Giorgio Demaria: horror torinese

21 Dicembre 2024

Capita talora che alcuni romanzi rimangano avvolti in un cono d’ombra, invisibili ai più, i cui destini sono legati non alla bontà degli scritti, ma al flusso degli eventi. Le venti giornate di Torino (ripreso ora da Neri Pozza, 2024) è uno di questi. La sua storia editoriale è bizzarra. Uscito nel 1977 nelle edizioni del Formichiere, è stato improvvisamente riscoperto negli Stati Uniti quando, intorno al 2014, giunge nelle mani del critico australiano Ramon Glazov grazie a un consulente editoriale torinese, un certo Luca. Glazov si entusiasma dello scritto e lo propone all’editore Norton che decide di pubblicarlo. A quel punto il nome di De Maria inizia a circolare negli Stati Uniti, riscuote successo, viene inserito nell’autorevole rivista Vulture Magazine di New York tra i 100 libri di fantascienza distopica (“Le grandi opere della narrativa distopica”) e commentato autorevolmente in alcuni saggi. L’eco rimbalza in Italia e l’editore Frassinelli ne acquisisce i diritti. A questo punto ci si imbatte in un’altra sorpresa. Giancarlo Frassinelli, figlio del fondatore della casa editrice, era noto a Torino per frequentare con autorevole dedizione un gruppo che si riuniva attorno alla figura del mistico armeno Gurdjieff, tra i cui devoti c’era anche la moglie di De Maria. Di lì a poco Giancarlo fu ucciso proprio nell’androne del palazzo dove vivevano i De Maria. Direttore di Frassinelli dal 2015 al 2018 fu Giovanni Francesio che presentò il libro al Salone del Libro il 10.4.2018, e non a caso la pubblicazione attuale avviene per i tipi di Neri Pozza presso cui questi si è trasferito dal 2023.

L’oblio del romanzo ha avvolto anche il suo autore, Giorgio De Maria. Nato a Torino nel 1924, laureato in lettere, insegnante, appassionato di musica, critico dell'Unità dal 1958 al 1965, nel 1958 fondatore con Calvino ed altri del gruppo musicale dei Cantacronache che utilizzò la musica popolare per esprimere i disagi sociali, politici e culturali del momento (AAVV, Le canzoni della cattiva coscienza. La musica leggera in Italia, Bompiani, Milano, 1964). Scrive per il teatro e la televisione e collabora con il quindicinale politico di sinistra “Nuova società” e con la rivista Il Caffè dove pubblica vari racconti. Nel 1968 esce il romanzo I trasgressionisti cui seguono I dorsi dei bufali (1973) e La morte segreta di Josif Giugasvili (1976) mentre nel 1977 viene pubblicato l’ultimo romanzo, Le venti giornate di Torino. Inchiesta di fine secolo. Nel 2009, afflitto da problemi psichici e abbandonata la letteratura, muore quando da tempo era entrato nell’ombra.

La trama del romanzo racconta una vicenda accaduta dieci anni prima a Torino quando si verificarono molte morti inspiegabili e si era diffusa un’inquietante epidemia d’insonnia cui si accompagnava un’improvvisa, temibile siccità. Uomini e donne che non riuscivano a dormire si trovarono a girovagare per le strade e le piazze del centro, e molte di loro venivano trovate morte. La struttura narrativa si serve di un “escamotage” collaudato, cioè l’indagine “retrospettiva” come chiamata dall’autore, priva del tradizionale finale positivo. L’io narrante è un anonimo impiegato appassionato di musica, che abita da solo in una dignitosa palazzina. Nella sua vita prevedibile e concreta, si insinua un giorno il desiderio di fare chiarezza su strani fenomeni accaduti dieci anni prima in città, di cui si erano occupati i giornali: Potremmo almeno pensare al gesto di un pazzo; e sarebbe una sorta di liberazione sia sul piano della coscienza umana sia su quello politico. Ma se la pazzia c’è, in questo caso ha carattere collettivo e implicazioni in qualche modo ideologiche.”

