Bolaño, combattente e bon vivant

1 Dicembre 2024

Primum, sopravvivere

Il Don Chisciotte di Cervantes comincia con una serie di sonetti. L’ultimo, sotto forma di dialogo, racconta l’incontro tra Babieca, il cavallo del Cid, il grande eroe della Reconquista spagnola, e Ronzinante, il cavallo del protagonista del romanzo:

B. Perché tanto smagrito, Ronzinante?
R. Perché non si mangia mai, e si lavora.
B. Come? Che fanno allora biada e paglia?
R. Il mio padrone non me le fa vedere.
B. Via, signore, siete alquanto maleducato.
Ché con la vostra lingua d’asino l’offendete.
R. L’asino è lui, dal principio alla fine.
Volete persuadervi? È innamorato.
B. È stoltezza amare?
R. Non è saggio.
B. Metafisico siete.
R. Se non si mangia.
B. Lamentatevi con lo scudiero.
R. Serve a poco.
Come lagnarmi in questo mio soffrire
Se padrone, scudiero, o maggiordomo
Al pari di Ronzinante son ronzini!

Nessun romanziere degno di questo nome può dimenticare di essere figlio di Cervantes.

E non può dimenticare neppure che la sua opera romanzesca è tricefala: al fianco del Cavaliere dalla Triste Figura e di Sancio Panza, c’è Ronzinante.

Se il primo incarna l’immaginazione, l’audacia e la lotta e il secondo il buon senso e la saggezza popolare, il terzo rappresenta, ancor più sottilmente dei suoi compagni di avventura, l’umile spirito anti-metafisico che ricorda all’uomo che si resta asini “dal principio alla fine” e che è perfettamente inutile “lagnarsi” quando il vostro “scudiero” e il vostro “padrone” hanno, come voi, lo stomaco vuoto.

Se il romanziere, perciò, vuole essere fedele alle sue origini, non potrà mai tradire l’immaginazione, l’audacia e la lotta di Don Chisciotte, il buon senso di Sancio Panza e l’umiltà e la tenacia di Ronzinante.

Dovrà, in altre parole, ricordarsi continuamente di essere un sopravvissuto.

Cosa che Roberto Bolaño non ha mai dimenticato, attraversando a stomaco vuoto gli immensi deserti di noia dell’esistenza e le numerose oasi di orrore della Storia, allo scopo di cogliere, come aveva detto il suo amato Baudelaire, “nel fondo dell’ignoto”, il nuovo.

È questa fame da sopravvissuto – fame di bellezza piena di speranza, lotta e conquista – alla continua ricerca del nuovo “nel fondo dell’ignoto”, fame che Bolaño ha conservato per tutta la vita, il nucleo estetico ed etico della sua opera.

Ciò lo rende l’ultimo romanziere della prima Modernità e il primo romanziere della seconda Modernità, in grado, naturalmente, di lasciarsi alle spalle sia la novità per la novità di tutte le avanguardie, sia la novità “nel fondo del noto” della nostra declinante e tristemente gioiosa epoca del post-Tutto.

Il sopravvissuto è un combattente e un bon vivant

Bolaño, tuttavia, ha affermato che “la letteratura non vale nulla se non è accompagnata da qualcosa di più luminoso che il puro e semplice atto di sopravvivere”.

La qual cosa non significa che la letteratura, grazie al suo splendore, deve abbellire la nostra miserabile esistenza, altrimenti priva di valore, ma che la letteratura non fa che vivacchiare, se non è l’opera di veri sopravvissuti. È questo, a mio avviso, il senso profondo della frase di Bolaño.

Per tale ragione la sua opera è piena di poeti esposti “alle intemperie”, come amava dire. Per tale ragione si può definirlo il Borges dei paria, dei “cani romantici”. E anche delle canaglie e dei criminali.

L’enigma della sua opera, infatti, si trova proprio in questo legame tra poesia e crimine.

