Il PM bistrattato

1 Aprile 2024

La procedura penale, spiegava un professore di quella materia agli studenti, è una macchina dagli ingranaggi complicati, funzionali allo scopo per cui fu progettata, cioè procedere per raggiungere l’obiettivo entro un tempo ragionevole e prefissato. Compiuto il percorso, una giuria verifica la regolarità del mezzo e la correttezza del suo utilizzo. Alla guida si trovano due soggetti: uno è il pubblico ministero che al volante avvia il mezzo e sceglie le strade, l’altro è il difensore che gli sta accanto discutendo, cooperando o contrastando le scelte di guida.

Edmondo Bruti Liberati tratta del primo (Pubblico Ministero, un protagonista controverso della giustizia, editore Cortina 2024), indiscutibilmente uno dei personaggi più ricorrenti che compaiono nelle cronache italiane. Ma perché? Non dovrebbe essere il giudice, colui cioè che emette i verdetti e quindi decide delle sorti delle persone? Certamente in astratto sarebbe così, ma in realtà il pubblico ministero è il primo attore che compare in ordine di tempo sulla scena della giustizia penale e Bruti ne approfondisce ragioni e lineamenti, inserendolo in un ampio contesto storico e sociale, forte anche dell’esperienza di magistrato e di procuratore capo a Milano. Il testo è scandito in quattro parti: la prima dedicata all’evoluzione nei diversi ordinamenti tra cui su tutti quelli angloamericano ed europeo; la seconda riservata agli aspetti funzionali di quell’ufficio con digressioni sugli strumenti di intervento come le intercettazioni telefoniche; la terza concentrata sulla diversa manifestazione del ruolo secondo il modello accusatorio e inquisitorio; la quarta rivolta a problemi tuttora aperti, dalla obbligatorietà dell’azione penale alla separazione delle carriere tra giudice e pubblico ministero.

La storia comunque della magistratura italiana e del pubblico ministero non può essere sottovalutata. Nei primi due decenni repubblicani questi svolge un ruolo di retroguardia, ancora irrigidito sui cardini del passato quali il principio di autorità e sensibile alla sudditanza politica. Con il decennio degli anni ‘60 crescono i germi della rottura con il passato, si inaugura l’epoca del disgelo anche con l’ingresso in scena della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura. Negli anni ‘70 la magistratura, con alfiere il pubblico ministero, diviene militante, interventista, ipercinetica, attiva nelle lotte sociali. Negli anni ‘80 si concretizza la sua legittimazione sociale avviando processi di vasta eco e divenendo attore protagonista in trasmissioni tv che ne esaltano il ruolo come “Processo in pretura” o “Telefono giallo”. Lentamente il sistema politico si ritrae e nel decennio ‘90 è indiscussa la posizione della magistratura, impegnata nella supplenza per altrui carenze e concentrata nella propria affermazione. Decolla la stagione di Mani Pulite con la permanente ambivalenza del cittadino che un giorno plaude per la lotta alla corruzione e un altro sfrutta le scorciatoie delle regole. Nei decenni successivi lentamente la cornice cambia, il ruolo si smarrisce, cambia la postura come ha descritto lo stesso Bruti in altro saggio (Magistratura e società nell’Italia repubblicana, doppiozero). Egli riconosce alcuni eccessi, dai protagonismi plateali al rapporto intricato con l’opinione pubblica, alle scelte discutibili nell’esercizio dell’azione penale, alla sovraesposizione attraverso l’uso talora anche protervo della comunicazione giudiziaria, agli abusi della custodia cautelare, alla contiguità spesso eccessiva con il giudice incaricato istituzionalmente di valutare le sue iniziative. 

In Italia il pubblico ministero è costituzionalmente autonomo, non subordinato ad altri organi per cui non rende conto del proprio operato ad alcuna struttura politica. Questo principio, come noto, è stato una conquista repubblicana dopo le nefaste influenze che aveva provocato il collegamento con la struttura governativa in epoca fascista. Di qui la presa di posizione nella costruzione costituzionale dell’ordine giudiziario anche se i rapporti con la politica siano sempre esistiti nel mondo dell’impalpabile, talora come soggezione talaltra come opposizione. Non è un caso che la Procura della Repubblica di Roma in un certo decennio fosse chiamata il “Porto delle nebbie” per l’inclinazione sdrucciolevole e compiacente all’inazione. 