j

Contatta la sorella di Giovanni Bergesio, la prima vittima il cui corpo venne trovato nel centro storico della città spappolato perché sbattuto contro un basamento. Costei accetta malvolentieri di parlare del fratello, dell’insonnia che lo aveva colpito con altri che vagavano nella notte, delle strane affermazioni come quella secondo cui alcuni monumenti si erano cambiati di posto. Anche se alla morte erano presenti altre persone nessuno parla e nessuno ricorda, per cui gli inquirenti brancolano nel buio. “Giovanni […] diceva di avere molto sonno… parlava … del fondo di un lago dove invece di sassi c’erano bassorilievi”. E ancora: “Ricordo che voleva dello spazio!… Diceva che non ne aveva più per muoversi, per girarsi; disse anche questa frase terribile: se anche volessi uccidermi non troverei lo spazio per morire!”. Le percezioni erano strane, anche erronee: sentiva strani odori nell’aria e fenomeni uditivi difficilmente definibili, qualcosa di disumano “come un terribile grido di guerra con al fondo qualcosa di grigio, di metallico. 

Comunque sia l’insonnia porta le persone in piazza e come automi vengono colpite da inspiegabile furore.

Il narratore decide allora di incontrare un altro testimone, l’avvocato Segre, secondo cui i tragici eventi sarebbero iniziati con l’apertura di una struttura da lui ritenuta “famigerata”, la Biblioteca. Si trattava di un luogo collocato in un padiglione del Cottolengo, cioè della Piccola casa della Divina Provvidenza, storico istituto caritatevole che assisteva anziani, malati, emarginati. In esso si potevano portare i propri scritti, in realtà diari personali in cui venivano esposti i segreti più profondi, spesso inconfessabili, a disposizione anche di altri. Il messaggio era: “A noi non interessano la carta stampata, i libri, c’è troppa finzione nella letteratura, anche in quella cosiddetta spontanea… noi siamo alla ricerca di documenti veri, autentici, che rispecchino l’animo reale della gente, che possano, insomma, considerarsi per davvero dei soggetti popolari. L’iniziativa fu creata a seguito della crisi della città che, secondo il sindaco, soffre di scompensi profondi, con una monolitica base produttiva ma con un vertice rachitico… con forze oscure che mirano a reprimerci. Promossa da “giovanotti ben pettinati e ben vestiti, la Biblioteca ha l’obiettivo di offrire un luogo alternativo alla cultura ufficiale. Vive così una stagione fortunata, sorretta dalla prospettiva di superare l’alienazione, la separatezza dal mondo condividendo esperienze vissute. Ma i “demoni covano sotto le ceneri” e la città, “isolata, fuori dal traffico internazionale dove certi esperimenti possono essere compiuti senza dare troppo nell’occhio”, si trova spaesata anche per il crollo dell’industria, quasi ingoiata in un soffio spettrale.

Nonostante i buoni propositi la Biblioteca diviene uno strumento di controllo carpendo i più insondabili desideri e i piaceri del prossimo e trasformandosi in “un limaccioso sottosuolo, un bacino di scarico dove ognuno poteva rovesciare ciò che voleva, tutta la poltiglia che teneva dentro”. In definitiva diviene una riunione di diseredati, asociali, scrittori mancati, un sito rifiuto, uno ‘shitposting’ ante litteram. Da questa miscela non poteva nascere nulla di buono ed infatti si crea un pedinamento paranoico nell’intera comunità, l’isolamento cresce inarrestabile e la metropoli degenera in nevrosi e poi in una dilagante epidemia d'insonnia. Si racconta che nei sotterranei del Cottolengo vivessero mostri “oltre a vecchi mobili, libri, cartacce, avanzi di cucina … escrementi umani che cadevano dall’alto”, mentre dai manoscritti sopravvissuti proveniva “un odore insopportabile di muffa e di putrefazione”. Nel momento in cui si svolge il racconto la Biblioteca è chiusa, il suo materiale in gran parte distrutto e Torino diviene la muta testimone di delitti incomprensibili che lasciano cadaveri sul selciato in un’atmosfera di incubo “che la città, già afflitta dall’insonnia, non riesce a dimenticare”. Chiusa la Biblioteca, tutto viene dimenticato come gli eccidi, l’insonnia, la disgregazione della compostezza sabauda.