Lo scrittore sopravvissuto non è qualcuno che si crogiola nella disperazione. Non è un naufrago. È un uomo pieno di vita, un bon vivant che, alla fine del XX secolo, è sopravvissuto alla vista dell’abbraccio tra poesia e crimine. Di conseguenza, la sua opera non è che il resoconto o, meglio, l’inchiesta poliziesca, talvolta assai documentata, condotta su un mondo in cui la frontiera tra bellezza poetica e orrore storico è scomparsa.

Non ci si può rassegnare al fatto che i crimini della Storia possano coesistere con la poesia, che i poeti possano, in certe condizioni storiche, trasformarsi in criminali, che la poesia, occultata dai crimini della Storia, possa essere vissuta come un crimine, cioè come un atto di leggerezza incomprensibile sotto il peso del sacrificio e della morte di milioni di persone. Eppure tutto ciò è avvenuto. È una parte della nostra memoria e del nostro oblio. L’abbiamo visto in Europa. L’abbiamo visto durante gli anni della Prima guerra mondiale, nei regimi totalitari degli anni Trenta e Quaranta, l’abbiamo visto durante la Seconda guerra mondiale, l’abbiamo visto nelle dittature dell’America Latina, in Africa, in Asia. L’abbiamo visto durante la cosiddetta epoca post-comunista in Cecenia, nel Medio Oriente, nella ex Jugoslavia. Un filosofo tedesco ha perfino affermato nel 1949 che scrivere una poesia, dopo Auschwitz, era un atto di barbarie. Certo. I filosofi conoscono veramente gli uomini? Si è continuato, naturalmente, a scrivere valanghe di versi barbari, valanghe di versi inutili. E valanghe di romanzi esteticamente criminali, cioè privi della coscienza che la frontiera tra la bellezza poetica e l’orrore storico è scomparsa. Romanzi, perciò, non solo fuori dalla storia del romanzo, ma fuori dalla Storia.

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La risposta di Bolaño al filosofo tedesco è tanto lucida quanto utopica.

Primum, bisogna sopravvivere. Ciò significa non dimenticare mai che si sta vivendo in un tempo storico in cui ogni forma di sopravvivenza spirituale è in pericolo. Ma anche che l’atto di sopravvivere è un atto di audacia, di immaginazione e di lotta: un atto donchisciottesco. Poi, che lo scrittore deve diventare un detective e non abbandonare la sua inchiesta. Non deve smettere di interrogarsi – dotato di buon senso e di umile spirito anti-metafisico (le virtù di Sancio Panza e Ronzinante) – sulle ragioni per le quali il passato è stato, alla fine del XX secolo, a tal punto criminalizzato che, non riuscendo più a esplorarlo, si è voluto solo dimenticarlo – dimenticando così, oltre i suoi crimini, la sua poesia.

L’ideale di Bolaño sta nella creazione di uno spazio estetico in cui la memoria storica è costantemente assediata dalla memoria poetica, la sola memoria capace di ricordare ciò che non è “veramente” accaduto. E capace, per questo motivo, di esporre la Storia al ridicolo. Come se il tribunale della poesia convocasse a testimoniare i colpevoli della Storia, e il verdetto della poesia fosse un canto antilirico e irriverente, grazie al quale il lettore può intravvedere all’orizzonte, dopo Auschwitz e gli orrori del XX secolo, un territorio per ricominciare, dove la lingua della poesia e la lingua del crimine possano trovare insieme un nuovo cammino.

Che cosa significa tutto questo?

In Un altro racconto russo, che si trova nella raccolta Chiamate telefoniche, c’è un passaggio che rivela in maniera esemplare l’essenza dell’estetica di Bolaño.

Un coscritto sivigliano, durante la Seconda guerra mondiale, si ritrova sul fronte russo. È ferito. Una volta ristabilitosi, è arruolato in un battaglione delle SS. Un giorno la caserma subisce un assalto dei Russi. È imprigionato e torturato. Non conosce né il tedesco né il russo. E nessuno conosce lo spagnolo. Un soldato gli apre la bocca per strappargli la lingua con un paio di tenaglie: “Il dolore che sentì lo fece lacrimare e disse o, meglio, gridò, la parola “cazzo”. Con le tenaglie in bocca l’imprecazione del sivigliano si trasformò e uscì tramutata nell’ululante parola Kunst”. Il soldato, che conosce il tedesco, si ferma sorpreso: la parola Kunst, che in tedesco significa “arte”, ha un potere straordinario: “La parola arte. Ciò che ammansisce le fiere”. Il coscritto, grazie alla magia di una parola, si trasforma in un artista: “La parola cazzo, tramutata nella parola arte, gli aveva salvato la vita”.

