A rischio d’amore
Come un distico – però senza endecasillabi né rima baciata – il titolo è la chiave d’accesso al libro di Alexandra Kohan Eppure, l’amore. Elogio dell’incerto, edito in Italia da Castelvecchi (2022). Una virgola isola e ritaglia quell’eppure già forte di suo, lì, in posizione iniziale. Invita a una pausa di lettura, scava uno iato che magnifica il valore avversativo dell’avverbio mentre fa sorgere in eco un discorso precedente. Si ode, in quell’eppure, la dolorosa litania di rapporti finiti, di delusioni e disillusioni, di orizzonti vuoti di incontri e solitudini piegate a rimedio contro il dolore di vivere. Lamenti rotti da quell’eppure perché, nonostante tutto, l’amore accade. Controtempo e contro ogni volontà, in una incertezza costitutiva, elevata a sua unica legge. Quasi fosse una conquista in perenne divenire, l’amore si riscrive nell’incerto. È una messa a nudo dalle conseguenze incalcolabili che esige l’azzardo dell’incontro. Chi saprà esporsi fino a questo punto?
Nella caratura poetica del titolo covano altri segreti. Questo libro non cerca di sapere cosa sia l’amore o perché amiamo qualcuno, ma sposta il baricentro sul modo in cui l’amore si dice o, meglio, si scrive, specie nella poesia che corre lungo i limiti del linguaggio e dà voce al corpo. Perché l’amore esplorato dalla Kohan è un evento dalle venature erotiche, tinto di desiderio, le cui leggi contraddicono il discorso attuale che vuole addomesticarlo, ridurlo a un sistema esatto di entrate e di uscite, un amore in cattività, privo di rischi, che proclama il bene come suo unico scopo. Mentre l’amore di cui si parla qui torna a essere un’esperienza interiore, un percorso di formazione. Sul crinale dell’amore, si gioca quindi la partita tra discorso dell’analista e discorso del capitalista. Questo libro, infatti, intreccia i fili della poesia con quelli della politica. È la sua doppia anima. Per districare l’amore dalla tendenza ortopedica della nostra epoca, Alexandra Kohan convoca molti poeti e ancora Roland Barthes e Jacques Lacan. E poi Jacques Derrida, Michel Foucault, Alain Badiou, Sigmund Freud, Anne Dufourmantelle e molti altri. Li convoca per riscrivere lo spazio atopico del discorso amoroso. Per distinguerlo e metterlo in salvo da un igienismo che lo vuole asettico e privo di scosse. Nella sua traversata, la Kohan tiene stretti i fili dell’atopia di Jacques Lacan e della logica del frammento di Roland Barthes. Mentre l’amore di transfert fa da varco al suo discorso.
L’amore di transfert
Il transfert ci affranca forse dai rischi dell’amore? «L’analisi è senza dubbio un esercizio erotico dal quale lo psicanalista non può sottrarsi». Il luogo dell’analisi implica «due corpi chiusi in una stanza in cui l’amore, a detta di Freud, scotta». Non c’è transfert senza amore e ogni amore – ci ricorda Lacan – è l’incontro tra due saperi inconsci. Il che lo espone all’effetto incalcolabile delle parole sui corpi. A qualcosa d’imprevedibile – e questo vale anche per un analista. Perciò l’amore di transfert è una figura dal profilo tortuoso, finita spesso al centro di controversie teoriche. La Kohan ne ripercorre la storia accidentata attraverso due scansioni: la prima racconta il passo compiuto da Freud rispetto a Breuer, la seconda vede Lacan riprendere da Freud e andare oltre.