In questo quadro la protagonista assoluta è Torino e non a caso sono comparsi articoli con minuziose ricostruzioni dei luoghi citati nel romanzo, con mappe interattive sulle zone e sui monumenti (Amici, “Le venti giornate di Torino: i luoghi del romanzo di Giorgio Demaria”, Radical ging, 20.9.2018). Del resto l’autore sosta, e non poco, sui monumenti, sul loro ruolo di custodi dei segreti urbani, di controllori dell’uomo per potergli fare del male (i corpi vengono sbattuti loro contro). Le indagini si rivelano un azzardo perché si imbattono in un ginepraio di reticenze e dissimulazioni, immergendosi in acque che non avrebbero dovuto essere più smosse. Sebbene in molti lo esortino ad abbandonare le ricerche per il bene di tutti, il narratore però non si dà per vinto e si reca a far visita a Paolo Giuffrida, un critico d'arte appassionato di parapsicologia e occultismo. Qui ascolta le registrazioni effettuate dal predetto in quel periodo quando incise su nastro magnetico voci in realtà non riconoscibili che esprimevano i pensieri più disparati (p.77). Poco tempo dopo viene sconvolto dalla notizia che Giuffrida è stato assassinato e, temendo di essere anch’egli nel mirino, accetta l'invito di un amico musicista a recarsi presso di lui a Venezia. Abbandona Torino con un volo da Caselle ma prima di imbarcarsi decide di dare un addio alla periferia della città: in particolare la chiesa della Madonna del Buon Cammino, vicino alla quale si trovava il Teatro dei Pupi che aveva messo in scena uno spettacolo dal titolo “Le venti giornate di Torino “.

k

L'aereo però non atterra a Venezia, ma in un luogo deserto dove i passeggeri sono fatti scendere e finiscono in balia di figure spettrali come quelle avvistate nelle Venti Giornate, per ritornare liberi ma svuotati, ripiombati nella purezza originaria, in una atmosfera di generale senso di smarrimento.

La città di Torino, autentica protagonista del romanzo, viene vista sotto una lente diversa da quella apparente e consueta anche per il clima di orrore e di claustrofobia in cui viene immersa (Sabadin, “Torino noir 1977”, La Stampa 25.1.2017). In modo originale emergono gli anni più cupi della “strategia della tensione” con le improvvise esplosioni, le urla disumane, i mostri “sbattuti in prima pagina”, la paura per forze oscure e innominabili, lo sgretolamento di ogni resistenza sotto le bombe di poteri malvagi e senza scrupoli. Compare l’ombra lunga di quei terribili e sanguinosi anni e questa connotazione di orrore perturba come un classico “weird” nella città dove Nietzsche impazzì e in merito alla quale Kafka appuntò sul diario: “Non andare a Torino. A nessun costo”. È una storia di fantasmi, di meccanismi di paura e dipendenza da potenze occulte, di corpi perturbanti e di architetture stranianti, di statue che si scambiano di posto, di bassorilievi che ossessionano, di energumeni che usano le vittime come mazze umane. È stato notato da Berard (Berard, “Divinità meschine ed impure: sulle Venti giornate di Torino”, Los Angeles Review Books, 7.2.2017) un parallelo tra De Maria e Lovecraft, con la figura del protagonista sovrapponibile agli investigatori lovecraftiani, con la Torino del romanzo paragonabile alla loro Providence, entrambe città (ex) industriali dalla reputazione elegante e cortese ma talora sospetta. Potrebbe anche esistere, secondo taluno (Pifferi, Distopia, disillusione, disgregazione. L’universo imploso de Le venti giornate di Torino di Giorgio Demaria, Utopies, n. 25, 2021p. 239) qualche analogia con Dissipatio H.G., di Guido Morselli uscito in quegli anni, anche se strutturato su una distopia esistenziale e fantastica mentre quella di Demaria è intrisa di politica. Colà si immagina l’ecatombe in una città con un uomo che decide di suicidarsi lasciandosi affogare ma ci ripensa, e con sorpresa trova la città senza individui, di cui sono rimaste solamente le voci disumanizzate nelle segreterie e nei servizi telefonici. Uno straniamento sonoro comune al romanzo di De Maria ove appaiono le voci registrate con un’identica indecidibilità a causa dell’impossibilità di decifrare se provengono dall’aldiquà o dall’aldilà.

