Calvino e Sciascia alla fine di un'epoca

4 Luglio 2023

Che cosa ci restituisce il carteggio, composto da lettere, biglietti, cartoline, telegrammi tra Calvino e Sciascia sapientemente curato da due ottimi conoscitori delle loro opere come Mario Barenghi e Paolo Squillacioti? 

Soprattutto un mondo che non c’è più. Un mondo che è durato secoli, millenni, e che poi, proprio nel corso di quegli anni Ottanta del secolo scorso, guarda caso all’epoca della morte di Calvino e di Sciascia, è sprofondato chilometri sottoterra, risucchiato da un desiderio sconfinato di farla finita con il passato. Come se l’umanità, a un certo punto, non se la sentisse più di portare e di sopportare quel grosso fardello di parole scritte sulla pietra e sulla carta su cui fino a quel momento credeva fossero disegnati i geroglifici del suo futuro. 

Jean Paul ha detto una volta che “i libri sono lunghe lettere inviate agli amici”. Scrivendo questa frase ha colto per sempre la quintessenza dell’umanesimo. Peter Sloterdijk, due secoli dopo, nella nostra epoca “post-epistolografica”, riflettendo sulla frase di Jean Paul, ne offre una variazione ancora più precisa: “costituisce una telecomunicazione che, attraverso l’arte della parola scritta, genera amicizia”. Nella nostra civiltà l’umanesimo ha infatti rappresentato la facoltà di farsi degli amici, spesso ignoti, attraverso la parola scritta. La telecomunicazione (τηλε significa “da lontano”) prima di diventare lo sfondo ossessivo della nostra società dello spettacolo dove tutto deve essere trasmesso in tempo reale, ha incarnato semplicemente il desiderio di comunicare a distanza con qualcuno che non era presente. Un desiderio che implicava attesa, noia, ozio, ma soprattutto assenza, vuoto. Un desiderio che, nel nostro mondo troppo pieno e in cui il tempo si misura in nanosecondi, nel corso degli ultimi quarant’anni si è atrofizzato. Quasi che il muscolo della memoria non trovasse più strumenti con cui esercitarsi. Per questo ragione, io che non riesco a non ribellarmi a questo mondo che non sente più il bisogno di farsi degli amici attraverso la parola scritta, ho fatto di Telemaco, “colui che combatte da lontano”, il mio eroe. Il mio Telemaco non cerca affannosamente suo padre. Non vuole semplicemente ritrovarlo. Non ha, inoltre, alcun complesso edipico, come alcuni odierni dignitari della psiche vorrebbero farci credere. Ma combatte una guerra da lontano, una guerra scritta, allo scopo di conservare la sua distanza da lui. Il mio Telemaco, infatti, non vuole vivere in un mondo privo di Eros, in un mondo privo di Mancanza, privo di quell’arte della parola scritta che ha il potere di trasformare l’amore per l’immediato in amore per ciò che è lontano, o che deve ancora avvenire. Preferisce, attraverso la sua telecomunicazione, aprire una strada verso suo padre, e verso tutti i padri del passato. Preferisce sedurre da lontano, agire a distanza, perché pensa che solo così potrà svelare e riconoscere tutti i padri lontani nel tempo e nello spazio che non ha conosciuto, e che forse non conoscerà mai, da vicino e in tal modo spingerli dentro la cerchia dei suoi amici.

I nostri padri Calvino e Sciascia, per quanto verso la fine della loro vita sentissero scricchiolare i ponti della società letteraria – e perciò, come afferma Sloterdijk, dell’intera civiltà umanistica moderna le cui strutture politiche ed economiche si sono organizzate secondo quel modello –, li hanno attraversati con passo inquieto e sicuro dando alla dimensione dell’amicizia nata dalla parola scritta un’importanza che oggi appare perfino commovente. Commoventi Calvino e Sciascia, due degli scrittori italiani più lucidi, più “illuministi” della seconda metà del XX secolo? Eppure… Ciò conferma quanto ce ne siamo allontanati e quanto la loro epoca sia irrevocabilmente finita. 

Penso al giovane Sciascia che dalla provincia assoluta di Racalmuto invia una lettera a Calvino perché gli mandi un libro da recensire e al contempo lo invita a partecipare a una rivista appena nata. E penso a Calvino, giovane manager dell’Einaudi, che gli risponde a giro posta, dicendosi disponibile. Penso all’acribia e alla cura con cui Calvino legge un racconto di Sciascia, consigliandogli correzioni e incitandolo a lavorarci ancora. O a quando si congratula con lui per il suo articolo sul Barone rampante, definendolo “l’ottimo dei lettori”. O a quando Sciascia definisce Calvino il suo “primo lettore, e il migliore che si possa desiderare”.

