Se la verità non è giustizia: Giurato numero 2
Giurato numero 2, l’ultimo film di Clint Eastwood, descrive una vicenda giudiziaria secondo i canoni del court drama. La vicenda si svolge in gran parte in un’aula di tribunale a Savannah (Georgia), dove si dibatte il caso di un giovane, James Sythe (Gabriel Basso), violento e con precedenti per spaccio, accusato di aver ucciso a bastonate la fidanzata. I testimoni lo hanno visto litigare con la giovane in un bar affollato, inseguirla rabbioso nella notte sotto una pioggia torrenziale per poi scomparire nel buio. Quando il corpo della ragazza viene trovato massacrato in un fosso sotto un ponte, il giovane viene arrestato e tradotto al processo. Trattandosi di omicidio volontario, interviene la giuria. Fra i cittadini chiamati a farne parte c’è Justin Kemp (Nicholas Hoult), che accetta la nomina a malincuore. Sua moglie Ally (Zoey Deutch) è infatti in attesa del primo figlio: una gravidanza che si preannuncia difficile, dato che la donna ha perso in precedenza due gemelli prima del parto.
Mentre il tribunale ricostruisce i fatti, Justin, giurato contrassegnato appunto dal numero 2, è colto da un atroce dubbio: la notte del delitto anche lui si trovava in quel locale per affogare nell’alcol il dolore per la perdita dei due gemelli. Da ex alcolista che frequenta gli Alcolisti Anonimi aveva però deciso di non bere: aveva assistito al litigio fra Sythe e la fidanzata, era salito in auto per tornare a casa e, a causa dell’oscurità e della forte pioggia, aveva investito “qualcosa” che sulle prime aveva creduto essere un cervo… Il caso processuale, che sembrava di disarmante banalità, si rivela così ben più tortuoso: è stato Justin a uccidere la ragazza. Da quel momento, il giovane vive momenti di tormento. Si dibatte sul come comportarsi, chiede anche consiglio a Larry (Kiefer Sutherland), un amico avvocato, che gli sconsiglia di denunciare la verità, dato che i precedenti da alcolista lo manderebbero in galera.
Eastwood non ha mai visto con particolare favore la macchina giudiziaria USA e in questo film lo conferma. Le indagini condotte con frettolosità, l’assenza di domande specifiche sui fatti e sulle testimonianze dell’accusa lasciano Justin sconcertato: nel sentire diffuso, l’imputato “deve marcire in galera”. Un altro giurato, Harold (J.K. Simmons), con un passato da detective per la polizia del luogo, sa per esperienza che i metodi delle forze dell’ordine, oberati di casi e con scarsi fondi a disposizione, sono superficiali e schematici. Il pubblico ministero, Faith Killebrew (Toni Collette), è sempre in carriera e attento ai sondaggi, perché – come è d’uso nel sistema statunitense – è di carica elettiva.
Non parliamo poi della giuria, composta esclusivamente da cittadini, molto spesso burocrati senza coscienza: figure mediocri, banali, egoiste, giustizialiste, desiderose solo di sbrigarsi per andarsene a casa, denunciando l’autotutela, l’incultura, la diffidenza, il giustizialismo. Marcus, un afroamericano (Cedric Yarbrough), proietta le sue ossessioni sul processo (ha perso il fratello per colpa della gang di spacciatori cui apparteneva l’imputato); Denice (Leslie Bibb), già chiamata in giuria per due volte consecutive, vorrebbe portare al marito un verdetto rotondo dopo che i due precedenti sono stati annullati; Yolanda (Adrienne C. Moore), afroamericana guidatrice di bus, vuole soltanto tornare a casa propria, dai suoi figli; Irene (Zele Avradopoulos), casalinga bianca di mezza età, ragiona sulla base delle serie true crime che vede in TV.
Ciononostante, i giurati vengono selezionati minuziosamente per far emergere eventuali compromissioni nel giudizio, come mostra il film, ricordando alcune serie televisive come Bull o film come La Giuria (2003). Ma in definitiva Eastwood, con affermazione minimalista, si accontenta, perché quel sistema giudiziario “non sarà perfetto, ma è il migliore che abbiamo”. Forse, con qualche precisazione.
Negli Stati Uniti e nei paesi di common law, la cui legislazione è basata sul diritto comune e non sulle leggi scritte, il giudice regola i lavori ma non giudica, essendo l’incombenza riservata a una giuria popolare. In Italia è prevalso invece un funzionamento diverso, forse più avveduto: due magistrati decidono con sei giudici popolari la responsabilità dell’imputato, disciplinano i rapporti interni per evitare sbandamenti, chiariscono eventuali oscurità, precisano questioni tecniche.
Detto ciò, Giurato numero 2 non si adagia sul tracciato de La parola ai giurati (1957), perché il vero colpevole è nascosto all’interno della giuria. Giganteggia così il dramma di Justin, che non può permettere la condanna di una persona che sa innocente e nel contempo è consapevole, se confessasse, di rischiare il carcere. Il suo dilemma morale non viene comunicato agli altri giurati, convinti della colpevolezza dell’imputato e desiderosi di chiudere in fretta il processo, ma il giovane tenta di convincerli con argomenti a favore dell’assolutoria. Palpabile è il suo senso di colpa che traspare dal volto chiuso, dai gesti nervosi che tradiscono il peso di una verità con cui sta cercando venire a patti. Eastwood sottolinea l'intensità di questa lotta interiore con una messa in scena austera e sobria, con inquadrature bloccate e personaggi spesso rinchiusi dietro persiane che filtrano la luce, generando effetti claustrofobici di confinamento psicologico. I due giovani, l’imputato e il giurato, hanno entrambi una palla al piede che cancella ogni futuro: il vero colpevole si trova a giudicare il presunto omicida che sa innocente, mentre l’imputato fa i conti con il passato di uomo violento che non è più.