Freud versus Breuer: l’incidente inaugurale
Sul finire dell’Ottocento, una serie di eventi decidono le sorti del secolo a venire. Sigmund Freud, figlio della buona borghesia ebraica viennese, rompe la linearità di un percorso consacrato alla medicina, alla psichiatria e alla neurologia. Molte cose importanti nascono per deviazione improvvisa da una strada già segnata – anche questo è uno stigma: l’indizio di un’inclinazione all’amore. Con una borsa di studio, il giovane raggiunge la Salpêtrière di Parigi dove Jean-Martin Charcot tiene le sue presentazioni delle isteriche. Sono incontri aperti a un vasto pubblico, anche di intellettuali e scrittori, perché lì sta accadendo qualcosa che ne valica i confini: i corpi di quelle donne sono enigmi tesi sull’intera cultura del Novecento. Quei corpi suggeriscono a Freud che l’io non è padrone in casa propria. Così, di ritorno a Vienna, prosegue le sue ricerche assieme a Josef Breuer finché una donna cambia il corso del loro rapporto. Per certi versi, la riflessione sul transfert nasce proprio nel solco dello sbandamento che travolge Breuer e Bertha Poppenheim, al secolo Anna O. Questo incidente inaugurale svela che il transfert è «un amore reale, non diverso da quello al di fuori del transfert». Una storia finita come tanti amori: con Breuer che, «preda del terrore», dilegua, ripiegando nei territori della morale. «Breuer – commenta Freud – non aveva niente di faustiano in sé. Preso da un panico convenzionale, si dette alla fuga» lasciandola in preda ai dolori di una gravidanza isterica. Breuer, scrive la Kohan, si allontanò da Anna O. perché l’amava e «corse verso il rifugio borghese per eccellenza: il matrimonio, con un viaggio coniugale d’emergenza dopo il quale, in breve tempo, nacque una bambina». Un classico spostamento: al desiderio di maternità della paziente, Breuer risponde ingravidando sua moglie. L’eros che agita la donna resta indecifrato perché lo spazio analitico può aprirsi soltanto «se l’analista è in grado di essere assunto come oggetto di amore». Ma Breuer rigetta la dimensione erotica del transfert, arretra per evitare l’intrattabile, l’inqualificabile dell’amore e schivare il proprio non-saperci fare. Così facendo, destina quel desiderio a non scriversi. L’incidente inaugurale inscrive la riflessione sul transfert nel solco fecondo dell’errore – errore tecnico, e non solo. Un inizio che obbligherà a ripensare le cose. Ma come? «La novità freudiana – scrive la Kohan – non è tanto la scoperta del fuoco di quell’amore, quanto il modo di affrontarlo». Freud riesce infatti a spostare il focus dal dilemma morale (cedere o meno alla sessualità) al successo terapeutico: «Il problema di andare a letto con un/una paziente è che farebbe fallire il trattamento e non che andrebbe ad intaccare la dignità del medico».
Lacan versus Freud
La psicoanalisi nasce perché Freud, a differenza di Breuer, non retrocede di fronte a Eros, ma «se ne serve». Lacan parte da qui ma scioglie il dilemma morale in un’etica del desiderio: l’analista spinge l’analizzante a frequentare la mancanza perché vuole reperire la sua singolare cifra soggettiva, la sua differenza assoluta. L’amore di transfert diventa così una strada verso il desiderio. Lacan compie questo passo rileggendo il Simposio di Platone. L’ingresso dirompente di Alcibiade: ecco la deviazione, lo sbandamento attraverso cui rinnova la sua riflessione. La disparità e l’atopia sono le chiavi che ci offre per ripensare l’amore di transfert. Alcibiade – scrive la Kohan – è l’irruzione della vita, dell’erotismo e della bellezza. Rompe ogni schema e va «al di là dei limiti del dicibile, lì dove irrompe il corpo» e finisce l’armonia. Per cominciare, destabilizza l’ordine simbolico, pronuncia «parole indecorose, inopportune, fuori luogo» per provocare Socrate a dichiarare il suo desiderio. Poi cambia le regole del gioco: decide che non si farà più l’elogio dell’amore, ma «ognuno farà l’elogio del suo vicino. Perché, se si tratterà d’amore, sarà amore in atto, e sarà la relazione dell’uno con l’altro che dovrà manifestarsi». All’elogio dell’amore (che trattiene nei recinti dell’ideale) si sostituisce l’amore in atto: l’altro come oggetto reale d’amore e di desiderio. Un passaggio di discorso pieno di conseguenze, un urto con l’ignoto perché ci si scopre desiderati per qualcosa d’insondabile e non per quel che crediamo di essere.
