4 / Parassiti in guerra
Ben poche malattie vengono sconfitte per la semplice forza della scienza e l’efficacia della tecnica, ha mostrato Bruno Latour in I microbi. La vittoria su di esse non si spiega con l’evidenza della ragione, non si piega alla logica del progresso; occorre tener conto anche della folla di alleati che entrano ad ingrossare le truppe degli scienziati. Fra i primi ad accogliere il pasteurismo sono i medici militari. Giovani in piena salute muoiono anche in tempo di pace nelle caserme che non sono poi molto diverse dai laboratori, spazi circoscritti dove i parassiti si diffondono ma dove si possono controllare i protocolli sperimentali. In tempo di guerra poi, le epidemie sono da sempre le armi più potenti; lo sappiamo dalla peste che diciamo manzoniana attorno al 1630, prima ancora alle “orrende guerre d’Italia” a fine Quattrocento, dove fa la sua comparsa la sifilide, forse importata dalle Americhe in quello scambio, diseguale anche in termini batterici, fra colonizzatori e indigeni. Nel 1802, più di 50.000 soldati francesi, sbarcati a Santo Domingo, vengono sterminati dalla febbre gialla, senza combattere. Passano una decina d’anni e tocca all’armata di Napoleone venire sconfitta dall’alleanza fra “il generale inverno” ed “il colonnello tifo” che marciava con i soldati. Nella Grande guerra, su tutti i fronti si ripete che si assiste al trionfo dell’igiene moderna, che finalmente si sta vincendo la “guerra di posizione” con i microbi: senza i batteriologi i soldati non potrebbero resistere nelle trincee fangose infestate dai topi. Ma ecco nel ’19 la vendetta della “spagnola”: il grande carnaio della guerra aveva fatto meno vittime dell’epidemia influenzale – si stima che i morti furono 50 milioni –, senza che i pasteuriani siano nemmeno in grado di individuarne l’agente, il virus dell’influenza H1 N1, di cui rimane ancora oggi incerta l’origine.
La seconda guerra mondiale sarà il primo conflitto in cui gli umani riusciranno a uccidere i loro simili più di quanto non avessero fatto topi, pulci, virus nei precedenti conflitti. La tecno-scienza per la prima volta ha la meglio sulle leggi mortali della vita; nei termini di quel che Michel Serres ha chiamato thanatocrazia, potere della morte, la tecnica si rivela più efficace della natura. Davvero non possiamo lamentarci del progresso, commentava amaro il rospo in una Favola della dittatura di Leonardo Sciascia: per assistere allo spettacolo del suo sventramento, un branco di ragazzini lo ha deposto sui binari, in attesa del passaggio del treno, dopo che le ruote di un carro non sono riuscite a schiacciarlo.
Oltre ai medici militari, sono i medici coloniali a schierarsi ben presto a favore delle pratiche diffuse da Pasteur. Devono sconfiggere l’alleato dei neri e nemico dei bianchi, il parassita che difende i paesi colonizzati con febbre e dissenteria.
La conquista richiede l’intervento della microbiologia, laboratori sorgono in tutte le colonie: bisogna sconfiggere i micro-parassiti per consentire ai macro-parassiti di prendere il potere. Esemplare conferma del meccanismo che Michel Serres ha descritto in Le parasite (Grasset, 1980; se ne può trovare un estratto nel numero 35 della rivista “Riga”, 2015), e di cui Latour ha fatto tesoro: l’eliminazione di un parassita da parte di un parassita più potente. Soltanto dopo l’insediamento del secondo ci si potrà salvare dal primo: bisogna introdurre ovunque ricercatori e istituzioni, grazie ai quali gli indigeni potranno produrre, le merci potranno viaggiare e i colonizzatori amministrare. Le malattie tropicali sono legate al ciclo vitale degli insetti, occorre bloccare il percorso che collega all’uomo pulci, zanzare e mosche, infestate da animaletti. Prima ancora di ricorrere ai vaccini, con l’ausilio dei pasteuriani si promuovono interventi su larga scala che operano una ricomposizione del tessuto sociale: abitazioni più pulite, prosciugamenti delle acque stagnanti, muri di materiali non corruttibili. Il secolo è punteggiato da missioni di ricerca per proteggere i parassiti dalla pelle bianca dai miasmi e dai focolai, ma fra i giovani medici della “banda Pasteur” c’è chi avverte il conflitto fra la salute umana e la logica dell’imperialismo.