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Penso ancora al continuo scambio di libri tra i due e ai loro mille interessi. E poi a quei giudizi che sono frecce generose lanciate nel futuro: “Della nostra generazione, solo tu e Pasolini (e Pasolini non certo per i romanzi) resterete a galla”, scrive Sciascia a Calvino. “Gli altri viviamo alla giornata”. E a quello di Calvino, scritto nel 1960, poco prima dell’uscita del Giorno della civetta: “Sai fare qualcosa che nessuno sa fare in Italia: il racconto documentario su di un problema, con vivezza visiva, finezza letteraria, abilità, scrittura sorvegliatissima, gusto saggistico quel tanto che ci vuole e non più, colore locale quel tanto che ci vuole e non più, inquadramento storico e nazionale e di tutto il mondo intorno che ti salva dal ristretto regionalismo, e un polso morale che non viene mai meno”. A mio modo di vedere c’è poco da aggiungere. Con buona pace di chi quarant’anni dopo, trattando non della mafia ma della camorra, affermava di aver creato ex nihilo un nuovo genere letterario. E con buona pace anche del nutrito coro di intellettuali progressisti che allora gli innalzavano peana e che oggi, con tipico scarto italiota, fanno finta di niente. E che dire del giudizio critico di Calvino una volta letto Il Consiglio d’Egitto, opera in cui Sciascia fonde la sua “passione storica” con la satira e “la mistificazione filologica”? Perfetto. E poi quello sulla sua pièce teatrale L’onorevole. Qui addirittura sembra che Calvino, come davanti a uno specchio, rimproveri a Sciascia quel che lui stesso non riesce a conseguire: “Ma possibile che questo accidente di uomo sia sempre così controllato e cosciente e funzionale alla sua missione di moralista civile, possibile che mai salti fuori lui in persona col suo demone, il suo momento lirico e privato in contrapposizione a quello pubblico e storico, il suo ‘mito’, la sua follia?”. Nella stessa lettera del 26 ottobre del 1964 Calvino, in una sorta di dialogo-monologo, si sofferma su quello che i critici definiscono il loro comune illuminismo (Illuminismo mio e tuo è il titolo che i curatori hanno dato al carteggio). Ne sottolinea però alcune differenze, che ancor oggi mi sento di condividere. Parlando di sé, scrive di non essere un vero illuminista. O almeno che nella sua opera esiste sì un “gusto” illuministico che, tuttavia, deve fare i conti con altri elementi: “racconto fantastico-romantico, non-sense, fumisteria”. Mentre Sciascia, secondo Calvino, è un illuminista “rigoroso”, le cui opere possiedono sempre “un carattere di battaglia civile” che le sue non hanno mai avuto. Ma è proprio così? Quando mai per Calvino le cose stanno in modo univoco! Anche Sciascia, dietro le quinte, possiede una “serie di cariche esplosive sotto i pilastri del povero illuminismo”, ovvero il relativismo di Pirandello, l’opera di Gogol’ letta attraverso Brancati, la presenza continua e contigua di Spagna e Sicilia, insomma tutte “le polveri tragico-barocco-grottesche” che Sciascia, secondo Calvino, tende a non mostrare, o a mostrare molto timidamente, forse perché non riesce a rompere non tanto con la “compostezza” di Voltaire e Diderot, ma con quella di Manzoni, nome a cui Calvino contrappone appena può quello di Ippolito Nievo. Negli anni Settanta le lettere si diradano, per scomparire quasi del tutto negli anni Ottanta (appena un paio). Ma ce n’è una, quella del 5 ottobre del 1974, che vale la pena leggere e rileggere, alla luce anche di quella del 1964 (non a caso le due lettere più lunghe). Calvino ha appena letto Todo modo. Dapprima è un po’ insofferente a tutti quei discorsi teologici. Poi comincia ad appassionarsene. Ammira la “versione infernale dell’Italia democristiana”: quanto di più “forte” scritto in materia. Si diverte a cercare le citazioni letterarie e filosofiche del libro, trovandovi la chiave decisiva nel nesso Voltaire-Pascal: forse un’ulteriore conferma che, dietro ad ogni scrittore cosiddetto “illuminista”, c’è sempre più di una scommessa metafisica che può perfino assumere le caratteristiche di una divagazione su un paio di occhiali. Si misura con l’enigma dei tre omicidi, tanto che si dilunga enumerando cinque ipotesi logico-poliziesche per cercare di venire a capo del giallo. In questi tentativi pieni di allegro spreco analitico di sciogliere un mistero che si sa deve restare tale affinché, come dice il protagonista di Todo modo, la demistificazione non possa mai totalmente vincere su quella “maestosa illusione” che è la verità letteraria, c’è tutto Calvino! E, a suo modo, tutto Sciascia! 

Non so quanti amici conosciuti e ignoti riusciranno a raggiungere le loro lettere. La nostra telecomunicazione non avviene più attraverso l’arte della parola scritta ispirata da ciò che è lontano. Non è quasi più telemachia. La nostra società mass-mediatica comunica e stabilisce legami affettivi e sociali attraverso altre reti che amano solo ciò che è prossimo, che si vede, che si tocca, non importa se in modo “reale” o virtuale. Non amano il mistero. E perciò non possono amare neppure gli enigmi senza soluzione e senza un vero colpevole. 

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