La disparità tra amante e amato
La mossa di Alcibiade fa emergere due posizioni asimmetriche: quella dell’amante (il desiderante) e quella dell’amato (il desiderato). La disparità è un modo «inedito di pensare le relazioni amorose» che smonta sistemi di fusione e incollamento, al fondo padronali e fobici d’alterità. È un costrutto di desiderio organizzato da un oggetto indefinibile che Lacan chiama agalma e che qualifica odd: estraneo, impari, strano, bizzarro, singolare. L’amato irradia questo oggetto ma non sa di averlo, mentre l’amante non saprebbe definirlo (chi sa mai davvero perché desidera o ama qualcuno?): il desiderio riposa su questo fondo di non sapere. Che sia solo uno a incarnarlo rompe le simmetrie e la tentazione di riassorbire l’altro nel proprio, preserva l’alterità di entrambi. La disparità scava anche un secondo fossato. C’è uno iato tra l’oggetto intravisto nell’altro e la sua reale fattura: l’oggetto di cui l’altro è portatore non è quello che manca al soggetto. Questa dissonanza crea una sfasatura. L’amato non colmerà l’amante con l’oggetto atteso, lo lascerà in una mancanza propizia a rilanciare il desiderio. Al fondo «l’oggetto che accende il desiderio non è lì per essere posseduto, ma è lì per scatenarlo». È un crash, un flash, scrive la Kohan. Che ne è allora di un amore attraversato dal desiderio? Il desiderio apre nell’amore uno spazio movimentato, scardina l’ideologia che immobilizza la coppia in un ideale atrofico di armonia. In questa logica, come dice Roland Barthes, una coppia è «lo spazio e il tempo senza crisi», «è il tentativo di fare della diversità un’identità». Il discorso di coppia si distingue così dal discorso amoroso in cui Eros scrive «quello spazio impossibile da suturare, da saturare, da far coincidere». È qui che il sapere acquisito decade, mentre il dire si anima di inesprimibile: è in questo istante, direbbe Roland Barthes, che la lingua balbetta e il linguaggio trema.
L’atopia si fa linguaggio
Oltre a creare disparità, l’agalma è un oggetto atopico perché irrompe «fuori tempo e fuori luogo». Disegna uno spazio dalle coordinate «scomode, decentrate, sfasate», un luogo, come direbbe Rilke, creato fin dall’origine per un evento puro. Atopia, dai contorni illogici e disordinati, è perciò un altro nome di Eros. Quando investe il linguaggio, l’atopia «disegna tratti, ma non modella una totalità, non si esaurisce in un unico senso». Vota l’amore a uno spazio linguistico poetico, inesauribile perché indeterminato. E prepara un antidoto contro la tipizzazione, «contro i luoghi comuni nei quali si sedimenta il tentativo di acquietare l’incertezza» e sciogliere gli equivoci.
Declinare l’atopia in termini di linguaggio è tra gli aspetti più interessanti del libro. Lo spazio atopico è inattuale perché contraddice quel sistema classificatorio in cui persino le avanguardie del pensiero sono, loro malgrado, ricadute. Senza accorgersene, sono state rimasticate dal discorso capitalista impegnato a imbrigliare l’incalcolabile, a depotenziarne la carica eversiva. Perché lo volge in scheda, in definizione. Lo dissacra in sostanza identitaria. L’etichetta prosciuga la complessità dell’esperienza. Il mercato «insiste voracemente nel voler dare un nome a ogni tipo di piacere. Definisce, inquadra, classifica» e, così, trasforma il godimento in una merce da vendere. Organizza la filiera dello smercio. La contingenza si spoglia di quelle movenze poetiche attraverso cui il sesso e l’amore cercano di dire l’irripetibilità della loro esperienza. La singolarità si piega alla normalizzazione. Atopia è invece il nome di un pensiero che resiste alla solidificazione. Che si oppone agli stereotipi che impediscono ai corpi di emergere nella loro differenza. Se l’atopia aspira all’inedito, allora le si addice la poesia e la poetica del frammento di Roland Barthes che, nella brevità dell’Haiku, elogiava il decentramento del senso. Barthes ha realizzato una «disseminazione delle figure discorsive» grazie alle sue sfilacciature linguistiche, alla stratificazione dei detti sull’amore che approdano, più che a un testo, a un palinsesto. Il frammento decostruisce la dissertazione, predilige le soglie e le crepe. Scrive la mancanza e l’oltre.
