Di quale Broch parliamo?
Bisognerebbe fare in modo che le opere rifiutate da un autore e quelle che per una ragione o per un’altra non è riuscito a portare a termine non fossero più pubblicate. Pio desiderio! Non c’è nulla di peggio della posterità! I morti non hanno nessun potere rispetto a quei vivi che, riesumando i fallimenti altrui, non desiderano che mostrare tutto il loro amore. Ma di che amore si tratta? Non si tratterà forse di rivalsa? Di vendetta? Di indiscrezione vestita da furore filologico? Ah, l’umiltà dei filologi, questi pesci rossi dai denti di piranha! Perché sacrificare il loro tempo a ciò che l’autore ha rifiutato? Certo, in nome del “tutto”. Ma non “tutto” quello che un autore ha scritto ha per lui lo stesso valore.
L’anno scorso si è ripubblicato un romanzo di Hermann Broch, L’incognita, edito la prima volta nel 1933, subito dopo l’uscita della trilogia di I sonnambuli (1932). La nuova traduzione è molto bella (molto più esatta e ispirata di quelle precedenti del 1962 e del 1981). Tuttavia, lo stesso traduttore (che è anche il curatore dell’opera) deve ammettere nell’introduzione che, nei confronti del romanzo in questione, Broch sviluppa prestissimo “una violenta idiosincrasia che giunge fino all’abiura”. Cita anche una lettera in cui l’autore confessa di averlo scritto per denaro e di considerarlo “un fallimento”. Non ne vuole più sentir parlare. Perché? Broch si è reso conto che Richard Hieck, il giovane matematico protagonista del romanzo, dedito alla conoscenza scientifica del mistero della vita, non è altro che una debole variante dei tre personaggi protagonisti di I sonnambuli? Forse. Forse l’esplorazione e la rivelazione dei fondamenti irrazionali dell’agire razionale dell’uomo, tema dominante della trilogia, ritorna in L’incognita in modo fin troppo smaccato e privo di quella novità formale che gli ha fatto esclamare, al termine di I sonnambuli, di aver scoperto una nuova forma romanzesca. Per Broch scrivere un’opera letteraria è voler ottenere la conoscenza per mezzo della forma e una nuova conoscenza non può essere colta se non attraverso una forma nuova. Non è soddisfatto della forma di L’incognita. Si tratta di un passo indietro e di una ripetizione. E l’artista non ama ripetersi. E se lo fa, ha tutto il diritto di abiurare la sua opera. Chi siamo noi, posteri, per abiurare la sua abiura?
Quest’anno la stessa casa editrice ha ripubblicato con il titolo di Il sortilegio (Die Verzauberung) un altro romanzo di Broch, uscito per la prima volta in Italia nel 1982. Un romanzo incompiuto e la cui storia editoriale, lunga circa quindici anni, dal 1935 al 1950, anno della morte dell’autore, meriterebbe un noioso excursus. Excursus che il curatore dell’opera fa, senza poi interrogarsi sulla liceità della sua pubblicazione. Del resto, il romanzo è stato pubblicato una prima volta in Germania già nel 1953 con il titolo Il tentatore (Der Versucher) e una seconda nel 1969 con il titolo di Romanzo della montagna (Bergroman). Dopo aver concluso I sonnambuli, Broch, che sin dal 1927, a circa quarant’anni, ha abbandonato la sua attività di industriale e di ingegnere tessile per dedicarsi alla letteratura e allo studio della filosofia e della matematica, si mette in testa di scrivere un’altra trilogia. Nel 1933 Hitler si impadronisce della Germania. L’esistenza dell’ebreo viennese Broch, sebbene nel frattempo convertitosi al cristianesimo, si fa difficile. Il suo umanesimo radicale, condito dallo studio di Platone e dei Padri della Chiesa, è messo a dura prova. In ogni caso pensa a un “romanzo della montagna”, a un “romanzo rurale”, a un “romanzo religioso” ambientato in un villaggio alpino dove i ritmi naturali di una comunità vengono sconvolti dall’arrivo di un certo Marius Ratti, tempestiva rappresentazione, come un celebre critico ha affermato (Steiner), dello hitlerismo, il quale, attraverso i suoi discorsi propagandistici, insinua nella comunità tali paure ancestrali da renderla succube dei suoi diktat. La prima