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Ma allora, si chiede l’Autore, esistono modelli di riferimento? Quello accusatorio di stampo anglosassone esaltato nei film menzionati nel libro (tra questi Il buio oltre la siepe, Testimone di accusa) in cui la prova si forma solo in aula, davanti al giudice e al pubblico e alla luce del sole, nella contesa paludata tra accusa e difesa. Oppure quello inquisitorio dove prevale quanto costruito dagli inquirenti, spesso nell’oscurità delle stanze di polizia? In realtà, osserva l’autore, la disputa è sterile, quasi teologica, in quanto allo stato puro quei modelli non esistono, contaminati anche secondo esigenze contingenti. Del resto, aggiungiamo, giocano un ruolo rilevante le culture locali, anche e soprattutto quelle religiose troppo spesso sottovalutate, osservava Castoriadis. Il modello anglosassone nasce alimentato dalla tradizione puritana basata sulla competizione, sull’agonismo di cui il processo in aula, alla Perry Mason, è espressione. L’Italia respira un’aria diversa, quella cattolica, in cui al vertice della piramide si colloca un giudice supremo che giudica, cui “ci rimettiamo”, espressione non casuale ma sintomatica, utilizzata dagli attori processuali siano avvocati e pubblici ministeri. I modelli sono indispensabili per lo studio, ma non devono far innamorare perché l’amore rischia di accecare la realtà. 

Il saggio tratta alcuni problemi, tuttora aperti e caldi. Uno è quello della separazione delle carriere tra giudice e pubblico ministero. La discussione nasce e prolifica per la posizione di quest’ultimo, altalenante tra l’essere soggetto da un lato accusatore e dall’altro imparziale. E quindi nel primo caso diverso e distante dal giudice, così legittimando la separazione delle carriere; nel secondo contiguo, perché magistrato pure lui, soggetto alla legge e sempre imparziale. L’autore contrasta l’opinione di chi sostiene che chi non è giudice, come il pubblico ministero, è “parte” aggiungendo che l’“imparzialità” riferita alla pubblica amministrazione (art. 97 costituzione) significa rispetto della legge ed uguaglianza. Bruti è di diverso avviso, richiamando le facoltà ampie che gli vengono riservate dalla legge: è tenuto a chiedere l’archiviazione quando manca una ragionevole previsione di condanna (art. 408 c. p. p.), nel dibattimento può chiedere la condanna solo quando la prova supera ogni ragionevole dubbio della colpevolezza (art. 533 c. p. p.), ha il dovere di indagare a tutto campo anche “a favore della persona sottoposta alle indagini» (art. 358 c. p. p.). L’imparzialità del pubblico ministero si fonda sul metodo del contraddittorio sublimato dall’art. 111 della costituzione, cioè quel mezzo per ricostruire i fatti nel rispetto del difensore garantendo così eguali opportunità alle parti. 

Altro tema incandescente è l’obbligatorietà dell’azione penale per il pubblico ministero. Il principio fu introdotto dall’art. 112 della costituzione anche in questo caso per una ragione storica, cioè tutelare l’autonomia dell’operare giudiziario da influenze esterne e da graduatorie di interessi. Il principio da rivendicare è che ogni questione deve essere esaminata senza cedimenti, in termini più brutali evitando il processo “casuale” sostenuta da discrezionalità ingovernabili. In effetti un problema di casualità esiste ed è quella interna agli uffici come riconosce l’autore, ed impone un’assunzione di responsabilità. Essa riguarda le scelte del pubblico ministero nella fase iniziale nella quale è so­stanzialmente solo, senza confronto con la difesa, nei fatti onni­potente. Nel contempo, sempre ad avviso di Bruti, occorre evitare comode ipocrisie e riconoscere che il fulcro della questione è la dotazione di mezzi, la messa in campo delle risorse, l’organizzazione funzionale per fronteggiare il problema ovviando così a complicati criteri di priorità. Ma la domanda spontanea che sorge è: i mezzi sono sufficienti a superare gli ostacoli? La risposta non è così sicura perché tutto dipende dall’economia del processo penale, dal titolo di un saggio isolato e forse scomodo (Marconi, Economie della giustizia penale, Marsilio, 1984), dai costi per iniziative processuali naufragate e poi troppo spesso dimenticate, anche perché i processi sono “a piè di lista”, cioè prescindono da preventivi di spesa. E soprattutto rimangono nell’ombra coloro che quei mezzi devono fornire, cioè nella sostanza la politica genericamente intesa.

