Ryuichi Sakamoto, artista totale
Primavera del 2013. Il mio soggiorno a Tokyo stava per finire. Avevo cercato per molto tempo di incontrare Ryuichi Sakamoto, uno dei miei compositori preferiti. Alla fine, seppure di sfuggita, ci sono riuscito. Sakamoto si scusava con un inchino: troppi impegni, registrazioni, concerti. Stava partendo per New York, dove abitava una parte dell’anno. Troppe latitudini. Tuttavia, grazie al suo amico poeta e critico Konuma Jun’ichi e al mio amico Wada Tadahiko, traduttore di molti autori italiani del XX secolo, sono riuscito ad ottenere un dialogo scritto. Un dialogo scritto: uno dei modi migliori per conoscere qualcuno.
Primavera del 2023. Sakamoto è morto il 28 marzo. Quando ho saputo la notizia mi sono sentito smarrito, come se avessi perso un parente. Da più di trent’anni ascolto la sua musica. Ogni volta mi sorprende e mi affascina. Cos’altro chiedere all’arte? Sakamoto è stato un compositore di musica colta (ricordo Glass con Alva Noto) di celebri colonne sonore a fianco di grandi registi (Bertolucci, Almodovar, De Palma, Schlöndorff, Iñárritu), uomini di teatro (Robert Wilson), è stato musicista, produttore, attore (in Furyo, accanto a David Bowie), ma anche promotore di diversi progetti pedagogici, penso a Schola, e attività contro la proliferazione dell’energia nucleare come No nukes e per la salvaguardia dell’ambiente come Zero Landmines Project, more Trees. Nel 2006, tra l’altro, ha creato un’etichetta discografica, Commons, che cerca nuovi artisti nel panorama internazionale e il cui motto è: “Dall’ego all’eco”. A questo proposito diceva di essere un musicista, certo, ma che nessuno lo è sette giorni su sette per tutto l’anno. Voleva dire che tutti noi, musicisti, pescivendoli, carpentieri, scrittori, calzolai, siamo anche “genitori, mariti, mogli, figli, figlie, e l’importanza dei nostri doveri e delle nostre responsabilità non cambia a seconda del mestiere che facciamo”. Da cittadino e da uomo che proteggeva la sua famiglia si preoccupava dell’ambiente ed era in prima fila contro il nucleare (come uno dei suoi scrittori preferiti, Kenzaburō Ōe). Tutto ciò non aveva nulla a che vedere con il suo lavoro. “Se avessi scelto di fare l’archeologo, sono certo che mi sarei sentito in dovere di agire allo stesso modo”. Avvertendo che i problemi dell’ambiente portano con sé molti altri problemi, affermava che ogni singolo individuo deve porsi un limite. Limite che, naturalmente, da compositore, cercava di superare ogni volta.
Nel corso della sua lunga carriera Sakamoto ha aspirato a essere un artista totale, un po’ come quelli del nostro Rinascimento italiano. Del resto, il suo aver vissuto tra New York e Tokyo, il suo continuo alimentarsi e rigenerarsi attraverso tradizioni, forme, stili e ritmi musicali diversi, da Bach alla bossa nova, dall’impressionismo francese alla musica elettronica, dal folklore di Okinawa al minimalismo anglosassone, lo testimonia. Quando all’epoca gli chiesi se era d’accordo, rispose che la sua principale “aspirazione” era quella di inseguire con l’ascolto “le tracce dei canti, delle parole e delle voci dei primi antenati della nostra specie, non più di cinquanta individui che si aggiravano per l’Africa”. Questo suo interesse antropologico è stato inesauribile. Tuttavia, aggiunse che la sua grande “ispirazione” era sempre stata l’arte, in particolare l’arte del XX secolo, “poiché è lei che mi ha insegnato a mettere in discussione e a distruggere i preconcetti da cui siamo sistematicamente afflitti”. Per Sakamoto l’arte del XX secolo ha messo definitivamente in crisi l’idea che la percezione estetica si riduca all’osservazione di “una figura disegnata su una parete bianca”. Una cosa del tutto evidente, ma che, secondo lui, continuava a esercitare una grande influenza sulla musica, sulla filosofia e sulla società. E la letteratura? Sakamoto era nato e cresciuto in una casa piena di libri. Il padre era un redattore letterario e molti scrittori vi andavano e venivano fino “alle prime luci dell’alba”, tanto che il piccolo Ryuichi era solito addormentarsi cullato da una “ninna nanna di parole”. Il romanzo e la poesia, ma anche la filosofia e l’antropologia hanno avuto una grande influenza su di lui. Citava, ricordo, autori come Kenzaburō Ōe, Yutaka Haniya, Takaaki Yoshimoto, Baudelaire, Rimbaud, Deleuze, Le Clézio, Lévi-Strauss.
