Via sulle navi, filosofi! / Terra / Mare

19 Aprile 2019

“Davanti all’oceano, il sognatore d’immensità ama sedersi in una sedia di pietra”, scrive Gaston Bachelard. Ai suoi occhi, la rêverie ha la necessità impellente di trovare immagini di protezione, di rifugio; per sentirsi a proprio agio di fronte all’instabilità del mare, ha bisogno di un’ancora in una rientranza della scogliera. Dalla spiaggia si contempla male il mare, per dominarne la potenza con lo sguardo meglio rannicchiarsi alla sommità delle rocce. Chi contempla troppo a lungo il mare rischia di sentirsi chiamato dall’abisso, dal “crepaccio entro cui il mondo spariva. L’onda di roccia invece proteggeva: ferma lassù, piena di luce”, scrive Francesco Biamonti in L’angelo di Avrigue. Di fronte al selvaggio scatenarsi del mare, che può rendere folli i marinai in balia della tempesta, è opportuno posizionarsi almeno sulla riva, suggeriva Jules Michelet fin dall’apertura di Il mare. La sua tetralogia dei regni della natura (Il mare, La montagna, L’uccello, L’insetto) incarna il mutamento di posizione che l’uomo assume di fronte alla realtà. Da una proto-fisica dei quattro elementi materiali, sul modello del presocratico Empedocle, si passa ad una psicologia, dal discorso sul mondo si passa al discorso sull’io contemplante, su come il mondo esterno è visto dall’interno. Da Cartesio alla fenomenologia (incapace di realizzare il proposito di Husserl, “tornare alle cose stesse”) e all’esistenzialismo, la coscienza diventa il buco nero in cui la realtà corposa delle cose finisce per dissolversi. La filosofia naturale di Michelet si pone nel mezzo di tale percorso: sta sulle due rive, da un lato la pienezza del mondo esterno, dall’altro l’interiorità dell’io, preludio di quel momento intimista e bachelardiano in cui le cose arretrano di fronte all’invadente ombra proiettata dal soggetto. “Il mondo esterno come immagine ed il mio rapporto con esso attraverso l’immaginazione. Mentre, per mio padre e la mia non lontana infanzia, era formidabile”, ha scritto Michel Serres.

 

Le pagine iniziali di Il mare propongono una sorta di epistemologia dell’osservazione rigorosa, suggeriscono la postazione opportuna per lo sguardo savant: occorre vedere il mare dalla riva, se fossimo in mezzo allo scatenarsi selvaggio delle acque la paura ci impedirebbe di vedere, toglierebbe ogni luce. In molte lingue, l’etimo del mare si apparenta alla notte e alle tenebre; il sole-padre vi si spegne tutte le sere, vi si inabissa forse per fare l’amore con il mare-madre. Se conoscere è freudianamente sostituirsi al padre, bisogna ripeterne il gesto, immergersi nel corpo nero; ma se per sapere occorre la cartesiana chiarezza, il mare resta inconoscibile e irrazionale, le nostre reti teoriche pescano dei pesci, ma non trattengono l’acqua che scivola via. Se la sperimentazione è il dialogo con la natura di cui parla la scienza, tuffarsi nel mare significa rendere ogni conoscenza oscura, in esso il rumore di fondo rende impossibile la comunicazione.

  

L’osservatore deve allora farsi prudente e astuto, porsi, come fa Michelet a Granville, al riparo della finestra di una stanzetta (gesto ripetuto di fronte al ghiacciaio di Grindelwald), per proteggersi da “un esercito di flutti nemici che venivano insieme all’assalto”. Anche stando sull’alto della falesia, il grande nemico si rivela una potenza benefica; il mare-nutrice porta gli alimenti alle rocce, dove brulica la vita dei molluschi laboriosi e silenziosi che lasciano la parola al loro sublime padre, l’Oceano. Dalla cima della scogliera anche le tempeste vengono domate e si può stare tranquillamente seduti; mentre si trova a Nervi, Michelet lascia la protezione della finestra per avventurarsi sulla corniche di rocce vulcaniche, ma deve appoggiarsi alla rientranza di un muro per impedire che la furia delle acque lo trascini via. Le onde scatenate nelle tempeste sono mostri che non si accontentano di quelle vittime che sono i naufraghi: chiedono “la tua morte, e la morte universale, la soppressione della terra, e il ritorno al caos”.