Un sistema perfetto, si sa, presenta sempre zone d’ombra, a causa dell’irrazionalismo etico del mondo di cui parla Max Weber. In varie occasioni della vita compaiono scelte in cui mancano basi su cui appigliarsi scatenando l’angoscia. In passato, la produzione di Eastwood poteva suggerire una soluzione del dilemma interiore. Qui invece non esistono eroi, neppure casuali, che fanno prevalere la coscienza e il dovere su tutto, anche a proprio danno. Il giovane Justin è una persona comune, umana, con i suoi lati deboli, è quindi imperfetto, difettoso, attento anche al tornaconto, debole. Così non si impegna più di tanto per sventare un errore giudiziario autoassolvendosi, a differenza ad esempio del giornalista Steve Everett (interpretato dallo stesso Eastwood) di Fino a prova contraria (1999).
Fino a un certo punto, la filmografia dell’Eastwood regista ha condiviso l’idea elementare di un mondo diviso in due: da una parte quelli che hanno ragione, dall’altra quelli che hanno torto. Pian piano, però, le cose sono cambiate: da quando William Munny si è messo contro lo sceriffo Little Bill Dagget (Gli spietati, 1992), da quando Butch Haynes ha trascinato l’FBI per il Texas (Un mondo perfetto, 1993), da quando il ladro gentiluomo Luther Whitney se l'è presa nientemeno che con il Presidente degli Stati Uniti (Potere assoluto, 1998). Su questa strada si sono mossi altri personaggi eastwoodiani: l’allenatore Frankie Dunn (Million Dollar Baby, 2004), il reduce Walt Kowalski (Gran Torino, 2008), l’ex fioraio Earl Stone, che trasporta droga pur di pagare gli studi alla nipote (The Mule, 2018), il cowboy da rodeo in pensione Mike Milo (Cry Macho, 2021); e, ancora, il pilota Sully nel film omonimo (2016), i tre soldati di Ore 15:17 - Attacco al treno (2018), il cecchino Chris Kyle di American Sniper (2014).
Alla fine Justin, una volta deciso cosa fare, pronuncia la frase cruciale del film, sulla panchina, rivolto alla procuratrice in carriera: “A volte la verità non è giustizia”. Ma cosa significa? Che rapporto esiste tra i termini di verità e giustizia? Vuol far intendere Justin che la giustizia potrebbe rivelarsi anche ingiusta, che la soluzione di un processo, teso alla ricerca della verità, non rappresenta un fine di giustizia? Ma in definitiva, di quale verità si parla? E se anche venisse raggiunta, rappresenterebbe un risultato di giustizia? Il problema è tormentoso e variamente risolto, anche a seconda dei periodi storici. In ebraico, per esempio, la parola “verità” non esiste e ne viene usata una che significa “fedeltà”, mentre nella lingua greca “verità” viene espressa con aletheia, cioè “non nascosta, visibile”. Nel linguaggio diffuso si parla di “verdetto”, che gli psicoanalisti amanti dei giochi linguistici interpretano come “dire il vero”. Ma la sentenza dice il vero-verità o vuol raggiungere un risultato che potrebbe essere non coincidente?
Qualsiasi sistema penale, cioè quel complesso di regole che aspira a controllare la criminalità, ha ispirazioni diverse. Può porsi come obiettivo la verità certa e sicura o considerare invece più rilevante il modo in cui il processo si svolge e si risolve. I sistemi di common law come quello angloamericano intendono assicurare che le regole del gioco siano eguali per le parti; il processo italiano attuale pone attenzione a che il tutto avvenga nel rispetto delle regole. “Il processo penale è un tragitto rigorosamente tracciato dalla segnaletica normativa per orientarsi” (Giostra), tenendo sempre in considerazione che “vale più la caccia della preda” (Cordero). Orbene la sentenza definitiva “equivale” a verità, ma non si tratta di verità assoluta, ma di quella “processuale”, la sola possibile perseguibile, ignorando se sia “giusta” in quanto questa conoscenza è patrimonio esclusivo dell’imputato.
L’affermazione di Justin “A volte la verità non è giustizia”, che ricorda il finale di Crimini e misfatti (1989), con il dialogo tra Woody Allen e Martin Landau sull’ambiguità della morale (“Lei guarda troppi film, e io sto parlando della realtà… Se vuole un lieto fine, vada a vedere un film di Hollywood”), è sostanzialmente corretta. I due termini non necessariamente coincidono, la loro relazione è imperfetta perché è decisivo e prevalente rispettare le regole che conducono alla decisione.
La forza di Giurato numero 2 si proietta in varie direttrici: fornisce allo spettatore le incertezze e i diversi punti di vista sulle scelte del giurato e, indirettamente, di chi potrebbe trovarsi in situazione analoga. Non solo: espone una lezione di saggezza a coloro che si ispirano a quei sistemi, non solo del passato oscuro ma ancora presenti o anche solo vagheggiati, che vogliono raggiungere la verità a tutti i costi. A 94 anni, nel suo cinquantennale, ossessivo “guardare con attenzione a ciò che accade tra il bianco e il nero della vita quotidiana”, Eastwood ci fa capire anche questo.