Milan Kundera, il maestro del romanzo
Milan Kundera, il maestro del romanzo, l’uomo più simpatico del mondo (e il più riservato) se ne è andato. È morto in Francia, la sua «seconda patria». Così, qualche tempo fa, in un breve dialogo con l’editore Antoine Gallimard, definì il paese che lo aveva accolto. Al padre, Claude Gallimard, Kundera rimase sempre molto riconoscente. Nel 1968, dopo l’invasione russa della Cecoslovacchia, non poteva più pubblicare i suoi libri. Il suo primo romanzo, Lo scherzo, era uscito nel 1967. La casa editrice praghese propose il manoscritto a Gallimard. Il manoscritto venne consegnato a un lettore ceco che viveva a Parigi. Questi trovò il romanzo poco interessante. Antonin Liehm, un grande promotore dell’arte ceca in Europa, ne parlò ad Aragon, il quale, senza neppure conoscerne il contenuto, scrisse una prefazione e lo consigliò a Claude Gallimard. Il libro uscì all’inizio di settembre del 1968, qualche settimana dopo l’invasione sovietica. Kundera, per spiegare l’enorme successo del libro in Francia, ricordava spesso la battuta di sua moglie Vera: «Caro Milan, tu sei arrivato a Parigi come un vincitore sopra i carri armati russi!». Tuttavia, malgrado il riconoscimento all’estero, Kundera restava in patria un scrittore proibito. Conoscendo la sua condizione, un regista teatrale gli propose di scrivere, a suo nome, un adattamento dall’Idiota di Dostoevskij. Irritato dal clima sovraeccitato del romanzo, Kundera ebbe nostalgia di Diderot. Scrisse così la sua pièce teatrale Jacques e il suo padrone (uscita poi nel 1981), un «omaggio» (non un «adattamento», non si confonda!), a uno dei suoi romanzi più amati.
C’è un episodio di quel periodo che Kundera raccontava, su cui ha scritto e che ci dice molto della sua personalità: quella di «un edonista in trappola in un mondo fin troppo politicizzato». Durante i primi giorni dell’occupazione, è in auto. Ha lasciato Praga per andare in una città vicina. Tre soldati dell’armata sovietica lo fermano per un controllo. Finita l’operazione l’ufficiale gli chiede: «Come si sente? Che tipo di sentimenti prova?». La domanda non è ironica, è seria. Tanto che l’ufficiale continua: «Vede, è un grande malinteso. Non si preoccupi. Tutto si aggiusterà. Deve sapere che noi amiamo i cechi. Noi vi amiamo!». Immaginate Kundera in un paesaggio devastato dai carri armati russi, preoccupato per il futuro del suo paese la cui libertà è stata compromessa per chissà quanto tempo, e un ufficiale dell’armata sovietica gli fa «una dichiarazione d’amore».
L’amore, che cosa non si fa in suo nome! Per dimostrarlo, si può arrivare perfino a invadere un paese! «La sensibilità – ha scritto il romanziere – è indispensabile all’uomo […] ma quando sostituisce il pensiero razionale diventa il fondamento stesso della non comprensione e dell’intolleranza». Dato il contesto, dopo aver terminato La vita è altrove nel 1969 e Il valzer degli addii nel 1970, a Kundera sembrò che la sua carriera di scrittore fosse giunta al capolinea. Provvidenziale fu ancora l’intervento di Claude Gallimard. Non volendo accettare la decisione del suo autore di chiudere bottega, portò di nascosto i manoscritti dei due romanzi a Parigi e li pubblicò. In seguito incoraggiò lo scrittore a emigrare. Epica e comica, come al solito, la descrizione che talvolta Kundera faceva di quel viaggio in compagnia di sua moglie a bordo di una piccola Renault carica solo di un paio di valigie e di alcuni quadri dipinti dall’autore per l’occasione. Nel 1975 giunse a Rennes come professore incaricato.
Fu così che, molto lentamente, tornò alla sua arte. Nel 1979 uscì Il libro del riso e dell’oblio. Poi, nel 1980, si trasferì a Parigi e fu nominato professore all’École des Hautes Études en Sciences Sociales (posto che conservò fino al 1994). Quella decade fu una delle più importanti della sua carriera e sicuramente quella che ne decretò il successo mondiale. Uscirono L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984), L’arte del romanzo (1986), L’immortalità (1990). Ma gli anni Ottanta non rappresentarono solo il momento di più alto riconoscimento della sua opera e di massima esposizione pubblica della sua persona (fu proprio a quell’epoca che decise di non concedere più interviste a giornali e riviste). Non contento delle traduzioni dei suoi romanzi in francese, «un po’ troppo fiorite e barocche», trascorse quattro anni, «come un monaco certosino», a rivederle parola per parola.