  

 

Posto in alto e alla giusta distanza, lo spettatore sulla terraferma può contemplare lo scatenarsi della tempesta, addirittura godere la visione del naufragio che altri stanno correndo. Spettacolo soave, dice l’incipit del secondo libro del De rerum natura di Lucrezio, ad anticipare il sublime dei romantici: Suave, mari magno turbantibus aequora ventis, / e terra magnum alterius spectare labore; / non quia vexari quemquamst iocunda voluptas, / sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est [Bello, quando sul mare si scontrano i venti / e la cupa vastità delle acque si turba, / guardare da terra il naufragio lontano: / non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina, / ma la distanza da una simile sorte]. Confidando sul solido terreno offerto dalla filosofia di Epicuro, lo spettatore è simile agli dei imperturbabili che vivono negli intermundia: il saggio contempla senza scomporsi il mare in tempesta, cioè il vorticoso turbinare degli atomi in natura e gli sconvolgimenti delle società umane. Conquistata l’atarassia, può sfuggire le intemperie del mondo, osservare con sereno distacco la “guerra iniziata da tempo infinito”, dove il gemito dell’uomo che muore si mescola al vagito del bimbo che nasce. La metafora del naufragio con spettatore, analizzata da Hans Blumenberg, equivale qui a mantenere la distanza di sicurezza rinunciando ad accogliere l’invito del rischio: solo così si può godere il piacere estetico dello spettatore, al prezzo però di cadere nell’insensibilità etica al dolore degli altri. Del resto, chi abbandona la solidità terrestre incorre nella vendetta divina: fra i quattro elementi solo la terra è concessa all’uomo, Prometeo è punito per aver rubato il fuoco, Icaro non trova nell’aria sostegno al suo volo, l’Ulisse omerico è tenuto lontano dalla sua isola e il tracotante Ulisse dantesco vede richiudersi le acque sopra di sé, “come altrui piacque”.    

  

Ma quando il mare è tempestoso non è consigliabile avvicinarsi alla costa in cerca di protezione; soprattutto al tempo della navigazione a vela, il rischio del naufragio aumenta in prossimità delle rive rocciose. Nel capitolo “La costa sottovento” del Moby Dick la nave procede timorosa in balia della tempesta: “Il porto le darebbe volentieri soccorso; il porto è pietoso, nel porto c’è sicurezza, comodità, focolare, cibo, coperte calde, amici e tutte le cose della nostra vita mortale. Ma in quella bufera il porto, la terra, sono per la nave il rischio più temibile. Essa deve fuggire ogni ospitalità; toccare terra una volta, anche soltanto sfiorando la chiglia, significherebbe far rabbrividire la nave da cima a fondo. Con tutta la sua forza essa apre ogni vela per allontanarsi da terra e, così facendo, lotta proprio contro i venti che volentieri la spingerebbero a riva e si getta di nuovo alla ricerca dei mari sconvolti, purché lontani da terra; per cercare salvezza si precipita disperatamente nel pericolo; l’unico amico è il più spietato nemico!”. Nella metafisica marina di Melville, il contrasto fra la terra ed il mare non delinea soltanto l’opposizione fra libertà e servitù, ma si apre anche ad una prospettiva etica e conoscitiva, alla rivelazione di una verità intollerabile ai mortali: “che ogni pensiero profondo e serio non sia altro che l’intrepido sforzo dell’anima per difendere l’aperta indipendenza del suo mare, mentre i venti più selvaggi del cielo e della terra cospirano per gettarla sulla spiaggia della schiavitù e del tradimento. Ma siccome solo nella mancanza di terra risiede la più alta verità, che è senza riva, infinita come Dio, così, meglio perire in quell’infinito ululante che essere ingloriosamente lanciato sottovento, anche se questo volesse dire la salvezza. Perché chi, allora, come un verme, vorrebbe strisciare vigliaccamente a terra? Terrore dei terrori?”. 