stesura del romanzo è portata a termine nel 1936 (è il romanzo che leggiamo in italiano). Tuttavia Broch non è contento e decide di riscriverlo. Mentre sta scrivendo la seconda versione, Hitler si annette l’Austria. Broch non riesce a fuggire in tempo e viene fatto prigioniero. Per una volta (forse l’unica) la fortuna è dalla sua parte. Dopo circa un mese viene liberato e si imbarca per l’Inghilterra da dove raggiungerà New York. Siamo nel 1939. Dal 1940 alla morte l’autore abiterà a New Haven, nel Connecticut. Si impegnerà per dieci anni a riscrivere il romanzo senza terminarlo. Nel frattempo pubblica La morte di Virgilio (1945), romanzo in quattro movimenti, e, in extremis, Gli incolpevoli (1950), romanzo in undici racconti, dove Broch crea una nuova forma di romanzo in grado di comprendere quell’aspirazione alla totalità che secondo lui né la religione, né la filosofia, né la scienza sono più in grado di soddisfare. Sentite cosa scrive alla fine dei suoi giorni:
La richiesta di totalità rivolta all’arte ha acquisito un carattere radicale, fin qui sconosciuto e, per soddisfarla, il romanzo ha bisogno di una complessa stratificazione, per fondare la quale non è senza dubbio sufficiente la vecchia tecnica naturalistica: si tratta di rappresentare l’uomo nella sua interezza, l’intera scala delle sue possibilità di esperienza, dal piano fisico ed emozionale all’elemento lirico.
Ancora una volta: non sarà che Broch abbia abiurato L’incognita e non sia mai riuscito a terminare Il sortilegio perché altro di ben più importante e di formalmente ben più innovativo gli stava a cuore?
Sfoglio per l’ennesima volta I sonnambuli. Milan Kundera e Carlos Fuentes, due allievi di Hermann Broch, come spesso accade, mi illuminano. Tutti e tre in effetti appartengono alla “tradizione della Mancia” (Fuentes): una tradizione romanzesca che non desidera solo riflettere la realtà, ma creare un’altra realtà, una tradizione inaugurata dal Don Chisciotte di Cervantes. Sia Kundera che Fuentes, poi, sono figli di quell’“impazienza della conoscenza” (Broch) che ha permesso all’autore dei Sonnambuli e degli Incolpevoli di concepire il romanzo come un luogo di massima integrazione delle forme (“romanzo polistorico”) e di aprire la strada alla sua musicalizzazione (penso soprattutto a Huguenau e il realismo, terzo romanzo dei Sonnambuli, dove racconto romanzesco, novella, poesia, reportage, saggio, si intrecciano dando vita a una vera e propria polifonia contrappuntistica).
La trilogia dei Sonnambuli è, per la storia del romanzo, molto più importante di La morte di Virgilio, l’altro capolavoro di Broch, e, naturalmente, di L’incognita e di Il sortilegio. Perfino Hannah Arendt, amica dello scrittore viennese durante il suo esilio americano, nel suo saggio intitolato Scrittore contro la sua volontà (1955), si sofferma una sola volta, e con molte riserve, sui Sonnambuli. Preferisce La morte di Virgilio, probabilmente influenzata dal pathos di alcune riflessioni di Broch, dove parla dell’opera come di un addio all’arte del romanzo e di una preparazione alla sua stessa morte. O forse perché, come molti altri critici dopo di lei, mal sopporta l’entrata a pieno regime del pensiero nel romanzo, scambiandola per una maldestra invasione di territorio. Solo che per Broch la filosofia (come la religione e la scienza), come abbiamo visto, non erano più in grado di soddisfare le aspirazioni metafisiche dell’uomo. Per non parlare della Storia, intesa, dopo la fine dell’unità della Chiesa occidentale, come infinita “disgregazione dei valori”. La parola Storia per Broch è una questione di “stile”, nel senso che non ha solo una dimensione descrittiva, ma spirituale: ogni personaggio è “l’espressione abbreviata” dei molteplici volti di un’epoca. Per il Broch dei Sonnambuli, se la filosofia, come la religione e la scienza, sono impotenti a descrivere quella che egli chiama “la nuova oggettività” della sfera affettiva – che è il campo del romanzo –, così neppure la Storia lo interessa veramente. I