Romanzo di Londra / Un Adamo fra le rovine

14 Febbraio 2021

Nato sotto l’Impero asburgico nel 1893, Miloš Crnjanski, dopo aver combattuto nella prima guerra mondiale sul fronte galiziano-russo e su quello italiano entra in diplomazia. Nel 1940, ottenuti diversi incarichi in Portogallo, in Germania e in Italia,  decide di prolungare il suo esilio in Inghilterra. Tornerà a Belgrado, malgrado la sua avversione al comunismo, nel 1965. Poi, dal 1972 al 30 novembre del 1977, giorno in cui morirà di una morte lenta e volontaria, non scriverà più nulla. 

Quasi tutta l’opera matura di Crnjanski è stata pensata e scritta da espatriato in un paese straniero, ai margini del dibattito politico e letterario jugoslavo, ai margini della società letteraria inglese e perfino ai margini della stessa comunità serba di Londra. Probabilmente a causa di ciò, la sua gloria postuma non ha mai raggiunto quella del suo grande compatriota Ivo Andrić, premio Nobel nel 1961. 

Per Crnjanski e sua moglie Vida gli anni in Inghilterra furono privi di luce. E di questo si narra nel suo ultimo romanzo, Romanzo di Londra (1971).

 

Povertà, frustrazione e nostalgia sono le dee che visitano il minuscolo appartamento di Mill Hill, alla periferia di Londra, dove vivono i personaggi protagonisti: il principe Nikolaj Rodionovič Repnin e sua moglie Nadja. Fuggiti dalla Russia in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre e alla guerra civile, giungono, dopo anni di peripezie attraverso l’Europa (Atene, Lisbona, Milano, Praga, Parigi), nella capitale inglese ancora devastata dalla seconda guerra mondiale. Qui la coppia vivrà di stenti. Entrambi lottano l’uno per salvare l’altro dal naufragio. Repnin, a dispetto del suo orgoglio, della sua conoscenza delle lingue e della sua cultura, si arrabatta tra mille difficoltà: commesso in un negozio di scarpe; praticante in una libreria; aiutante in un maneggio di cavalli. Mentre Nadja se ne va in giro per la città a vendere le sue bambole di stoffa che lei stessa confeziona. Ma diverso è il modo in cui ciascuno intende questa salvezza. Costantemente assorbito dal ricordo della patria perduta, Repnin non serba illusioni, medita il suicidio e vorrebbe convincere la moglie a raggiungere una zia in America. Quanto a Nadja, più giovane di Repnin, allegra e tenacemente attaccata alla vita, cerca in tutti i modi di distogliere il marito dai suoi pensieri di morte. Purtroppo neppure la vacanza impostagli in Cornovaglia avrà l’esito sperato. Repnin si destreggerà fino all’ultimo tra cuori sensibili al suo fascino esotico e quanti, tra politici filantropi e nobildonne caritatevoli, vorrebbero salvarlo. Dopo la partenza della moglie per gli Stati Uniti, Repnin, di trasloco in trasloco, scivolerà verso l’irreparabile, colloquiando nella sua mente con un vecchio compagno d’armi morto suicida, imprecando contro Napoleone e sfogliando, al termine delle sue giornate solitarie, un libro illustrato su San Pietroburgo: «ultima gioia della sua vita».

 

Con Migrazioni (1929, 1962) e Romanzo di Londra, diversi critici hanno detto che Crnjanski ha rappresentato, come forse nessun altro scrittore europeo, l’eterno dramma dell’esilio. Certo. Tuttavia, in Romanzo di Londra, l’esule, il rifugiato, l’émigré, il profugo Repnin è soprattutto una «displaced person», una persona “spostata”, che dovrebbe essere “sostituita”, e a cui di conseguenza è chiesto il sacrificio di adeguarsi a un modo di vivere diverso, a una lingua diversa, ad abitudini diverse. Non è forse quel che si chiede a un esule? Sii uomo abbastanza da non essere più l’uomo di prima! Gli si chiede, in fondo, un suicidio. Atto che Repnin, incapace a diventare un’altra persona, alla fine del romanzo compie. 