  

Solo sulla terra si realizza l’esigenza di stabilità che anima l’uomo comune, il suo bisogno di sentirsi al centro e di ancorare salde radici: nell’oceano non si pongono fondamenta, del mare non si può stare al centro, l’anima oceanica è senza radici. Auden, in Gli irati flutti, riporta un verso di Byron: “L’uomo segna la terra di rovine – sulla riva finisce il suo controllo”. Il mare è assenza di memoria, non conserva le tracce della desolazione che l’uomo scatena sulla terra, non risponde alla logica agonistica e agonica che esprime l’ansia di dominio sulle cose. “Il mare non porta, come la terra, le tracce delle fatiche dell’uomo e della sua vita. Nulla vi sosta, nulla vi passa se non fuggevolmente, e quando le barche lo solcano, come svanisce in fretta la loro scia! Di qui la grande purezza del mare, che le cose terrestri non hanno”, scrive il Proust di I piaceri e i giorni. Il mare ci incanta e scatena la nostra immaginazione perché, al pari della musica, non conserva tracce sensibili e non dice nulla degli uomini, si limita a riprodurre i moti della loro anima. Sta in questo la fascinazione che il mare esercita su quanti hanno il presentimento dell’insufficienza della realtà a soddisfare le loro aspirazioni, della volgarità dei sentieri della terra. “Il mare non è separato dal cielo come la terra, è sempre in armonia con i suoi colori, si commuove per le sue sfumature più delicate. Scintilla sotto il sole ed ogni sera sembra morire con lui. Quando poi è scomparso, continua a rimpiangerlo, a conservare un po’ del suo luminoso ricordo, di fronte alla terra uniformemente oscura” (Proust).

  

 

A quanti ritengono che il mare sia una fonte di ispirazione privilegiata per la creatività letteraria Biorn Larsson replica che il mare non produce immaginario. L’Odissea narra le peripezie di un soldato-contadino che vorrebbe tornare a posare i piedi sulla sua terra. I pescatori sono spesso chiamati “i contadini del mare”, quasi si volesse ancorare alla terra anche il loro lavoro. Ancor più questo vale da quando la navigazione non è più a vela e la vita di bordo non è più un vettore del rischio implicito nella libertà. Il gruppo di marinai perduti del romanzo di Jean-Claude Izzo, rimasti a bordo della nave abbandonata nel porto di Marsiglia per il fallimento dell’armatore, avverte il proprio mestiere troppo simile a quello dell’impiegato statale, senza fascino né suggestione. Il porto non concede nessuna sicurezza, sulla nave che non conosce più la liberazione del mare aperto si consuma la tragedia. Nell’opera di Biamonti, il mare è soprattutto un “aldilà”; lo si guarda da terra per cercarne l’orizzonte, quando si solcano le acque a contare sono ancora i segreti della terra: lo sguardo si volge indietro, si avvertono i profumi di cui il vento marino è rimasto intriso nel suo passaggio sui campi. “L’uomo di terraferma crede che il marinaio sia felice di andare, non sa che è intessuto di angoscia e sogni e che gli sembra di percorrere una via che non conduce a nessun luogo. Per questo si affeziona agli strumenti che gli fanno tenere le rotte e lo porteranno da qualche parte. Il marinaio non arriva mai nel suo, non ha possessi, il suo sguardo anche più attento è sempre muto. Parla per farsi compagnia, oppure tace, e quando parla, spesso delira, non vuol convincere nessuno” (Attesa sul mare). 

  

Un tempo l’opposizione fra la terra e il mare rinnovava quella fra agricoltura e commercio, fra sedentari e nomadi. Siamo figli del mare, come vogliono popoli talassici o potamici, che si dicono generati dalle acque marine o fluviali, oppure siamo figli della terra, come vuole la tradizione ebraico-cristiana o la mitologia della Madre Terra? Il nucleo dell’esistenza terrena, sosteneva il teorico del diritto Carl Schmitt in Terra e mare, è la casa: il termine “contadino”, in tedesco Bauer, deriva da Gebaude, l’edificio, la costruzione ben salda sul suolo. Schmitt assume terra e mare come riferimento per una considerazione della storia del mondo, sulla scorta di quanto Hegel osservava nei Lineamenti di filosofia del diritto: “Come per il principio della vita familiare è condizione la terra, fondamento e terreno stabile, così il mare è per l’industria l’elemento naturale che la stimola verso l’esterno”. L’uomo di terraferma addomestica animali e coltiva vegetali, ma è in ambito marinaro che si sviluppa l’interesse verso le tecniche e si elaborano di strumenti. Nel passaggio che l’Inghilterra compie dal Cinquecento (ma prima lo aveva compiuto Venezia) verso una forma di vita marittima Schmitt scorge il presupposto per lo scatenarsi successivo della rivoluzione industriale. La nave impone agli uomini uno spazio diverso da quello terrestre, il corpo deve ritrovare di continuo un equilibrio smarrito, rimane sempre in scarto, lungo la pendenza che porta a declinare (metafora dell’esistenza di ogni cosa): non lo spazio piano della geometria euclidea o della metrica cartesiana, ma una varietà fluttuante e instabile che veicola un diverso tipo di rapporto degli uomini fra loro e con la natura. Tappa essenziale dello sviluppo di una potenza oceanica è l’epopea della caccia alla balena che Schmitt vede esemplificata sia in Il Mare di Michelet (1861) che in Moby Dick di Melville (1851). Michelet è il cantore romantico della balena, ne descrive con commozione la vita familiare, innalza una lode ai suoi cacciatori per averci emancipato dalla costa e guidato verso lo spazio aperto sull’infinito. Melville narra il colpo di sonda gettato nella profondità dell’Oceano grazie alla lotta con il suo essere più diabolico, il Leviatano/balena, come se lo scontro fra l’uomo e l’animale anticipasse quella relazione amico-nemico di cui Schmitt ha fatto il fondamento della vita politica. 