sonnambuli non sono un affresco, ma mostrano, come ha affermato una volta Kundera, alcune possibilità dell’esistenza europea; a “Broch non interessa una storia reale che (per caso) ha avuto luogo. Egli non desidera scrivere un romanzo storico. Ciò che lo affascina è la forza sotterranea, invisibile, che plasma le persone e i loro pensieri”. D’altra parte, è questo che dà senso al titolo del romanzo: tutti i personaggi dei Sonnambuli non riescono mai a spiegarsi fino in fondo perché fanno quello che fanno, perché pensano quello che pensano, perché dicono quello che dicono. Camminano come sonnambuli sul filo della realtà. Ciò implica che la stessa concezione del personaggio subisce una trasformazione: si espande oltre la caratterizzazione psicologica, oltre una dimensione strettamente storica. L’osservatorio di Broch si colloca più in alto di quello di un Balzac, di uno Zola, di un Joseph Roth, di un Thomas Mann: “nel cielo della storia europea”. Per cogliere l’essenza dell’ufficiale Joachim von Pasenow, il protagonista del primo romanzo, Broch, ad esempio, risale indietro di secoli e, attraverso il motivo dell’uniforme, lo illumina alla luce di quanto in Europa era successo dopo che le sacre uniformi dei sacerdoti della Chiesa avevano smesso di regnare sugli uomini. Così come, per cogliere l’essenza di Esch, il protagonista del secondo romanzo, Broch si mette a osservare il suo personaggio dalla profondità dei secoli, in particolare dall’epoca della ribellione di Martin Lutero contro la Chiesa di Roma. Si tratta di una delle più grandi sfide estetiche che il romanzo moderno si sia dato e che, per quanto invisibile ai più, rimane aperta. Ciò, inoltre, modifica non solo la costruzione del personaggio, ma anche l’importanza e il senso della story. In quasi tutti i prodotti romanzeschi dei nostri giorni – che distinguerei dai romanzi di creazione che, come la poesia, hanno ormai un pubblico eletto – si assiste a un deficit di immaginazione. Soggiacciono a un mediocre realismo sociale, vogliono fare concorrenza non più al codice civile, ma al cinema, alla televisione. In altre parole, sono privi di immaginazione temporale. Non riescono a concepire la Storia come uno spazio di libertà. E se il romanziere concepisce la Storia con la serietà dello storico, anche la story che regge i personaggi non sarà altro che un riflesso di quella serietà, ovvero una sorta di vicenda in costume o al massimo un ballo in maschera. Non potrà mai accadere che la story di un personaggio possa essere illuminata dal “cielo della storia europea”. La serietà storica, infatti, non è incline a concepire la profondità dei secoli attraverso personaggi in grado di vivere epoche diverse. Siamo alle solite: i romanzieri si ostinano, secondo “la tradizione di Waterloo” (Fuentes), a trattare la Storia come se fossero i lacchè degli storici. In questi romanzi la critica della realtà storica non passa attraverso la creazione di una realtà storica. Del resto, è proprio ciò che differenzia la tradizione cervantina da quella realistica: Cervantes apre all’immaginazione, concependola non meno reale della Storia.
Ci invita a non prendere quest’ultima sul serio, ci invita a non sottometterci al suo potere, o almeno a non sottovalutare le sue possibilità incompiute. E c’è un altro aspetto. Se l’immaginazione individuale del romanziere scompare, o viene confinata entro l’invenzione della story, il romanzo non sarà mai in grado di liberarsi dalle catene del realismo sociale. Romanzi come I sonnambuli di Broch o Rayuela di Cortázar oggi sono quasi inconcepibili. Non solo inconcepibili, ma letteralmente inimmaginabili, in quanto la fusione tra poesia e romanzo – figlia allo stesso tempo della fusione tra verosimiglianza e inverosimiglianza e della fusione tra esperienza e sogno – provocherebbe una confusione tra l’autonomia dell’immaginazione individuale e l’oggettività della successione storica dei fatti. Qualcosa di inammissibile agli occhi dei lettori, così poco analogici, di oggi...