Solo che prima di farlo, lascia un testamento, frutto del suo errare per le strade di Londra e delle sue giornate di lavoro nei bassifondi della città, che il lettore trova sparso nei suoi resoconti quotidiani. 

In Romanzo di Londra c’è un’implacabile descrizione di che cosa l’esistenza individuale abbia dovuto lasciare tra le rovine della guerra. Di quanto abbia dovuto disfarsi per restare al passo con l’emancipazione dal passato e diventare una monade fin troppo aperta alle continue sirene del progresso. 

Alcuni esempi. 

 

Secondo capitolo, Sulla collina dei mulini a vento. Tema: la morte. Il signor Green, un vicino di Repnin e Nadja, fa visita alla coppia. Come impiegato alle pompe funebri propone al marito un abbonamento per i funerali, cremazione inclusa, della moglie. Mr Green argomenta che è compito di ogni buon marito e cittadino inglese sollevare per tempo da certi obblighi la propria consorte. Repnin, promesso suicida, rifiuta con un’alzata di spalle. Cosa che non impedisce a Mr Green di continuare a salutarlo ogni giorno: «Hello!». Terzo capitolo, Molto rumore per nulla. Tema: la pedofilia. Repnin, a differenza che con gli adulti, ha un buon rapporto con i bambini. Forse perché comprendono meglio dei loro genitori il suo modo di parlare inglese. Un giorno, al parco, ne abbraccia uno e gli offre una caramella. Un’anziana lì vicino, vista la scena, si precipita su di lui e gli intima di andarsene. Che cosa fa? Questo bambino non la conosce. Eppure la gentilezza, «kindness», è un atto che gli inglesi pretendono da tutti. Sempre. Quarto capitolo, Sepolti vivi. Tema numero uno: la fedeltà. Repnin e Nadja, alla fine della giornata, si lamentano delle loro difficoltà. Perché gli inglesi – chiede Nadja –  che sembrano così fedeli alle loro mogli, non lo sono altrettanto con i loro alleati in guerra? Repnin risponde che ormai solo i popoli primitivi rispettano gli ufficiali, mentre i popoli civili, come gli inglesi, rispettano solo il denaro. Poi, non è neppure vero che siano così fedeli alle loro mogli.

 

A Londra si dice che tutte le prostitute siano francesi. Non possono credere che esistano delle ragazzine inglesi che si diano al primo venuto per qualche sterlina. Essendo ormai la società inglese un’unica grande azienda, non si mescolano tra di loro. Se appartengono alla stessa banca o alla stessa impresa si astengono, preferendo cornificarsi in qualche alberghetto di Parigi. La loro proverbiale fedeltà puritana non fa altro che renderli più falsi e più violenti. Tema numero due: la cultura non è una cosa seria. Nadja spinge suo marito a pubblicare uno dei suoi libri sulla caccia in Siberia. Si tratta di un brillante studio etnografico. Repnin, come al solito, non si illude. Ci ha provato molte volte. Ma sa che a Londra «anche le zitelle scrivono. Scrivono libri anche le figlie dei Ministri, dei Lord, dei Generali». Gli hanno proposto perfino di lavorare con una di queste gentildonne come scrittore-fantasma, «ghostwriter», una nozione nuova di zecca. Tema numero tre: la formazione. Repnin, sempre alla ricerca di un lavoro, va da un fabbro. Il fabbro gli dice che non può assumerlo. Prima deve iscriversi a un corso per fabbri. Ma prima, per poter partecipare al corso, deve essere assunto da un fabbro. Capitolo quinto, Una barca a Versailles. Tema: la forza dei mass-media. Una sera Repnin e Nadja, esausti, per distrarsi cercano alla radio una stazione italiana. Vorrebbero ascoltare qualche opera lirica. Ci prova Nadja, ma non ci riesce. Poi è il turno di Repnin. Dopo alcuni tentativi, la radio emette per qualche secondo una musica da ballo. Poi, più nulla. Improvvisamente si inserisce un collegamento dalla sede delle Nazioni Unite. È la signora Roosvelt. Sta declamando i diritti dell’uomo: libertà personale, libertà di stampa, liberta di associazione, libertà di guadagno… Repnin, sentita quest’ultima libertà, sferra con tutta la sua forza un pugno sull’apparecchio e «come per miracolo» si sintonizza con la stazione italiana che trasmette un’opera per la riapertura della Scala di Milano.