  

Vi sono filosofi della terra e filosofi del mare. I primi prediligono proteggersi nella clausura delle case, nella stanza riscaldata dalla stufa, come il Cartesio in cerca di una salda roccia di fondazione e della costanza anche nella morale falsamente provvisoria; sono stanziali e sedentari, inseguono la sicurezza, hanno i piedi per terra, come vuole la saggezza popolare. I secondi si affidano all’incerto variare del tempo, non di quello cronologico, time, ma di quello delle meteore, weather. C’è chi intraprende una “seconda navigazione”, quando il vento è calato e il mare è in bonaccia: lasciate le vele si fa ricorso ai remi, suggerisce la metafora del Fedone platonico, si pone termine all’indagine naturalistica che si ferma al mondo sensibile per volgersi alle Idee immutabili della metafisica. «… accettare, fra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita: a meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, cioè affidandosi a una rivelazione divina» (Fedone). La terza navigazione, quella che apre lo spazio della teologia e che Agostino intraprende, confida pur sempre sulla solidità della nave, spera di evitare il rischio del naufragio nella certezza del consolante approdo ultraterreno.

 

 

Ma la vera meta del viaggio in mare, suggerisce Björn Larsson, si nasconde sempre dietro la linea dell’orizzonte: non si smette mai di stare all’erta, sulle acque s’impara a convivere con la precarietà, a ignorare la presunzione, tutto è tarassia, turbamento vorticoso. Il mare non è una sfida lanciata alla morte o alla vita, significa poter vivere da nomadi, senza essere visti come una minaccia all’arrivo dai proprietari dei terreni; nel momento in cui il marinaio scende a terra, se dichiarasse l’intenzione di restare, trasformerebbe il suo potere di sedurre e far sognare in realtà ingombrante. Il marinaio è sempre altrove, l’altrove è il luogo da cui non smette di giungere; e il mare è soprattutto la possibilità di un incontro con l’altro, con lo straniero che chi si barrica dietro le persiane e innalza muri di protezione considera solo minaccia. Come il mare, anche la letteratura e la filosofia sono luoghi in cui si sperimentano altre vite, altri pensieri, altre identità, in cui ci si mette in gioco. Senza bisogno di porti di attracco, senza la sosta nelle acque territoriali in cui regnano legge e ripetizione, semplice prolungamento di nazioni definite da frontiere invalicabili. Come il vero marinaio, anche il filosofo-scrittore naviga senza bandiera e sogna sempre l’altrove che si nasconde dietro l’orizzonte. La vita in mare rappresenta una condizione liminare, consente di stare sul limen (confine), in attesa sulla soglia: un antico proverbio, già noto a Platone e che Jacques Brel riprende in una sua canzone (L’ostendaise), ricorda che “ci sono i vivi, i morti, e quelli che vanno per mare”. 

