L'opera d'arte in tribunale
L’arte, soprattutto quella contemporanea, mostra un volto sereno, privo di rigide regole, percorso da fantasia e creatività, che lascia spazio a qualunque cosa che possa assurgere al rango di “opera d’arte”. In realtà non è cosi. La sua strada è lastricata di discussioni irrisolte, confusioni sfinenti, contenziosi caparbi, denunce e processi accesi. Il saggio L’opera d’arte in tribunale curato da Alessandra Donati e Novelio Furin con l’intervento di altri studiosi (Cerini, Dianese, Franchin, Gattillo, Mombelli, Montanari, Romanelli, Pirri Valentini, Postmedia books, Milano, 2023) cerca di mettere ordine indicando le coordinate su cui muoversi entro un perimetro tanto più incerto quando si afferma la dimensione economica, quel “Mondo dell’arte” spesso nebbioso in cui mercato e negoziazioni assurgono a elementi dominanti. Gli autori precisano che l’intento “di mettere in evidenza quando l’opera d’arte entra in Tribunale muove dalla varia tipologia di incontri tra il diritto e l’opera d’arte e del differente significato da paese a paese: il diritto dell’arte è un complesso intreccio di convenzioni internazionali, regolamenti e direttive comunitarie, e consuetudini commerciali». Per raggiungere quell’obiettivo si presentano con una solida e illuminante scansione di temi.
Il punto di avvio è la tutela dell’opera d’arte. Il problema è teorico: ogni tutela presuppone un oggetto e quindi occorre sapere cosa si tutela. Da questa osservazione banalmente cruciale discende la necessità “ontologica” di identificare l’opera d’arte. Il volume espone i criteri per definirla, tanto più necessari quando l’oggetto subisce una metamorfosi che lo fa divenire opera d’arte, cioè lo espande anche all’insaputa del suo autore (Perniola, L’arte espansa, Einaudi, 2015). È un problema antico costantemente sul tappeto, anche se si sta uscendo dal tunnel teorico secondo cui ogni cosa può essere opera d’arte purché rappresenti il prodotto di una comunità umana. Il saggio ricorda le decisioni giudiziarie che innestano quel criterio nella creatività, nella “personale ed individuale espressione suscettibile di manifestazione nel mondo esteriore”. Talora aggiungono il parametro del ‘valore’ conseguito, cioè del riconoscimento degli esperti, del “grado di notorietà” e quindi di una valutazione che inevitabilmente consolida l’esistente e isola le sperimentazioni (p. 20-21). Superato questo scoglio il problema non si esaurisce ma si complica quando si affrontano i linguaggi contemporanei, le installazioni, le opere concettuali, la fotografia, la video arte, l’opera digitale.
L’impegno è difficile ma indispensabile perché, consente di stabilire se l’opera supera i limiti divenendo illegale oppure oscena. Il primo caso, cioè l’illegalità (p. 61), riguarda le anomale modalità di realizzazione come i supporti nell’arte di frontiera e quindi la ‘street art’, cioè i murales. Il secondo, cioè l’oscenità (p.79) riguarda i confini rispetto ad altri beni protetti, quali la reputazione altrui da cui discende il reato di diffamazione o il pubblico pudore colpito da alcuni reati specifici. Il tema è ampio e ricco di casistica che meriterebbe un’altra indagine, salvo fin d’ora ricordare una peculiarità normativa. L’art. 529 del codice penale attuale punisce l’oscenità salvo quando si tratta di “opera d’arte o di scienza”, stabilendo così la sua prevalenza sul comune senso del pudore senza definire però in cosa consista. Così si è dato il via ad estenuanti querelle processuali come per I racconti di Canterbury di Pasolini o per Ultimo tango a Parigi di Bertolucci. La delicatezza del tema consiste nel lasciare al giudice una discrezionalità aperta non solo per qualificare l’opera come artistica, ma anche per valutare il tasso di oscenità che contiene, così ricorrendo di frequente al criterio dell’inserimento dell’osceno nell’opera, se armonico o meno. Di certo questa situazione descrive plasticamente il rapporto tra legge e arte, lasciata la prima, per sua natura metallica e astorica, a decidere della seconda invece flessibile e sensibile ai tempi.