 

Capitolo sedicesimo, Il sesso è alla base di tutto. Tema: l’emancipazione sessuale. Repnin, che da un po’ fa il commesso nello scantinato di una calzoleria, all’ora di pranzo esce e si siede sulla panchina di un parco a guardare i pellicani del laghetto. Gli si avvicina una giovane infermiera che presta servizio in un istituto per ciechi. Gli rivolge la parola dicendogli che sta per divorziare. Dopo la guerra gli uomini non sono più gli stessi. I ciechi, invece, sono pieni di gioia di vivere. Ciò le causa diversi problemi. «Il sesso è alla base di tutto». Non è così? Repnin, «sorpreso per il modo di essere, la gioventù, la statura, la risata scopertamente allegra e sensuale» della ragazza, rimane sbalordito. Lo stesso giorno, terminato il lavoro, Repnin aspetta in negozio Nadja che torna tardi dal suo giro in città. Non sa che fare. Comincia a sfogliare alcune riviste femminili. Ci sono annunci di vedove che chiedono di condividere il loro appartamento. Altre disposte a ricevere ospiti paganti. Poi l’occhio gli cade su alcune foto di splendide ragazze: mogli di comandanti, duchesse. Legge un’intervista a un cantante, idolo delle teen-ager di Londra. Un comitato di studiosi, medici, canonici e vecchie signore gli domanda che ne pensa del sesso.

 

 

A ventidue anni non lo ha ancora praticato. «Crede nella bellezza dell’amore». Repnin, dopo l’incontro al parco con la giovane infermiera, non sa che pensare. «C’est drôle l’Angleterre». Qualche pagina più in là si sofferma su un’altra immagine. Una coppia di sposi: lei una giovane donna dalla bellezza ipnotica, lui un vecchio sdentato, calvo e dalle orecchie enormi. Repnin si chiede ridendo: «il sesso è alla base di tutto» anche in questo caso? Subito dopo passa alle immagini di un evento mondano. L’erede di un Lord, già divorziato e con quattro figli, sta per sposare una giovanissima modella dal corpo perfetto. Peccato che la modella, si legge nell’articolo, fino a poco tempo prima fosse un uomo. L’operazione si dice sia avvenuta a Casablanca. Conclusione di Repnin: tutto può trasformarsi in tutto, non solo in natura, ma anche nella vita umana. Un principe può trasformarsi in un commesso di una calzoleria così come il figlio di un artigiano in una modella. E tutto, se vuole essere preso in considerazione, deve essere mostrato. Come le scarpe nella vetrina del negozio in cui lavora. Londra, il mondo, è tutta un’esposizione. E il crollo del pudore, della discrezione, dell’erotismo e della proprietà del nostro stesso corpo, di cui sembrano andare così fieri tutti quelle persone fotografate, è un fatto puramente commerciale.  