   

Un pensiero che fa dell’oceano il simbolo di una visione dell’esistenza preferisce, suggerisce Larsonn, la ribellione al servilismo, l’insubordinazione all’obbedienza, l’eccezione alla triste normalità, la scoperta alla conferma, il meticciato alla monocromia, il sacrilegio alla consacrazione. Filosofia e letteratura offrono solo un’insicurezza salutare, non riconoscono l’autorità del capitano, stanno sempre dalla parte dell’equipaggio. Michel Serres, che in giovinezza abbandonò la carriera di ufficiale di marina per non prestarsi alla logica militare, riporta le parole con cui la vedova di un marinaio motivava la sua scelta di sposare chi se ne sta lontano a vagare sulle acque: “Staccarsi dal molo, dal porto, dalla città, dalle mura, da tutte queste storie di uomini invidiosi e in competizione, quando la pelle si raggrinzisce dal freddo, staccarsi da terra per affidarsi al vento. Volevo un marinaio perché un marinaio vola. Non nuota, come un pesce o come un remo, ma vola. Quando arriva, atterra. Tocca terra e torna tra i rivali. Staccarsi dalle rive, entrare nella pace violenta dei venti”. Certo, i marinai non ci sono mai, quando sbarcano e tornano a casa restano silenziosi, lo sguardo assente; sempre meglio comunque, prosegue la vedova, di quei piccoli despoti domestici, che riportano ogni sera a casa il piccolo inferno complicato del loro risentimento. Proviamo a immaginare un mondo in cui gli uomini siano quasi sempre in mare, mentre le donne se ne stanno a lavorare un po’ la terra, nutrire gli animali, fare dei figli ogni tanto e dedicare alla musica il resto del tempo. “Sulle navi, gli uomini sarebbero forse abbastanza lontani da dimenticare l’odio e la guerra. E se si divertissero a farla, colerebbero a picco. Il naufragio sarebbe il filtro della pace” (Distacco).  

  

Dopo che la rivoluzione copernicana si è compiuta, la Terra perde insieme alla centralità anche la stabilità, anch’essa fluttua dispersa negli spazi infiniti, il cui silenzio sgomentava l’animo di Pascal. Non è più possibile stare al sicuro, spettatori sulla riva, la salvezza non consiste più nel distacco di chi contempla la rovina degli altri, ma nella partecipazione alle loro sofferenze, nella condivisione della precarietà della loro condizione. “Noi voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un’eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificare una torre che si innalzi all’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola e la terra si apre sino agli abissi” (Pascal). Non vi sono più punti di vista privilegiati per spettatori imperturbabili, né teorie che possiedano una base incrollabile, un fundamentum incossussum. “Vous êtes embarqués”, recita la formula di Pascal, vivere equivale a essere già in mare aperto, non possiamo che correre il rischio di scommettere, sull’esistenza di Dio come sul nostro destino: non possiamo astenerci dalla scelta, come avrebbe voluto Montaigne con l’invito ad indugiare nel porto. 

 

Il Deus absconditus di Pascal muore nel pensiero di Nietzsche; con la sua morte cade la differenza stessa fra terra e mare, anche la terra vacilla e spalanca i suoi abissi.  “Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! … e non esiste più ‘terra’ alcuna”, canta il capitolo “Nell’orizzonte dell’infinito” della Gaia scienza nietzschiana. Non solo siamo imbarcati e al largo, ma per timore di mancare il naufragio evitiamo di schivare gli scogli, suggerisce il nichilismo eroico. Ma la felicità del naufrago giunto sulla terraferma è incrinata dalla consapevolezza che anche quest’ultima vacilla. Condizione invidiabile in verità perché induce a non porre termine al cammino, suggerisce la Gaia scienza: “Anche la terra della morale è rotonda! … c’è ancora un altro mondo da scoprire: e più d’uno! Via sulle navi, filosofi!”. 

 

Bibliografia

 

Gaston Bachelard, L’eau et les rêves, 1942, trad. it. Psicanalisi delle acque, Red, 1992

Francesco Biamonti, L’angelo di Avrigue, 1983, Einaudi 

Francesco Biamonti, Attesa sul mare, 1994, Einaudi

Hans Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, prefazione di Remo Bodei, Il Mulino, 1985 

Jean-Claude Izzo, Marinai perduti, E/O, 2001

Björn Larsson, Raccontare il mare, Iperborea, 2015

Melville, Moby Dick, Herman Melville, Moby Dick, traduzione di C. Minoli, Mondadori 

Jules Michelet, Il mare, Il nuovo melangolo, 1992 

Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, 1882, Adelphi

Blaise Pascal, Frammenti, Rizzoli, 1983

Marcel Proust, I piaceri e i giorni, 1896, Bollati Boringhieri, 1988 

Michel Serres, “La zuppa, il ciclone, la donna”, in Hermès IV. La distribution, Editions de Minuit, 1977, traduzione parziale in Riga, 35, 2015 

Michel Serres, Distacco, Sellerio, 1988

 

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Mario Porro, Il mare specchio

 

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