In tutta la sua opera, Bolaño ha esplorato e messo a nudo i codici esistenziali dei suoi personaggi attraverso i loro codici letterari. Ma non si tratta di un metodo per fare letteratura con la letteratura. Il suo scopo non è la letteratura, ma un’estetica e un’etica vitali. Tutto il contrario di quel che hanno fatto e che continuano a fare molti scrittori afflitti dalla sindrome dell’influenza. Per Bolaño, infatti, l’esistenza e la letteratura non sono realtà separate. Per lui, affinché entrambe restino unite, bisogna domandare all’esistenza di essere letteraria e alla letteratura di essere vitale. E poco importa se questa vitalità parla il gergo della strada, della caserma, della piccola criminalità, o l’accento incerto degli emigrati, o ancora si esprima attraverso la voce di tutte quelle puttane, regine del porno, o di tutti quei vagabondi, farabutti, scansafatiche, ex campioni di culturalismo, buoni a nulla, gauchos insopportabili e marginali di ogni risma, che riempiono la sua opera.

La morte di René Robert

Chi è René Robert? Non lo sapevo prima di leggere, di passaggio a Parigi, un articolo su Le Monde. Era un fotografo, piuttosto rinomato nel suo ambiente, grazie ai suoi ritratti di ballerini e musicisti di flamenco. È morto di ipotermia un giovedì, all’ospedale Cochin. Vi era stato condotto d’urgenza, grazie all’intervento di un senzatetto, dopo essere stato vittima di un malore. La sera del giorno prima era improvvisamente stramazzato sul marciapiede di rue Turbigo, dove il suo corpo aveva poi trascorso l’intera notte. Aveva ottantacinque anni.

Nato il 4 marzo del 1936 a Friburgo, René Robert si era formato a Losanna dove aveva mosso i suoi primi passi come reporter. Negli anni Sessanta, si era installato a Parigi al Catalan, un tablao parigino molto frequentato. Nel 1966 era stato affascinato dal flamenco. Per lui, si trattò di una rivelazione definitiva: “fui soggiogato dalla forza, dall’audacia, dalla sfrontatezza espressiva di quegli artisti, dal loro modo di interpretare la tragedia, la sofferenza, la pena, ma anche dalla loro vitalità gioiosa, piena di brio, spudorata, sensuale”.

René Robert, e la sua morte solitaria, ma anche la sua esistenza soggiogata “dalla forza, dall’audacia e dalla sfrontatezza espressiva” degli artisti di flamenco, mi ha fatto pensare ai personaggi di Bolaño nei quali il tragico e il comico si danno sempre la mano. Non c’è nulla di scandaloso se qualcuno che si dedica all’arte è lasciato agonizzare, sotto lo sguardo sfuggente dei cittadini rispettabili, su un marciapiede come un cane. Dal punto di vista dello scrittore sopravvissuto, la fine di René Robert è comunque quella di un soldato morto sul campo di battaglia. Non c’è gloria, infatti, nel desiderio di rispettabilità che divora la maggior parte degli artisti e degli scrittori, sempre pronti a sacrificare il loro onore; questi falsari che piratano la loro anima in cambio di qualche soldo, questi pesci rossi che non fanno che girare, il più delle volte a vuoto, attorno a una balena bianca, allo scopo di sentirsi un po’ meno parassiti. Nell’artista, per Bolaño, convivono sempre un poeta e un avventuriero, un uomo raffinato e un senzatetto, come se tra le peripezie della parola e le peripezie della strada ci fosse una relazione necessaria; come se tra la lingua della poesia e la lingua della gente che vive ai margini della società – questa moltitudine umana criminale ed eroica – ci fosse una relazione capace di far brillare una promessa di desolata bellezza.

È a questa promessa che spero di restare fedele.

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