E potrei continuare per pagine e pagine…

 

Catapultato nella metropoli londinese del secondo dopoguerra, Repnin, per quanto ossessionato dalla sua fine, guarda con spirito adamitico – di un Adamo ironico, polemico, a volte sarcastico, colpevole di aver conosciuto il suo Eden, e proprio per questo in grado di scandagliare il nuovo mondo che gli si offre come fosse il primo uomo che vi ha messo piede –, l’esistenza di quelle moltitudini, indaffarate come formiche, o stipate come sardine in scatola nei bus e nei metrò della città, intente a dare un senso al loro andare. Ma «nessuno va dove vuole», ripete Repnin. Questa è la sola legge a cui, amaramente, egli, in quanto displaced person, si conforma. A dispetto della sua esclusione sociale, del suo essere caduto in disgrazia e della sua impotenza a cambiare la propria sorte, o forse proprio in virtù di tutto ciò, Repnin è il solo a poter gettare uno sguardo pieno di stupore sugli albori della società della seconda metà del XX secolo in cui le frontiere tra pubblico e privato, lavoro e divertimento, cultura e pubblicità stanno per essere distrutte per sempre e dove ordini e comandamenti non sono più necessari per privare della sua illusione di libertà quella massa di «quattro, otto, quattordici milioni» di anime disperse che Londra, come un’enorme calamita, o meglio come una piovra, attira ogni giorno.

 

Proprio perché non può tradire le sue nobili radici, il suo sentimento della patria, l’amicizia dei suoi vecchi commilitoni, il suo senso dell’onore, non può neppure smettere di commettere il peccato originale di ricordare. Desidera rimanere se stesso e per farlo deve restare nel passato. Osservando, allo stesso tempo, una società che, mentre ancora incespica sulle rovine, sta facendo del cambiamento continuo la sua unica religione. Come se dalle rovine della guerra fosse nato un uomo costantemente in guerra contro il tempo. Impaziente di ricostruire, certo, ma ancora più incline a non guardarsi indietro. E perciò sempre più convinto che nulla e nessuno sia in grado di determinarlo, di definirlo. Condannato in eterno a ricostruire non sulle rovine, ma sulla loro assenza. Patologicamente libero di andare dove vuole. Repnin, invece, in quanto «displaced person», non può andare dove vuole, perché sa da dove viene. Non è di conseguenza utile, «useful», al funzionamento della nascente società liberale – una società in cui la differenza tra libertà e liberazione sta scomparendo per sempre – che seduce, ingaggia e impiega a tempo pieno milioni di persone determinandone in anticipo bisogni e piaceri. Non è solo per amore nei confronti di sua moglie Nadja che Repnin si fa fuori. Non è solo per affrancarla dal suo ingombrante peso di eterno postulante seduto sui gradini più bassi della scala sociale che metterà fine ai suoi giorni. Repnin ha compreso che il solo modo di assaporare ancora un briciolo di vera libertà è quello di rinchiudersi dentro le pareti del suo passato. Ed è da lì che, con tutta l’autorità di un’esperienza appartenente a un’epoca storica scomparsa, ci annuncia quel che per noi, lettori del XXI secolo, non può che suonare allo stesso tempo come un ammonimento e un disperato augurio: Fate un passo indietro!         

 

Romanzo di Londra  è una vasta opera divisa in due libri e articolata in molti capitoli il cui titolo rimanda ogni volta a un elemento della vicenda. Può essere, come nel caso di Sulla collina dei mulini a vento, un luogo, Mill Hill, dove abitano Repnin e Nadja e dove un tempo, come il nome indica, c’erano dei mulini. Dello stesso tipo sono Meliboun – nome che ricalca la pronuncia inglese di Marylebone, una stazione del metrò di Londra – o Un albergo chiamato Crimea, dove Repnin trascorre le vacanze in Cornovaglia. Oppure, come in Il cappello da sera in testa, si tratta di un oggetto, un vecchio cilindro, appunto che Repnin, una sera, indossa, nostalgico, guardandosi allo specchio. O ancora di una frase, come in Dicono arrivederci al loro cane, che Repnin, esasperato dall’ipocrita gentilezza inglese, pronuncia dopo aver visitato il cimitero dedicato ai cani a Hyde Park. O del nome di un personaggio, come in Mustafa e in La signora Peters-Petreev. O ancora di un gesto, come in Abbottonato fino al collo. In questo capitolo del secondo libro, Repnin, dopo la separazione da Nadja, vede una madre abbottonare il piccolo impermeabile della figlia. Il gesto gli riporta alla mente la moglie quando, ogni mattino, prima che lui uscisse di casa, gli abbottonava allo stesso modo giacca e cappotto con il sorriso sulle labbra. 