Il secondo tema, in cui l’autore crede meno, è stato trattato dalla recente riforma Cartabia per giungere ad una obbligatorietà “temperata” e realistica (Legge 134-2022). Il rovesciarsi di denunce o querele di varia caratura negli uffici non consente di assicurare che siano trattate tutte con pari sollecitudine. L’accantonamento di alcune, forse molte, di esse è misura ineludibile, ma implica l’esercizio di una scelta. Voci autorevoli non nascosero la scarsa sostenibilità della situazione, nacquero tentativi di distinguere i reati per fasce con direttive interne della Procura (reato, vittime, gravità segnalata). Si affacciarono i tentativi torinesi dei Procuratori Zagrebelsky (1990) e Maddalena (2007), purtroppo senza esiti. Ora la legge delega stabilisce criteri di priorità settoriali, individuati dalle Procure secondo le condizioni organizzative dei singoli uffici (materiali disponibili, risorse umane). Nel contempo viene attribuito al Parlamento un ruolo centrale nel disegnare i “criteri generali”. In essi compaiono i “parametri”, con i dati quantitativi e qualitativi sui reati e sui fenomeni criminali, le specificità dei territori e degli ambienti sociali ed economici e le “procedure” riferite al circuito giudiziario e alle collettività di riferimento. 

Questa è la discrezionalità interna, quella dell’organizzazione degli uffici, della velocità delle pratiche, della priorità nella trattazione. Riassuntivamente riguarda il come gestire quanto affluisce sulle scrivanie della Procura della Repubblica.

Non si può negare però che esista un altro aspetto della discrezionalità, quella esterna relativa all’intervento del pubblico ministero concreto e che risponde alla domanda: perché proprio quell’intervento? Una volta superato il problema organizzativo e impostato il flusso degli affari secondo regole, il problema non è ancora risolto. Si apre un altro atto della rappresentazione processuale, quello della scelta del pubblico ministero tra i fascicoli assegnati e da sbrigare e quale velocità assegnare ad ognuno. L’“occhio” del pubblico ministero non è diverso da quello delle altre persone e quindi sceglie secondo una pluralità di elementi, presenti e non sempre facili da catalogare, da declinare anche secondo la sua sensibilità, la sua storia, la sua cultura, la sua attenzione per certi interessi da tutelare, per certi fatti contingenti, per la specificità del presente. Esistono infatti non solo le emergenze propriamente dette, frutto di fenomeni nuovi e talora imprevedibili, ma anche i “fatti emergenti”, quelli originati da fenomeni meritevoli di attenzione, di regola riferibili a persone.

Ha certamente ragione Bruti nel rammentare che al pubblico ministero non spetta il ruolo di custode delle virtù e che non ha il compito di risolvere problemi etico sociali. Nel contempo non si può negare che questi, consapevolmente o meno grazie anche al volano mediatico, con le inchieste lanci segnali, indiscriminati ed anche mirati, per risolvere quei problemi. E quello che un pubblico ministero di Torino, celebrato per sue inchieste settoriali, teorizzava come “ruolo promozionale del processo”. Teoria sicuramente realistica e elegante, forse meno per chi di quell’ingranaggio non rimane solo spettatore ma viene chiamato ad essere protagonista involontario.

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