La sua musica, a causa delle sue frontiere erranti, è stata definita una volta duty free music, libera da ogni dovere. Si fa arte per il proprio piacere e per quello degli altri. Perché se no? Ciò che gli dava più gioia, in ogni caso, era sapere che “in un lontano paese che non conosco, che ne so, in Bulgaria o in Perù, un’anziana signora, una nonna, ha sospirato ascoltando per caso la mia musica”. Da adolescente, nel Giappone dei primi anni Sessanta del secolo scorso, Sakamoto si imbatté nel rock. Mi confidò che Tell me dei Rolling Stones era stato il primo disco che aveva comprato. E il rock influenzò la prima parte della sua carriera: dopo quello inglese, il rock tedesco, poi negli anni Ottanta il punk e, infine, la new wave. Allora faceva parte della Yellow Magic Orchestra, un gruppo fortemente influenzato dalla musica che arrivava dall’Inghilterra e dall’Europa. Tuttavia, quasi all’unisono, nacque la sua passione per Debussy, un compositore sempre presente nella sua musica, data la volontà artistica di Sakamoto di far entrare nel suo cerchio magico la musica occidentale e quella orientale. A questo proposito mi disse che espressioni musicali come il gamelan o il kecak indonesiani suonavano esotiche e misteriose anche a lui, che era un musicista asiatico. Provava un grande senso di gratitudine per il fatto che Debussy avesse fatto quell’esperienza. Tanti musicisti, ascoltando quella stessa musica, avevano ricevuto impressioni molto meno forti. Debussy, infatti, non aveva influenzato solo Messiaen, Boulez e Stockhausen, ma anche la musica dell’Estremo Oriente, l’opera del giapponese Tōru Takemitsu, oltre che la sua. L’antica musica asiatica aveva ispirato i musicisti francesi del XX secolo, i quali, dopo secoli, erano tornati a ispirare la musica asiatica moderna, “creando un grande full circle oltre il tempo e lo spazio”. Sakamoto è stato anche un grande sperimentatore di ogni tipo di tecnologia. Tuttavia, il pianoforte, questo strumento del XIX secolo, non ha mai perso centralità nel suo lavoro da solista. In una delle sue ultime opere, Playing the piano/out of noise, il titolo è significativo: via dal rumore. Ma da quale? Non da quello prodotto dalla natura, visto che, ad esempio, il rumore dell’acqua è spesso presente. Forse da quello prodotto dall’uomo? Sakamoto era stato in due luoghi particolarmente silenziosi: l’Africa e la Groenlandia. Con sua grande sorpresa aveva scoperto che nella savana “il suono più intenso era quello degli scarabei che mi volavano intorno”. In luoghi come questi, affermò, acuendo l’udito, riusciva “a immaginare una musica in cui le nuvole scorrono quiete, o una in cui enormi montagne di ghiaccio avanzano lente e maestose sulla linea dell’orizzonte. In fondo non è vero che siamo così diversi dai nostri progenitori”.