Alexandre Yersin, dopo aver lavorato insieme a Émile Roux a preparare il vaccino contro la rabbia, decide di spostare il suo laboratorio negli ospedali in Indocina. Presta assistenza medica alla popolazione povera vietnamita, rifiutandosi di fare della medicina un mestiere: “Chiedere soldi per curare un malato è un po’ come dirgli o la borsa o la vita”. Yersin segnala al governo che estendere i circuiti commerciali significa consentire ai microbi di moltiplicarsi; il laissez faire, laissez passer va bene solo per i profitti dei mercati. Quando la peste bubbonica colpisce Hong Kong nel 1894, procede a inoculare il vaccino fra le cavie del suo laboratorio; consegna poi al ministero delle Colonie il bacillo della peste, come Pasteur aveva fatto per gli agenti del carbonchio e della rabbia.
Sulle pagine degli “Annales de l’Institut Pasteur. Journal de microbiologie”, pubblicati dal 1887, si può seguire il modo in cui lo studio dei parassiti e la produzione dei vaccini rinnova sia le pratiche della medicina che le istituzioni. Accanto ai microbi si moltiplicano i ricercatori, anch’essi si piazzano nei “punti di passaggio obbligati” dei percorsi epidemici e delle strutture di potere. Nel 1882, Robert Koch ha scoperto il bacillo responsabile della tubercolosi, anche se la sua convinzione che la tubercolosi bovina non si trasmettesse all’uomo ritardò il riconoscimento del latte come fonte di infezione. Per lunghi decenni non si procedette però a pasteurizzare la malattia; si preferì istituire i sanatori, una strategia ben lontana dall’impostazione di Pasteur, e ben poco efficace, se ancora nel 1916 la metà dei malati moriva entro i cinque anni dal ricovero.
Saranno altri medici della “banda di Pasteur” a promuovere il percorso verso l’immunizzazione, Alberte Calmette (anch’egli medico nei paesi coloniali) e Camille Guérin, veterinario; dovettero lavorare per una quindicina d’anni prima di giungere a un vaccino efficace, sperimentato per la prima volta sugli umani nel 1921. Ma sarà solo dopo la seconda guerra mondiale che i paesi dell’Occidente promuoveranno una campagna di vaccinazione di massa contro la tubercolosi.
Con la legge sull’igiene del 1902 si può dire che in Francia la rivoluzione pasteuriana si è compiuta, anche se il successivo avvento della biochimica toglierà ai microbi il ruolo di attori definitivi. Le resistenze non sono mancate, ricorda Latour; la categoria più scettica e ritrosa è stata quella dei medici di base, che hanno visto nel pasteurismo un attentato alla loro professione, centrata sul malato e non su germi e laboratori. I governi pretendono che il medico – da sempre confidente del malato e tenuto al segreto – denunci immediatamente la malattia contagiosa riscontrata nel paziente. Il nuovo attore introdotto in società, il microbo, compromette la libertà di tutti, perché bisogna impedirgli di propagarsi e spezzare la catena del contagio; il medico diventa l’agente delegato della salute pubblica nei confronti del paziente che, come un carcerato, va isolato in modo che non possa nuocere. La libertà individuale è compromessa in nome del principio per cui nessuno ha diritto di contaminare gli altri; la malattia non è più una sciagura privata, è un attentato all’ordine pubblico, e il medico rischia di perdere prestigio, di ridursi a semplice servitore della società. Per accettare il ruolo che lo Stato impone loro, per accogliere l’invito a rinnovarsi, puntando più sulla prevenzione che sulla guarigione, i medici chiedono in cambio una retribuzione più alta e un rafforzamento della corporazione: se dobbiamo aiutare a liberare la Francia dai parassiti, dicono, la Francia dia la caccia a chi ci succhia il sangue, ciarlatani, farmacisti, suore, ecc. Dal ’94 i medici vedono rafforzato il loro ruolo, accanto al vaccino possiedono il siero, uscito dal laboratorio, per assicurare la diagnosi e il trattamento della difterite, anche se la pratica della vaccinazione anti-difterica (che rientra nelle loro funzioni come ottant’anni prima era accaduto per l’auscultazione) sarà lenta a diffondersi.
Le leggi scientifiche sono state avallate da quelle giuridiche e il medico ha assunto il ruolo di poliziotto sanitario, la durata della sua formazione viene prolungata; adesso non deve occuparsi solo dell’individuo, ma della famiglia, dell’alimentazione, dell’igiene. Il suo posto non è tanto al capezzale del malato, quanto agli incroci dei rapporti sociali, negli organismi dell’amministrazione, nei punti di transito fra naturale e sociale.