La logica del frammento di Roland Barthes
Roland Barthes non ambisce a sapere cosa sia l’amore. Ogni risposta alla domanda cos’è? instaura il regno delle identità, mentre per Barthes non esiste scienza dell’amore, ma solo il discorso di un soggetto innamorato. Che procede esitante, per contraddizioni e paradossi, movimenti laterali, arretramenti, improvvisi affondi. Un’andatura che resiste «al sapere coagulato, sedimentato, ristagnante», che lo decompleta attraverso un ostinato disallineamento. È il discorso di un soggetto in divenire, che si muove «in estrema opposizione all’Io: quel magazzino di buonsenso che non balbetta mai». In questa topica amorosa, Barthes colloca i frammenti, le figure, le digressioni che attinge dal suo personale atto di lettura. L’incerto è un metodo di lettura volto a risvegliare il linguaggio ottuso, inceppato e assopito dagli stereotipi, in cui la forma del dire è più importante del cosa dire. Vale lo stesso per Lacan che all’amore si è dedicato tutta la vita senza mai cedere alla «tentazione del significato» che lega, affatica e solidifica. Ne ha parlato per aforismi, giaculatorie, aporie, frammenti, enunciati rimasti opachi. Nessuno di essi, fa notare Jean Allouch, ci restituisce la formula lacaniana dell’amore. Per lui come per Barthes «l’amore si scrive solo in modo frammentario». E il linguaggio del frammento è insufficiente per vocazione, «non basta» perché, come scriveva Maurice Blanchot, «non ha per significato il suo contenuto». E neppure si compone con altri frammenti per formare un sapere d’insieme, più completo. Nel suo moto discontinuo, il frammento «è detto fuori dal tutto e dopo di esso». L’amore è, dunque, una questione di linguaggio. Ne dicono meglio i poeti di coloro che aspirano a codificarlo perché «un amore che si conosce» darà vita a un amore ideale «stretto, inibito, preso nell’identificazione, tormentato dal senso», un amore senza errori, «che produce solo amori impossibili, perché non vuole sapere niente dell’impossibile dell’amore». L’ideale estromette il desiderio. È un amore in accordo con la psicologia del ricco, incarnata nel Simposio da Pausania. In questa logica si tratta solo di convenienza e di calcoli, di “salvaguardia della capitalizzazione”. Stilemi linguistici che tradiscono il sottofondo teorico che li nutre. Nella realtà, scrive la Kohan, questa visione acquista forza «quando si calcolano i pro e i contro di una relazione, quando si fa un bilancio del dare e del ricevere e si conclude che una relazione “non mi conviene”, “mi fa perdere tempo”, “non mi serve”».
Il linguaggio degli slogan
Sono Michel Foucault e Alain Badiou a illuminare il divario tra discorso del capitalista e discorso dell’analista. La retorica del discorso capitalista è punteggiata di stilemi come “amore tossico”. Un sintagma che affonda le sue radici nella «medicalizzazione della vita» già esplorata da Michel Foucault. Una condotta che spinge al confinamento degli infetti, autorizzando una politica espulsiva. Un ideale di asepsi che comporta una tendenza segregativa. “Tossico” agisce quindi come una doxa che nomina, classifica ed espelle «ciò che non quadra». Definisce un campo incontaminato, costruito com’è sull’opposizione tra sano e patologico. Una logica che sa con certezza dove sta il bene e dove sta il male. Eros, invece, cresce «in una zona contaminata, sporca di vita e di ferite che non si cicatrizzano e di cicatrici che impediscono di dimenticare».