Con Sakamoto si poteva parlare di molte cose. A un certo punto il discorso cadde su internet, l’Impero dell’Informazione (che i giovani dell’Impero del Sol Levante utilizzano instancabilmente), dove la musica può circolare liberamente. Sakamoto aveva più volte affermato che questo era un bene. In fondo, aveva detto: “è soltanto da un secolo che la musica è prodotta e distribuita da poche organizzazioni. È tempo che torni a essere un bene condiviso da tutti. Con Internet we are going back to having tribal attitudes towards music”. Ricordo che gli feci rilevare che c’era un’altra istituzione in Occidente, vecchia di tre secoli, che si chiamava diritto d’autore che forse non andava incontro alle «attitudini tribali» del XXI secolo. La sua risposta fu che dalla diffusione di internet aveva organizzato discussioni con avvocati e musicisti che avevano come oggetto il diritto d’autore nell’epoca digitale. La sua conclusione era stata che “tra le due posizioni rappresentate da chi sosteneva il vecchio diritto d’autore e chi desiderava la sua totale messa al bando, esistono diverse sfumature e possibilità”. La cosa migliore era che a decidere quali diritti applicare e a quali brani fosse l’artista in persona. Emersero poi organizzazioni basate sul concetto di creative commons a cui Sakamoto era molto vicino e che ha sostenuto. Alla fine del dialogo ci fu spazio per una riflessione sul Giappone. Dopo la seconda guerra mondiale, il Giappone ha guardato a lungo alla Cina e all’Europa, per poi americanizzarsi. Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso ha avuto la più grande crescita economica della sua storia. Poi, nel 1991, è giunta la bolla economica che ne ha rallentato la produzione. Da almeno due decenni il Giappone sembra essersi ripiegato su stesso. Non sa bene dove guardare... Ma se il Giappone smette di guardare altrove, non rischia una chiusura ancora più grande? La fine della sua “ambiguità”, secondo le parole critiche di Kenzaburō Ōe, non sarà l’annuncio di un altro lungo sakoku? Ecco quello che mi rispose. Per non fargli torto, lo riporto per intero:
Durante il periodo Nara (710-794) il Giappone ha assimilato dalla Cina e dalla Corea molte cose, come la religione, il sistema politico, la tecnica. Poi nel periodo Heian (794-1185) si è sforzato di nipponizzare le cose assimilate. All’epoca delle grandi navigazioni molte cose sono state introdotte dal Portogallo e dall’Olanda. Nel periodo Edo (1603-1868) il paese è stato chiuso ai contatti esterni (sakoku), metabolizzando tutto ciò che aveva appreso e rendendolo tipicamente giapponese. Se osserviamo la storia del Giappone alla luce di queste considerazioni, vediamo che a periodi in cui cose nuove sono assimilate dall’esterno si alternano, come si trattasse di un moto ondoso, periodi in cui esse sono assorbite e nipponizzate. Dopo aver perso la Seconda Guerra Mondiale ci siamo impegnati ad assorbire il sapere, la tecnologia e la cultura degli Stati Uniti, la potenza che ci aveva sopraffatto. Durante la bolla economica degli anni Ottanta si sentiva spesso dire: “Non abbiamo più niente da imparare dagli Stati Uniti”. Poi, nel decennio successivo, la bolla è finita e siamo entrati nei cosiddetti “venti anni perduti”. Se nella storia giapponese quest’epoca, che dura tutt’ora, corrisponda a una fase di metabolizzazione ed “originalizzazione”, o se invece rappresenti un periodo di decadenza in cui abbiamo semplicemente perso interesse per l’esterno, questo lo capiremo solo fra una decina di anni.
Ancor oggi, aprendo il sito ufficiale di Sakamoto, troviamo queste parole: “Adorno said: Writing poetry after Auschwitz is barbaric. I would like to revise it and say: keeping silent after Fukushima is barbaric”. Nell’ultimo decennio, dopo il terremoto del 3 marzo del 2011, Sakamoto si è fatto promotore di diverse organizzazioni umanitarie (Life 311, Kizunaworld), interrogandosi su che cosa significa esser artisti dopo Fukushima. Sakamoto pensava che quell’incidente non andava imputato solo a un cataclisma naturale: era “il risultato dell’avidità di denaro e di potere, intrecciate fra loro in modo inestricabile, all’interno della società umana”. Se si voleva trovare una soluzione era necessario consolidare una democrazia autentica. “Ma in Giappone – affermava – la democrazia non è un diritto storico conquistato dal nostro popolo, bensì un’istituzione che ci è stata devoluta dagli Stati Uniti d’America durante la loro occupazione. Un castello di carta, in poche parole”. Solo interrogandosi sulla storia contemporanea del Giappone dal dopoguerra a oggi, come aveva fatto la letteratura di cui si occupava suo padre, si poteva, secondo lui, “creare qualcosa di nuovo avendo ben presente la grave situazione che abbiamo di fronte e mantenendo sempre una visione lungimirante che non perda mai di vista ciò che è giusto”.