Le parasite di Serres compare nel 1980, nello stesso anno del quinto volume della serie di Hermès, Il passaggio a Nord-Ovest (tradotto da Pratiche editrice nel 1983). Il Parassita abita infatti il “passaggio”, il punto in cui si mescolano le acque dell’Oceano Naturale e di quello Umano: può essere il microbo che vive dentro l’organismo animale di cui si nutre, ma anche l’ospite indesiderato che mangia alla table d’hôte, dando in cambio al più solo parole. L’etimo suggerisce che parassita è chi mangia al tuo fianco, letteralmente “presso” (para) l’alimento (sitos), e dunque vive alle spalle di un altro. In origine, nell’antica Atene, il temine designava i funzionari del culto che partecipavano alla divisione della vittima sacrificata ad una divinità e delle granaglie da servire nei successivi banchetti. Il termine sarà poi usato in Grecia anche per indicare l’esattore delle tasse sui generi alimentari; di qui forse lo slittamento di senso che designa con parassita lo scroccone spiritoso e sfrontato, che allieta con parole e canti gli invitati a un banchetto nelle case dei ricchi.
Con queste caratteristiche il personaggio compare sulle scene della commedia, ma anche nel Simposio dei filosofi di Senofonte, fino a diventare in Aristofane e Menandro, poi in Plauto, una figura tipica: ingordo e scaltro, spesso si prende gioco del suo benefattore, sotto le sembianze del buffone si nasconde talvolta il profittatore infido. La satira e la commedia hanno descritto il parassita facendo opera di antropologia e di psico-patologia; hanno parlato di esso come farà, in merito alla tenia o al pidocchio, la biologia che solo in seguito si approprierà del termine per indicare ogni animale o vegetale il cui metabolismo dipende da un altro organismo vivente, da un ospite con il quale è associato e sul quale ha effetti dannosi.
La biologia ha adottato anche la formula di “commensalismo” (l’etimo suggerisce che si condivide la stessa tavola) per indicare quell’interazione fra due viventi in cui uno approfitta del nutrimento o degli scarti dell’altro senza danneggiarlo, lungo uno spettro che dalla condivisione dello spazio (come possono fare la mucca e la capra per l’erba del prato) giunge allo sciacallaggio, cioè al nutrirsi dei resti lasciati da predatori. Insomma, il parassita compare nel contesto di quel “fatto sociale totale” (per dirla con Mauss) che è il pasto: attorno alla necessità primaria dell’alimentazione, si forma la costellazione del sistema dell’ospitalità, dove avviene l’oscillazione dall’hospes all’hostis, dove il terzo può essere incluso o escluso, salvatore atteso o estraneo invasivo su cui pende l’ombra del sacrificio. Il parassita entra in gioco là dove si stabiliscono relazioni, si innescano comunicazioni. Non a caso dal Novecento il termine è stato assunto anche per indicare i disturbi di diversa natura che intralciano la ricezione dei segnali, il brusio che disturba i nostri dialoghi o intercetta i nostri messaggi.
Le Parasite assume come riferimento privilegiato l’universo delle favole (spesso la filosofia non sta là dove la si cerca), soprattutto quelle di La Fontaine, che rinnovano il repertorio antico del greco Esopo e del romano Fedro. Serres indica nel parassitismo la “sostanza della relazione”, il nucleo originario e ineliminabile nei legami che stringono gli organismi viventi, esseri umani inclusi. Manichei senza saperlo, abbiamo pensato la realtà sociale e politica come conflitto fra due contendenti, quella morale (e religiosa) come scontro fra i princìpi del bene e del male; ci siamo affidati a una logica a due valori, al dualismo che riduce tutto alla violenza e alla guerra, che conosce come sola pace l’equilibrio di una bilancia in bianco e nero, secondo l’ideale dello scambio in economia. Abbiamo affidato la razionalità (e la democrazia) allo scontro che avviene nel dialogo, alla dialettica degli opposti esclusivi, dimenticando che i due contendenti, per intendersi, sono sempre già in lotta contro un terzo, il rumore che disturba la comunicazione. Di questi giochi di forza, duelli da torneo medioevale, oppio da giochi olimpici, abbiamo fatto il motore della storia. Ma il rapporto a due è solo apparenza, manifestazione spettacolare di figure speculari sul palcoscenico: è il modello degli eroi gemellari, da Caino e Abele a Romolo e Remo, fino alla leggenda degli Orazi e dei Curiazi, pronti a diventare personaggi di tragedia. La dialettica è la logica dell’apparenza, cioè della fenomenologia: Hegel immagina le autocoscienze poste faccia a faccia, come se il loro scontro si svolgesse nel vuoto, senza terra su cui posare i piedi, senza nulla che faccia attrito. La lotta a morte è un caso eccezionale: se il problema fosse solo “il riconoscimento” i due parassiti paralleli mangerebbero solo illusioni; sotto l’apparenza del conflitto duale, sotto la lotta a morte fra soggetti, l’oggetto scompare. La volpe e il corvo della favola di Esopo almeno si contendevano il formaggio. Nella Fenomenologia dello Spirito Hegel introduceva il terzo – le cose (die Sachen) –, ma le faceva intervenire solo in un secondo momento, quando la paura della morte aveva indotto uno dei contendenti a dichiararsi sconfitto, a farsi servo del Signore. Ma la logica del desiderio mimetico nasconde il fatto che il terzo è già presente nella relazione: le cose sono già là, prima che il Signore le faccia oggetto del suo appetito, e che il servo le produca con il suo lavoro.