La compromissione dell’amore con il paradigma mercantilista e liberale è esplorata anche da Alain Badiou. Nel suo Elogio dell’amore, analizza la pubblicità del celebre sito d’incontri Meetic secondo cui si può essere innamorati «senza cadere nell’amore». Il sito fornisce un coaching amoroso che istruisce a un amore senza rischi: «se si soffre, è perché non si sono prese le misure necessarie». Un paradigma ingannevole che «ci fa credere sia possibile calcolare con precisione, evitando il rischio di rimetterci, ci fa credere che i conti tornino». Farne un campo sicuro significa ridurre l’amore alla «gestione di una qualsiasi compagnia assicurativa». Se Badiou parla di “minaccia assicurativa”, Daniel Mundo definisce quest’attitudine “capitalismo affettivo” mentre Anne Dufourmantelle parla di un “mercato mondiale della rassicurazione” orientato da un principio di precauzione. Un discorso che trasforma gli amanti in contabili. In questa logica persino il sintagma “amore libero” è al servizio di un precetto economico: «bisogna godersela, non bisogna annoiarsi, non si deve soffrire» per restare performanti e produttivi. «Da qui l’insistenza nell’aggettivarlo, nell’addomesticarlo: amore sano, amore malato, amore tossico, coppia aperta, coppia chiusa». Invece, l’esperienza amorosa dilata le reti del linguaggio e del tempo. È una divagazione rischiosa perché Eros «non è utile, non è un programma», ma lascia in vista «vuoti, iati, discontinuità». Come scriveva Bataille: «Nell’erotismo, io mi ci perdo». Nel suo elogio della fragilità e del segreto, la Dufourmantelle ha dichiarato che «il vero tempo è sempre perduto». Quello dell’amore, ha scritto Roland Barthes, è «un tempo bucato. Un tempo in briciole» fatto di «speranze, disperazioni, contingenze, intralci, futilità, assenze, contrattempi».
Eppure
L’atto politico di Alexandra Kohan è quindi un atto linguistico. Il linguaggio poetico riabilita le divaricazioni e le contraddizioni di un’esperienza in cui si tratta di «indovinare sbagliando e trovare perdendo. L’amore è un malinteso sull’incontro». Ridurre il margine di questo enigma è una tecnica di confinamento linguistico che prelude ad altre forme di internamento. La Kohan si rivolta: «Bisogna trovare degli spiragli dove poter imbucare, contrabbandare, l’amore, in modo tale che questo mostro chiamato mercato possa nel frattempo distrarsi con altre prede». Cosa resta? Resta la poesia, come voce dell’indicibile, del corpo e dell’erotismo. I protocolli uccidono il desiderio. Così le sigle e le definizioni. Oltre queste barriere, direbbe Lacan, ci sono le maglie bucate dell’Altro: i buchi senza fondo del linguaggio attorno ai quali prosperano le invenzioni dell’amore. Non si torna a fare uno. L’amore resta tra due, in spazi governati da quel non so cosa che rende l’altro irresistibile. L’io non è padrone in casa propria: su questa tessera Freud ha ordito la trama del suo discorso. L’esperienza analitica, al pari dell’amore, «ci rende estranei a noi stessi, ci de-familiarizza». Amare implica sempre la possibilità di allontanarsi. Come successe al giovane Freud quando deviò in modo inatteso un percorso di studi che pareva destinale inventando, così, la psicoanalisi. Per deviazione improvvisa nasce anche la sessualità. E l’amore, che dirotta e deraglia ma amplia i confini del reale perché aggiunge nuove maglie al linguaggio. È Rilke a dirlo: solo «gli amanti potrebbero, nell’aria della notte, dire meraviglie».