 

La domanda è: che cosa significano davvero questi titoli? In realtà, nessuno di essi sembra avere la funzione di catalizzatore dell’azione che, del resto, si svolge sempre in modo episodico, come una rapida serie di situazioni, incontri, dialoghi, digressioni riflessive. Né di determinare il nucleo tematico del capitolo. Anzi, dettagli, motivi e temi del romanzo, che rimbalzano di capitolo in capitolo, anche a molta distanza tra loro, spesso non si riflettono nello specchio dei titoli. Eppure questi titoli qualcosa riflettono: il caso, questo alleato originario del romanzo fin dai tempi picareschi e cervantini. 

Chi è Repnin se non un picaro errante nella grande metropoli londinese, consapevole che «nessuno va dove vuole» ed esterrefatto che tutti quei milioni di gentlemen, colletti bianchi, operai, uomini e donne che popolano la città, sembrino invece saperlo? 

 

In Repnin è avvenuta una «strana metamorfosi». Il narratore del romanzo, una sorta di Virgilio, che accompagna, a volte in silenzio a volte in dialogo, il viaggio del pellegrino attraverso i gironi dell’infernale carosello metropolitano (Lo Stige è il titolo dell’ultimo capitolo del romanzo) glielo sente gridare fin dal primo capitolo. E così suona il titolo di uno dei capitoli del primo libro, ma, stranamente, non quello in cui tale «metamorfosi» ha davvero luogo (ancora una volta il titolo di un capitolo non corrisponde a un elemento decisivo dell’azione). Come mai? Perché è sempre il caso che decide. Ed è proprio in ciò che consiste la «metamorfosi» di Repnin: la definitiva accettazione del caso come sua stella polare. 

 

Repnin, in un altro dei primi capitoli del primo libro, intitolato Lo spazzacamino, si presenta per l’ennesima volta al Ministero del lavoro in cerca di impiego. Nella sala d’aspetto c’è una finestra spalancata. Attratto dal vuoto, ha la tentazione di suicidarsi. Qualche minuto dopo sta parlando con un maggiore in borghese, preposto all’ufficio di collocamento, il quale, conosciuta la nazionalità di Repnin, comincia una lunga disputa linguistica. Il maggiore è interessato soprattutto a comprendere come in russo la «consonante “r”» possa «essere anche una vocale». E il posto di lavoro? Terminata la controversia, Repnin sente delle voci: prima quella di Nadja, subito dopo quella di un ammiraglio che aveva conosciuto durante gli anni della guerra. Qualche istante più tardi, per sfuggire alle allucinazioni acustiche, si immerge nella lettura di un lungo elenco di posti vacanti. A Birmingham, ad esempio, cercano un barbiere. A Reading uno spazzacamino. A questo punto si mette a urlare «Che strana metamorfosi». Reading gli rimane impresso nella memoria. Ah, certo, suo padre, da buon anglofilo lo aveva affidato a una governante perché imparasse l’inglese.

 

