Per non essere vittime delle pulsioni collettive / Anatomia del crimine
Per lungo tempo si è pensato che il processo penale fosse esclusivamente l’occasione per applicare a un cittadino la legge concepita in astratto. Applicare uguale interpretare, e cioè leggerla secondo la volontà di chi l’ha costruita, secondo il tessuto linguistico, l’evoluzione storica, calandola in definitiva al caso concreto.
Il positivismo ottocentesco ha impresso una formidabile spallata a questo modo di intendere il momento giudiziario, palestra dell’accademia e riserva esclusiva dei giuristi e delle loro costruzioni. Il diritto, si diceva, non può fare a meno della scienza in quanto la ricostruzione del fatto accaduto e la salute mentale dell’imputato non possono prescindere da conoscenze specialistiche. L’antico mito, che oggi ancora risuona nelle aule universitarie, del giudice quale “perito dei periti”, e cioè sovrano illuminato che domina ogni materia giuridica e non, iniziava a subire ferite profonde.
Dalle discussioni in materia psichiatrica si è passati, lentamente ma inesorabilmente, alle scienze tradizionali ed oggi alle nuove scienze.
La letteratura poliziesca, e poi cinema e televisione, hanno contribuito a rompere un velo: le indagini non sono solo intessute di logica e di ragionamenti come nel giallo classico, o di psicologia e buon senso alla Simenon o Agata Christie, ma di conoscenze extragiuridiche.
Si legge e si vede di indagini in cui l’acutezza e la perspicacia cedono il passo ai microscopi, all’esame delle tracce di sangue, al DNA. Ai commissari si affiancano agenti con camici bianchi, dalle mani inguantate per rilevare impronte e non danneggiarle. Le discussioni in aula sono competizioni tra esperti e il caso si risolve anche e soprattutto grazie a loro. Del resto la cronaca giudiziaria può fornire incessanti riprove di questo ruolo degli esperti, dei loro contrasti, del quasi continuo ricorso alle loro capacità.
E il fenomeno si estende con velocità inusitata perché la tecnologia offre sempre nuovi spunti, rileva nuovi scenari, consente nuovi approfondimenti. Il processo diviene, oggi più di ieri, il palcoscenico della “prova scientifica”, quella prova cioè che mutua dalle scienze il proprio contenuto e che viene offerta alle parti processuali come fortemente condizionante, se non risolutiva, della controversia giudiziaria.
Del resto come possono i soggetti tradizionali del giudizio, giudici, pubblici ministeri ed avvocati, conoscere quanto esorbita dal loro patrimonio conoscitivo? Come possono percepire il contributo delle scienze, siano esse nuove o meno? Come potevano pensare che le impronte digitali o il DNA avrebbero potuto capovolgere giudizi improntati sulla mera logica degli indizi, come dimostrano i sempre più frequenti provvedimenti di grazia in USA?
Il volume Anatomia del crimine (Codice, Torino, 2016) si pone sul solco di questo sovvertimento processuale. L’autrice, la giornalista-scrittrice Val Mc Dermid segnala, con dovizia di particolari e con annotazioni, quanta importanza abbiano le scienze forensi nel campo processuale.
Nate per coadiuvare la decisione giudiziaria e individuare il colpevole, accertare come il delitto è stato commesso e quando la vittima è morta, hanno ampliato progressivamente il campo d’azione. E i capitoli del libro ne sono testimonianza, svariando dalla tossicologia alle scienze naturali, dalle impronte digitali al DNA, dall’antropologia alla ricostruzione facciale, dall’informatica alla psicologia forense.
E si coglie come la scena del crimine, cui è dedicato il primo capitolo, sia influenzata non solo dai dati tradizionali annotati dal medico legale, ma anche da quelli “naturali”. Essi possono consentire di stabilire l’epoca della morte studiando le larve con l’entomologo, determinare il luogo dell’omicidio con eventuali radici attorno al cranio, pollini e foglie con il botanico, recuperare i resti cadaverici con l’anatomopatologo.
Gli scenari che si aprono sono sempre più vasti e l’affidamento a competenze extragiuridiche sempre maggiori. Le professioni tradizionali legali devono prendere atto di una situazione irreversibile, alimentata anche dalla tensione a scoprire i colpevoli e commisurarne la sanzione. Non si tratta di un esproprio di antichi poteri, ma dalla voracità della tecnica che tutto divora.
Ciò non toglie che nascano alcuni problemi.
Il primo, d’ordine generale, riguarda il costo crescente del processo per l’ingresso di queste nuove forze e di conseguenza il costo della difesa per retribuire i propri consulenti, sempre più indispensabili affinché discutano con l’accusa. E gli americani, sotto questo aspetto, ne sanno qualcosa.
Il secondo, specifico per l’Italia, concerne il controllo che il giudice e le parti possono esprimere su quanto loro viene prospettato. Come sono in grado di esercitarlo? Si introduce una sorta di affidamento improprio alle capacità dei propri tecnici? Se questo non è possibile per i nostri vincoli costituzionali, allora le parti legali debbono trovare un ambito di discussione nel delineare l’attendibilità di queste discipline o delle teorie interne che sono presentate. Negli USA, dagli anni ’90, sono comparse decisioni che hanno tentato di fornire, e sono riuscite, una cornice interpretativa affinata negli anni, avendo avuto la percezione immediata del problema che stava sorgendo.
In Italia solo da qualche anno il tema è sul tavolo, grazie soprattutto alla Cassazione penale che ha dovuto cimentarsi in casi che imponevano una direttrice, per lo più in materia colposa (disastri naturali ed ambientali, malattie professionali per citare i più clamorosi). Senza trascurare però le vicende indiziarie, consapevoli che la parola fine su processi quali quelli di Garlasco e di Perugia è stata messa con l’apporto determinante della scienza. E sono stati forniti spunti basilari sul tema di sempre: cosa è scientifico e cosa non lo è, cosa resiste all’evoluzione scientifica e quanto viene invece contraddetto, cosa è prevedibile e cosa non lo è.
È questa una delle scommesse maggiori che si trovano ad affrontare gli attori giudiziari tradizionali, giudici ed avvocati. Per rimanere ancorati alla legalità e non essere vittime delle pulsioni collettive, per imbullonare il processo nell’aula e non nei salotti televisivi, per evitare che la toga nera diventi un camice bianco.