La pubblicazione de L’arte del romanzo fece conoscere il Kundera saggista e le sue idee sulla storia del romanzo europeo e i Tempi Moderni, nati non solo dal cogito cartesiano e dalla conoscenza matematica di Galileo, ma anche dai romanzi di Rabelais e di Cervantes, dove le molteplici verità «incarnate in una serie di io immaginari chiamati personaggi», si contraddicono, si relativizzano, facendo del romanzo un luogo essenzialmente ironico, ambiguo, privo di certezze definitive. Con entusiasmo propose al pubblico francese molti autori delle «piccole nazioni» dell’Europa centrale. Kundera non ha mai utilizzato la parola Mitteleuropa, che mette in primo piano la centralità di Vienna e della lingua tedesca rispetto alle altre capitali e alle altre lingue di quella regione. Ricordo che un giorno prese una carta geografica dell’Europa e ci mostrò, dopo aver ben misurato la latitudine e la longitudine, che al centro del vecchio continente c’era Praga, non Vienna! La cultura dell’Europa centrale è stato un continuo richiamo all’eredità europea comune.
Per mezzo secolo, a causa del loro accecamento ideologico, le «grandi nazioni» non lo hanno saputo ascoltare. Quando l’Europa si è finalmente riconosciuta nello specchio di questa regione, «che malgrado tutto non è l’Asia», era ormai troppo tardi. È considerandola infatti un fenomeno storico e letterario del passato che, negli anni Ottanta del XX secolo, gli intellettuali che appartengono alle grandi nazioni civilizzatrici dell’Europa presero coscienza della cultura dell’Europa centrale. Nel momento in cui, come scrisse Milan Kundera nel 1983, cessava di sentire «la propria unità come unità culturale», l’Europa provò improvvisamente nostalgia di ciò che aveva perduto: la cultura dell’Europa centrale non era ormai che nostalgia per la cultura tout court. Sempre alla fine degli anni Ottanta, all’interno del suo Seminario sul Romanzo Europeo, si posero le basi per la nascita della rivista letteraria L’Atelier du roman (1993), fucina di romanzieri e critici letterari di tutto il mondo, luogo di vita letteraria e palestra di interrogazioni costanti sui valori estetici del passato e del presente.
È lì che ho imparato quasi tutto quel che so e soprattutto qualcosa che Kundera ripeteva spesso e cioè che l’estetica del romanzo comprende e supera ogni idea del romanziere: l’opera è sempre più intelligente del suo autore. Dopo la pubblicazione di L’immortalità (1990), uscito due mesi dopo la caduta del muro di Berlino e della fine del comunismo, Kundera, per la seconda volta nella sua vita, ebbe l’impressione di dover dire addio alla sua carriera di romanziere. Affermò che non poteva andare più lontano e che ogni altro romanzo sarebbe stato un’inutile ripetizione della stessa forma. Poi, all’improvviso, mentre stava scrivendo un saggio su Laclos e Vivant Denon, si sentì preso alla gola dalla noia. Non riusciva a sopportare la serietà delle sue riflessioni. Qui c’è tutto Kundera: la serietà, per lui, non poteva mai vincere sulla non serietà.
Così per divertirsi, per il suo piacere («Il piacere, dobbiamo farlo per il nostro piacere! Per cosa altro se no?», mi diceva), ha trasformato il saggio in una «plaisanterie», in una «blague», in uno scherzo, «dove nessuna parola deve essere presa sul serio». Così nacque in francese La lentezza (1995). A cui seguirono L’identità (1997) e L’ignoranza (2000). Così è nata una nuova forma: la «fuga romanzesca», un romanzo breve (a short novel), dove un solo tema è trattato simultaneamente dall’inizio alla fine e dove i personaggi, seguendo un procedimento imitativo, tipico della fuga in musica, esplorano un aspetto particolare del tema, partecipando tutti alla sua costruzione polifonica. In seguito, quando davvero Kundera sentiva di aver chiuso con l’arte del romanzo, il piacere di dare forma vinse ancora una volta sulla presunzione di essersi riconciliato con il mondo. Così pubblicò nel 2013 La festa dell’insignificanza («in virtù della terribile insignificanza della vita quotidiana, perfino il bene e il male perdono la loro importanza», aveva detto molti anni prima a un seminario), l’ultimo «scherzo».
Per non smentirsi, per fuggire come la peste l’immagine cristallizzata del suo destino, per non far quadrare il bilancio ai contabili della critica, per rilanciare la sfida a tutti i «misomusi», ai tutti nemici dell’arte del XXI secolo, per amicizia. All’inizio della seconda parte de La festa dell’insignificanza si legge: «Nel mio vocabolario di miscredente, una sola parola è sacra: amicizia. Voglio bene ai quattro compagni che vi ho fatto conoscere. È per simpatia nei loro confronti che un giorno ho regalato a Charles il libro di Chruščëv, perché tutti si divertissero». Al di là di tutte le leggi del romanzo, questo gesto di Kundera, carico di nostalgia e humour, che regala ai suoi amici immaginari, i personaggi, un libro in cui un mondo che non c’è più riesce ancora a farci sorridere del nostro mondo, rappresenta forse il suo ultimo testamento. Saremo in grado di non tradirlo?
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