Nel “Duello rusticano” dipinto da Goya intorno al 1821 – una delle Pitture nere della Quinta del Sordo –, i duellanti si affrontano con dei bastoni, ma le loro gambe sono immerse nel fango o nelle sabbie mobili. È questa l’immagine con cui Serres apriva Il Contratto naturale (Feltrinelli, 1990): un terzo interviene sempre nei conflitti fra gli uomini, fra le nazioni o le classi. Il mondo, da sempre escluso e rimosso, torna a manifestare con forza la sua presenza ineliminabile, si tratti del clima o del virus, invade il territorio del politico, che volevamo riservato ai legami tra gli umani. Nell’epoca che chiamiamo Antropocene, noi, che ci credevamo soggetti di un oggetto passivo delle nostre trasformazioni, diventiamo oggetti di questo nuovo soggetto, la Biogea. Il mondo diventa soggetto attivo del nostro destino, con esso intratteniamo un doppio legame incrociato di feedback; abbiamo coltivato il sogno di manipolare la Terra come ambiente vitale ed essa ci manipola, risponde e reagisce ai nostri interventi.
Il nostro ambiente naturale-umano è profondamente modificato anche dall’accresciuta mobilità, di persone e cose, cresciuta di mille volte rispetto al 1800. Frutta e ortaggi, animali selvatici o domestici, insetti e batteri si spostano con analoga proporzione rispetto al passato: “Questi spostamenti espongono il sistema immunitario degli uomini a pandemie alle quali forse un giorno non sapremo più come rispondere”, scriveva Serres in Tempo di crisi (2009, Bollati Boringhieri, 2010). Quammen lo scriverà nel 2012 in Spillover (Adelphi, 2017), Bill Gates lo ribadirà nel 2015, ma non era necessario essere profeti o veggenti, forse bastava una saggia comprensione dei mutamenti che l’impatto dell’umanità sta provocando sulla Vita della Terra.
Abbiamo pensato la Storia come processo di emancipazione dalla Natura, come liberazione dal Regno della Necessità, ma cominciamo a comprendere che la nostra specie non può essere conosciuta senza l’immersione preliminare nelle sue condizioni di esistenza: e se la biogeografia si rivelasse più decisiva dell’antica storia? Ominidi narcisi, ci credevamo i soli a costruire una storia, dimenticando che la nostra breve avventura, come diceva Italo Calvino, si iscrive in una temporalità millenaria segnata dalla comparsa della vita sulla terra circa tre miliardi e ottocento milioni di anni fa. Già prima di allora, tutti gli esseri che diciamo inerti non hanno smesso di trasformarsi, seguendo biforcazioni contingenti, fluttuazioni casuali, in cui si sono formate galassie e sistemi solari, una Terra in grado di ospitare organismi. Il Grande Racconto, il Grand Récit che Serres ha fatto oggetto della sua ricerca a partire da L’Incandescent (2003), narra il tortuoso percorso della storia naturale iniziata circa 14 miliardi di anni orsono, al tempo del Big Bang (se vi fu), al cui interno si svolge la storia umana. “La storia globale entra nella natura; la natura globale entra nella storia: ecco qualcosa di veramente inedito in filosofia”, scriveva Serres nel Contratto naturale. Tutti gli esseri hanno una storia, tutte le scienze, non solo la biologia, si sono fatte evolutive. Se vogliamo comprendere il nostro corpo, dobbiamo risalire grazie alla biochimica al tempo in cui il mondo batterico comincia a formarsi: la storia ha plasmato il nostro DNA, mosaico che associa le tracce delle specie che ci hanno preceduto nell’evoluzione, compresi i batteri che lo hanno parassitato.
