodotta da un’alga di acqua dolce e si accumula lungo la catena alimentare, gamberetti, salmoni etc. rendendo rosse le loro carni. Anche questa “benedizione” può essere una casualità tra le molte invisibili e disperse nella natura?

Sono queste alcune delle sostanze e degli alimenti antiossidanti che avrei scoperto molti anni dopo l’esame universitario di radiobiologia, che per la prima volta mi aveva affascinato sui meccanismi dell’invecchiamento e sui suoi “antidoti”. Fino agli anni ‘90 infatti l’attenzione era stata sul ruolo protettivo delle sostanze pure come la vitamina C, la vitamina E, il selenio. In quegli anni erano sostanze che avrei cercato negli integratori alimentari, felicemente e ingenuamente convinto delle verità sui meccanismi del metabolismo e soprattutto senza farmi troppe domande, senza chiedermi molto altro. Insomma li avrei cercati come un “felice consumatore”, un po’ più acculturato della media ma sostanzialmente di questo si trattava.

Anni dopo, l’attenzione generale si sarebbe spostata su altri antiossidanti naturali, più potenti ma di cui soprattutto veniva tracciato e compreso il ruolo biologico nel mondo naturale, non solo sull’uomo: polifenoli e carotenoidi soprattutto, quelli appunto presenti in particolare nella curcuma, nei mirtilli, nelle more etc. Così un quadro meno scontato si sarebbe lentamente composto ai miei occhi; si trattava di specie viventi evolutesi in ambienti difficili, più esattamente in ambienti stressogeni, a causa dei raggi UV, delle escursioni termiche, della carenza d’acqua (come per la pianta Curcuma longa L. da cui si estrae la curcuma), della carenza di ossigeno in acque dolci (astaxantina).

Alimenti da deserto, dunque, da deserto e dai suoi frastagliati margini, così come da crinali montuosi o da specchi d’acqua a rischio essiccazione o ancora da altri habitat che possono ospitare, persino si pullulare di vita; ma mai nelle forme “dell’abbondanza” piuttosto nelle varianti dette estremofile, capaci cioè di adattarsi a condizioni ambientali (temperatura, salinità, raggi UV etc.) estreme.

Lì, sui frastagliati margini di quei “deserti” ci sono creature – animali e soprattutto vegetali – quasi extraterrestri nelle difese previste dalla biologia a condizioni avverse. È su quei confini estremi che i nostri antenati devono avere a lungo camminato, schivando rischi, cogliendo magre opportunità, “ballando la vita” così come potevano.

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Del resto, ancora oggi, guardandoci nudi davanti a uno specchio non possiamo forse percepire tutta la nostra intrinseca inadeguata fragilità rispetto all’ambiente primitivo, anche solo provando a immaginarlo?

Prima delle tecnologie che ci resero abili cacciatori e individui meno fragili, per milioni di anni avremmo frequentato quei confini ostili; di tutto questo deve essere restata una necessaria traccia scritta sul DNA come nelle affinità alimentari che ci legavano all’ambiente e al nostro destino.

Colecalciferolo è il nome di un’altra verità della nostra intima natura nomade, verità convincente fino al midollo del nostro essere umani.

Colecalciferolo o Vitamina D3 il nome con cui è più conosciuta, per tutti semplicemente vitamina D. Nella forma attiva è una sostanza indispensabile al nostro organismo che assumiamo discretamente attraverso carni, pesci, uova, latticini. Alimenti ricchi nutrizionalmente, i più difficili da ottenere e un tempo frutto solo di predazione, oggi alimenti solo dal costo economico più elevato.

Eppure per questa vitamina – unica eccezione tra tutte – esiste un’altra possibilità, apparentemente slegata dall’alimentazione ma profondamente connessa alla nostra storia profonda, al nostro modo di stare nell’ambiente. Il colecalciferolo infatti può essere ottenuto anche attraverso l’esposizione al sole, dove un suo precursore, presente nella pelle, è trasformato dalle radiazioni solari nella sua forma attiva. È una possibilità di assunzione aggiuntiva e alternativa alle fonti alimentari che sposta l’attenzione all’ambiente e a come viene vissuto. L’assunzione della forma attiva della vitamina attraverso la radiazione solare, ci mette di fronte a un’ulteriore conferma dello stretto legame tra noi e la luce, tra noi e la vita brada per cui eravamo nati.

Prima di essere indispensabile per il metabolismo del calcio e del tessuto osseo, prima della prevenzione dell’osteoporosi, prima della sua azione anti infiammatoria ed altro ancora, una molecola chiamata vitamina D3 ci ricorda che il cammino e una vita nomade in fronte al sole hanno sempre fatto parte del nostro destino.

Alla fine, sembra che anche la nutrizione possa raccontare la stessa storia riportata in molti miti, nella paleo antropologia, nell’Antico Testamento. Sui frastagliati margini di quei deserti che per nostra fragilità abbiamo lungamente frequentato, la vitamina D3 e una manciata di alimenti che avremmo un giorno chiamato antiossidanti proteggevano le diverse forme di vita, comunque fragili.

Se è vero che la nutrizione è l’unico linguaggio che non può mentire, ecco che per noi contemporanei emergerebbe dagli abissi del tempo una memoria fatta di un cibo frugale per quantità e qualità, un cibo nomade fatto anche di camminate incontro al sole, al bordo di deserti e paludi, fatto di bacche, radici, piccoli frutti.

Resta l’assenza odierna di quei deserti che per civiltà abbiamo ripudiato. Eppure… surrogato e privilegio della nostra contemporaneità, ci si può almeno intrattenere con una reminiscenza di cibo nomade, fossero solo mirtilli disidratati o pillole a base di curcumina quello che andiamo cercando.

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