Il saggio si intrattiene poi su un settore legato al precedente: delineato il perimetro, l’opera deve essere tutelata attraverso il riconoscimento di alcuni diritti a favore dell’autore (parte II). In primo luogo si pone quello della paternità (p.85 e ss) che spetta all’artista come manifestazione del suo diritto morale dell’opera, indisponibile e imprescrittibile, trasmesso dopo la morte secondo l’art. 23 della legge specifica solo ad alcuni soggetti specificati e non ad altri (“coniuge, figli e in loro mancanza ascendenti e discendenti, fratelli e sorelle e loro discendenti”).Quindi l’artista, a differenza di quanto avviene in Francia, non può influire sulla sorte del proprio patrimonio artistico con un rappresentante-delegato che tuteli la propria memoria. Di contro è ammesso, seppur non previsto dalla legge, il diritto al disconoscimento della paternità dell’opera assumendo che appartiene al diritto morale dell’artista.
È intuibile il peso, anche economico, dell’argomento sulla certificazione della autenticità dell’opera. Si tratta di un’attività di accertamento specialistico, la cd “autentica”, che si pone come veicolo di ingresso nel mercato per la quale non è prevista una categoria legittimata di esperti, una sorta di albo, trattandosi di libera manifestazione del pensiero.
Esiste poi un’angolatura del problema rilevante soprattutto per l’arte contemporanea. Si tratta della tutela dell’integrità dell’opera in quanto questi tempi rendono sempre più evanescenti i connotati della sua identità rendendo arduo distinguere tra opere modificabili e quelle compiute, cioè queste ultime destinate a non sopravvivere se modificate. Si scontrano così interessi diversi: quello dell’artista a tutelare la propria opera nella forma originaria, quello del proprietario a disporre del bene come un bene qualunque, quello del pubblico a conservare opere entrate nel patrimonio comune. La questione, affermano gli autori, ha soluzioni differenti stante il silenzio della legge e rimanda molto spesso agli accordi tra artista e proprietario.
Su questo versante esiste poi l’argomento dell’utilizzazione economica, con una scissione tra l’opera e i diritti dell’autore sulla stessa. È il caso dell’intervento della SIAE su cui ci si è intrattenuti in occasione di una sentenza pubblicizzata ( vedi SIAE: il monolite traballa, doppiozero).
Esiste ancora il problema del plagio, cioè dell’appropriarsi di immagini preesistenti, decontestualizzandole, trasformandole in modo più o meno pregnante in nuove opere senza il permesso del titolare dei diritti. Si tratta di un aspetto privo di tutela giuridica salvo l’americano “Appropriation Act”, anche perché l’opera appropriativa viene considerata dai più garantita come manifestazione del pensiero e perdipiù autonoma, seppur legata all’opera da cui prende le mosse
Gli argomenti sviluppati nel saggio sono particolarmente rilevanti per i ‘beni culturali’ (parte III) cioè per quel patrimonio non prioritariamente economico che rientra nella sorveglianza dello Stato (Codice Beni Culturali del 2009). Si tratta di beni mobili e immobili appartenenti al patrimonio pubblico e a persone giuridiche private senza scopo di lucro che "presentano interesse artistico, storico, archeologico e etnoantropologico". Per essere dichiarati tali essi sono sottoposti a un procedimento di verifica, e per le opere di autore non più vivente la cui esecuzione risale ad oltre cinquanta anni se mobili, o ad oltre settanta anni se immobili vige la presunzione di interesse culturale. La legge n. 22 del 2022 ha riformato con una protezione capillare punendo con nuovi reati la contraffazione, ricettazione, riciclaggio, furto, appropriazione indebita, violazione nelle ricerche archeologiche, importazione ed esportazione illegale, devastazione e saccheggio, collocazione e rimozione, falsificazione, violazione nella alienazione, violazione in tema di materia archeologica. Merita attenzione la “distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento, uso illecito di beni culturali” (art. 518 duodieces del codice penale) che riguarda i casi in cui l’uso, qualunque esso sia, è