Scriveva Serres in Darwin, Napoleone e il samaritano (Bollati Boringhieri, 2017): “Siamo venuti a sapere che il corpo umano contiene più batteri che cellule; peggio, più virus che batteri”, e quindi “l’identità individuale di ognuno di noi ormai può definirsi in base al paesaggio batterico o virale che porta con sé”. E Il mancino zoppo (Bollati Boringhieri, 2016) ricordava che molti batteri, ospitati dall’intestino per favorire la digestione, derivano da quei parassiti che nei nostri progenitori provocarono epidemie mortali. I nuclei degli eucarioti – piante e animali sviluppatisi circa 2,7 miliardi di anni fa – portano traccia dei loro predecessori procarioti che invasero una cellula ospite; così i licheni associano un’alga e un fungo. La teoria endo-simbiotica, formulata intorno al 1980 dalla genetista statunitense Lynn Margulis (collaboratrice anche di James Lovelock, il promotore dell’ipotesi Gaia), ipotizza che mitocondri e cloroplasti derivino da antichi procarioti che si sono introdotti in cellule più grandi. Un batterio come l’Escherichia coli avrebbe ceduto parte del suo materiale genetico al nucleo dell’organismo ospitante; entrambi avrebbero tratto un vantaggio evolutivo reciproco dalla relazione mutualistica così stabilita. L’abuso parassitario può portare alla morte dell’ospite, ma accade talvolta che gli opportunisti smettano di prendere senza dare nulla in cambio e siglino una sorta di contratto, inventano la simbiosi con i propri ospiti.
“Superior stabat lupus”: l’incipit della favola di Fedro rovescia la legge d’irreversibilità o di caduta a valle, per la quale mangia chi occupa il posto dove le cose cadono. Il lupo rimprovera l’agnello, posto più in basso nello scorrere del flusso, di intorbidargli l’acqua, giustifica cioè la sua azione da predatore con la legge bronzea del parassitismo. La logica della predazione è troppo semplice, è raro che l’uomo sia lupo per lupo, come voleva Hobbes citando Plauto; la rivalità, che oppone chi sta sulle rive opposte, è soltanto apparenza o rappresentazione teatrale. La parassitologia vorrebbe che la iena o l’uomo non siano parassiti, perché non hanno un contatto permanente con l’organismo che li ospita, non vivono in esso ma di esso, per cui li diciamo predatori, anche quando si nutrono di carogne. Il parassitismo sarebbe solo degli invertebrati, ma il lessico di questa scienza che vorremmo naturale conserva tracce dei costumi arcaici degli umani – ospitalità, spartizione del cibo, rapporto con lo straniero. Dovremmo rovesciare l’antropomorfismo, cioè importare le azioni del parassita sulle relazioni sociali, invece di interpretarle nelle forme elementari di quella che chiamiamo la legge della giungla, secondo cui il forte divora il debole. La saggezza delle favole assimila i comportamenti del lupo, del leone o dell’aquila a quelli del convitato abusivo più che del predatore.
Altro colpo inferto al narcisismo umano, la relazione parassitaria è inter-soggettiva, è l’atomo delle nostre relazioni, suggerisce Serres. Continuiamo a vivere all’interno di animali a cui abbiamo tolto il mantello o la pelle, nel vestire e nel mangiare restiamo parassiti verso la flora e la fauna. “Che io sappia, noi predatori al vertice della catena alimentare uccidiamo e divoriamo animali e vegetali senza domandare il loro consenso. Ci danno il loro sangue, la loro carne, le ossa, la pelle. In base a quale diritto non scritto pensiamo che gli animali, le piante e il mondo ci appartengano? Insomma che queste sensazioni, che questi esseri, ci sono stati dati e che ne possiamo disporre tranquillamente? Saccheggiamo il mondo come il fabbricante e lo Stato che mi espropriano l’auto? Portando il ferro e la morte, ci proclamiamo padroni e proprietari. Viviamo e mangiamo come parassiti di questo mondo” (Il mal sano, Il Melangolo, 2009). L’uomo è il parassita universale, la natura intera lo ospita e lui è l’invitato obbligatorio, che prende sempre senza nulla dare e piega a suo favore la logica dello scambio e del dono. Vorrebbe fare la stessa cosa nei confronti dei suoi simili, di qui la rivalità e il bestiario delle favole. E se fosse il pidocchio a essere uomo per il lupo?
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