Il tema del prosciugamento dell’anima, dei corpi svuotati di sentimenti percorre il libro: le statue sono simulacri di vita, e gli omicidi compiuti da presenze negative sono una copia perversa dell’esistente. Il malvagio per l’autore è nelle cose, nel tessuto urbano di un potere economico in cui i crimini vengono coperti da silenzi omertosi, nell’esoterica Torino che negli stessi anni si offre a sfondo di Profondo rosso di Dario Argento e dove si incontrano i vertici dei triangoli della magia nera e della magia bianca. E non a caso è la città in cui si tramandano leggende su fondazioni egizie, forme dei fiumi e porte dell’Inferno, frequentata da circoli rifacentesi al mistico esoterico Gurdjieff, dai gruppi surrealisti di Lorenzo Alessandri, artista appassionato di occultismo, ufologia e satanismo, fondatore della “Soffitta Macabra” così chiamata per l’arredamento, le pareti ricoperte di dipinti e disegni raffiguranti impiccati e scheletri, gli scaffali ricolmi di teschi ed oggetti misteriosi legati al mondo dell’occulto (per qualche suggestione, cfr. lo stesso Alessandri, Viaggio nel cinque, La nave di Teseo, 2014 e in generale Cazzullo-Messori, Il mistero di Torino, Mondadori, 2005). Per non parlare di Gustavo Rol che con Alessandri formò due facce della stessa Torino, quella esoterica di Alessandri definito “papa nero” o quella occulta di Rol chiamato “mago”, prestigiatore, ipnotista con poteri di “levitazione, chiaroveggenza, xenoglossia, anche telepatia, materializzazione e smaterializzazione di oggetti” secondo le parole del nipote.
 

k

Le venti giornate di Torino è un romanzo dell’orrore in cui Torino diventa “teatro dell’incubo” con l’esplosione dell’irrazionale e situazioni cariche di mistero e follia e omicidi in un vortice di paura e angoscia, di “un sommesso impasto di voci... non parlavano veramente ma erano onde del pensiero”, suoni agghiaccianti dalle registrazioni, “un cupo gorgoglìo, un rimestare profondo di acque melmose, seguito da un risucchio”, simile a quello delle divinità di Lovecraft. “Pareva che una sete millenaria avesse trovato finalmente una fonte a cui saziarsi”.

Più moderno di altre distopie il romanzo è immerso nella disillusione: “è molto difficile ricostruire quando non si è tagliata la testa del serpente, quando non si riesce a cogliere l’“uomo moderno” (Vaccaro, Giorgio Demaria, Guida ai Narratori fantastici italiani, Odoya, 2018, p. 110), quando ci si trova negli anni ‘70 in cui si diffondeva una visione della società negativa, costellata dal fallimento dei progetti politici, dall’appannarsi della rispettabilità, dalla dispersione sociale, dalla violenza anche ideologica, dall’eversione nera, dalla tensione degli anni di piombo, dalla permanente angoscia, a cui alludono gli scoppi e i boati nel romanzo.

Di fronte a un mondo di persistente indecifrabilità, non sorprende che si approdi a un finale amaro: non a caso l’indagine non trova soluzione, mentre il protagonista si dà alla fuga, nei propositi salvifica ma nella realtà fallimentare. Non solo non riesce a raggiungere Venezia, ma incontra una figura spettrale, una sorta di profeta con la lebbra diffusa sul volto, con gli occhi senza pupille che si avvicina al narratore.Il duello a breve sarebbe incominciato”. Il passato prevale sugli sforzi del presente di creare il futuro.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO

Bollo blu Dona (Mobile)