Due volte alla settimana doveva leggere, ripetere e imparare a memoria alcune parole. Ricorda un giovane impiccato, soldato della Guardia irlandese, la sua uniforme rossa. Solo molto tempo dopo era venuto a sapere che quelle parole erano i versi della Ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde. Reading giaceva nella sua memoria fin dall’infanzia. Si tratta di una coincidenza? O ciò significa che il passato e il presente intrattengono un «legame misterioso»? Ma poi siamo sicuri che il passato dei libri di Storia sia lo stesso che noi ricordiamo? Ieri un poeta cantava di un soldato impiccato, oggi lui, in quella stessa città, vorrebbe fare lo spazzacamino. Che «strana prossimità». Significa forse che Reading era inscritta nel suo destino? Ma no, è impossibile: San Pietroburgo, la sua infanzia, la sua governante, suo padre sono tutti scomparsi. «Tutto cambia, ma lui non è capace di cambiare, neppure quel tanto per essere assunto come spazzacamino a Reading». Repnin, «l’eroe del nostro romanzo» come viene spesso chiamato dal narratore, non è un eroe epico, non possiede un destino. O, almeno, la fase epica della sua esistenza è finita. Da molto tempo. Da quando, dal porto di Kerč’, in Crimea, ha abbandonato la sua patria in fiamme. E Nadja, il suo grande amore? La ama sempre, ma per amore ha deciso di allontanarla da sé, per poi suicidarsi. Non importa se la separazione avverrà molto più tardi e il suicidio ancora più in là, alla fine del romanzo. Sarà il caso a deciderlo. Il caso, di cui Repnin è diventato un figlio adottivo. Fedele ai suoi capricci. 

 

«La strana metamorfosi» di Repnin, l’uomo che «non è capace di cambiare» mentre tutto intorno a lui cambia, rappresenta precisamente il suo rifiuto di trasformarsi in quell’individuo, terribilmente gentile quanto indifferente alle vite degli altri, che ogni giorno vede irreggimentarsi nelle strade e nei metrò di Londra. Repnin, avvenuta «la strana metamorfosi», ha smesso di preoccuparsi di quel che fa, di chi incontra, dei luoghi che frequenta. Tuttavia, non significa che tutto ciò gli sia diventato estraneo. Esattamente il contrario. Infatti, pur rimanendovi incastonato come un medaglione che reca l’effigie del suo odiato Napoleone al muro, ha smesso di vivere nel passato. Il fatto è che si è trasformato nell’uomo del passato. Ha fatto, cioè, del suo passato un osservatorio privilegiato. La tristezza si è trasformata in disponibilità nei confronti della infinita varietà – folle, fantasmagorica, ridicola, ingiusta – di ciò che lo circonda: «Non c’è più niente al mondo che possa rattristarlo. Se gira così per Londra, è soltanto per vederla, sentirla, auscultarla». Per questo può esplorare, come un Adamo fra le rovine, o un picaro curioso e aperto a ogni avventura, la terra incognita del suo presente.     

 

Post scriptum

 

L’esule ha spesso un solo volto: quello epico-nostalgico. 

Certo, nessuno dovrebbe essere costretto a vivere e a morire in un paese straniero. Non è logico, dirà il nostro protagonista. Che cosa c’è di logico, a più di cinquant’anni, nel ritrovarsi a lavorare nello scantinato di una calzoleria e ad abitare in un dormitorio (dormitory) di Londra, dopo essere stato allevato come un principe in una Russia cancellata dalla Storia? Nulla, naturalmente. Tuttavia, come afferma il narratore fin dal primo capitolo, questa non è solo la storia di Repnin, di Nadja e di tutti i profughi russi che vi sono giunti prima e durante la seconda guerra mondiale. È soprattutto «il romanzo di  Londra», di «quell’immensa città, il cui abbraccio è stato mortale per tanti uomini e donne» e che «ascolta un passante dopo l’altro chiederle: “Dov’è la felicità?”». È soprattutto la  storia in cui la risposta a questa domanda è sempre la stessa: tutto sarebbe andato per il meglio solo se Repnin, e con lui tutte le altre displaced persons, si fosse trasformato in un inglese, in una persona democratica e liberale, in un individuo adattabile, sostituibile, in grado di conformarsi a ogni cambiamento. In altre parole, in una persona utile, «useful». Da qui «la strana metamorfosi» dell’esule, il suo volto ironico-romanzesco. Da qui un’altra domanda, che Repnin pone incessantemente dall’inizio alla fine del romanzo e a cui, naturalmente, nessuno sarà capace di rispondere: chi può dire a un altro uomo ciò che nella vita umana ha senso e ciò che invece non ce l’ha?

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