incompatibile con il carattere storico o artistico o è pregiudizievole per la conservazione ed integrità. Questa è la condotta più grave di una situazione più lieve, cioè la riproduzione del bene culturale fuori dal suo ambito, ad esempio inserendolo tra prodotti da reclamizzare. Il quesito che si pone è se esistono vincoli per l’inserzionista (p. 362-63). In realtà una norma consente all’autorità pubblica di autorizzare la riproduzione e l’uso strumentale e precario di quei beni salvo il pagamento di un corrispettivo, escluso per l’uso personale o per motivi di studio. Sono poi libere le riproduzioni che avvengono senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale. Discorso diverso è la riproduzione a fini pubblicitari di un bene culturale esposto a pubblica vista. Su questo aspetto si è espresso il Tribunale di Firenze (p. 363) che ha inibito a un’agenzia di viaggi l’utilizzo pubblicitario dell’immagine fotografica su depliant e sito web della Galleria dell’Accademia di Firenze e del David di Michelangelo perché senza autorizzazione preventiva. Il Tribunale di Palermo, con decisione tuttora inedita, ha esaminato l’uso di immagini di esterni del Teatro Massimo affrontando il tema della “proteggibilità” di beni esposti a pubblica vista. Aveva rilevato che “la generalizzata applicazione del sistema tariffario è foriera di problemi nei casi di beni situati in un ambiente aperto ... mentre in un ambiente chiuso è agevole controllare la riproduzione di quanto esposto ...”. Il tema è scivoloso perché la libertà di impresa, costituzionalmente garantita, non dovrebbe subire limitazioni su quanto è già esposto a pubblica vista e fa parte del patrimonio collettivo. Del resto in alcuni sistemi, applicando una direttiva UE disattesa dall’Italia, vige la panorama exception o freedom, secondo cui ciò che è liberamente visibile è anche liberamente riproducibile. Comunque si esclude la violazione quando l'opera protetta sia ripresa incidentalmente/occasionalmente e quindi inclusa in un filmato o in altra opera senza costituirne un elemento centrale. Quindi la normativa non distingue i beni se esposti in spazi aperti o chiusi, con un rigorismo che rischia di impoverire il filone pubblicitario impostato sui riferimenti alla nostra tradizione ricca di monumenti e opere visibili a tutti. Le opere d’arte, come noto, non rimangono stanziali ma circolano: sono acquisite in compravendite, sono in movimento anche per esposizioni in altre sedi (parte IV). Di qui la decisività dei contratti, delle autorizzazioni, della severità nel trasporto.
In definitiva l’arte è merce, è inquadrata nell‘economia di mercato di cui subisce le torsioni trattandosi di un mondo affetto da convulsioni, scosso da una “mutazione genetica” a causa, ad esempio, della globalizzazione, di internet, dell’ingresso di collezionisti abituati più a operare in borsa che a visitare musei per cui gli scambi d’arte si allineano alle dinamiche dei mercati finanziari (Facchinetti, Il mercato dell’arte. Le regole del gioco, Allemandi,2023). In ogni modo e pur sempre la “proprietà” ha una caratteristica fondamentale: congela l’oggetto legandolo a un soggetto, e questo vale anche per la proprietà intellettuale che delimita un’idea in un recinto forzato. Nell’industria stabilire la proprietà di un brevetto è abbastanza agevole, mentre nel campo della cultura quest’idea immobile si scontra con un sistema strutturato sul movimento, sulla circolazione e sullo scambio. E anche per questo esiste un’anomalia originaria, insuperabile: l’espansività creativa dell’arte stride con la rigidità strutturale delle leggi, la liberta di movimento delle idee e la difesa della proprietà culturale stenta ad essere percepita dalla lente di per sé monolitica e ossuta della normativa.
I temi del saggio sono sviluppati con linguaggio secco, lontano da preziosità o tecnicismi, senza divagazioni, con abbondante corredo di notizie e sentenze spesso straniere. E questo facilita l’osservazione disincantata di un mondo che si mostra avvolto da una nebbia “glamour” ma che rischia, con le sue difficoltà e contraddizioni, di confonderne i contorni.