Denise Levertov, Traversie di una poetessa
“One of modern poetry’s greatest achievements”, così Eavan Boland definiva nel 2013 la poesia di Denise Levertov nell’introduzione ai Collected Poems, dai quali Paola Splendore ha tratto 100 componimenti per questa antologia, Alle isole via terra (a cura di Paola Splendore, postfazione di Massimo Bacigalupo, Crocetti, 2023), che ce ne restituisce grandezza e lezione. Levertov è una fra le figure centrali della poesia americana del secondo Novecento. La sua poesia è oggi più che mai attuale, anche per il basso continuo che segna i suoi versi, “il rumore di un mondo in tumulto”, come lo definisce la curatrice di questa selezione, così ricca e adeguatamente resa, della sua multiforme opera poetica.
Levertov è sensibile ai tumulti e ai cataclismi perché giovanissima – era nata a Ilford in Inghilterra nel 1923 – si trova a vivere tempi terribili: l’affermarsi del totalitarismo in Europa, la guerra di Spagna, la persecuzione degli ebrei scatenata da dittature e nazionalismi vari e tutto il drammatico crescendo che porterà al conflitto mondiale e all’Olocausto. Eventi, questi, tutti contrastati nella famiglia in cui cresce da genitori attenti ai nefasti turbinii della Storia, proprio per averne sofferto, per il ramo paterno, le ricorrenti scudisciate nel corso dei secoli. Il padre, Paul Levertoff, era infatti un ebreo tedesco di origine russa, rifugiatosi in Inghilterra durante la prima guerra mondiale, discendente dal famoso rabbino Schneour Zalman, fondatore, nel 1775, del movimento Chabad, ricordato nella poesia “Antenati illustri”.
Si tratta di una poesia importante perché vi si delinea non soltanto una genealogia familiare, ma vi si afferma anche una poetica basata su un particolare approccio all’esistenza: l’antenato rabbino, infatti, impara a capire la lingua degli uccelli, una lingua che pure si era rifiutato di apprendere da giovane, prestando negli anni ascolto a quanto gli stava intorno. Come faceva l’antenato materno, Angell Jones, sarto e predicatore. È una linea di condotta, cui la poetessa si propone di mantenere fede, aspirando a creare “poesie schiette come le parole degli uccelli,/ dure come un pavimento, solide come un banco,/ misteriose come il silenzio del sarto/ quando si fermava con l’ago in mano”.
Levertov giunge in America nel 1948, a seguito del matrimonio con lo scrittore Mitchell Goodman, con il bagaglio di una formazione straordinariamente varia e ricca, in contatto coi tempi, costituita dalla cultura ebraica e cristiana che, insieme a quella tedesca, le viene dal padre, un ebreo convertito all’anglicanismo di cui sarà ministro del culto. Su questa base di partenza si innesta quella, altrettanto ricca, del paese in cui Denise nasce, rappresentata in famiglia dalla madre gallese, artista e attivista, e sviluppata nel corso della sua formazione nella Londra prebellica, con tutti i suoi stimoli, ricordata in Pomeriggi d’inverno al Victoria &Albert Museum prima della seconda guerra mondiale:
Trovavo
tutto da sola,
tutto in grande quantità.
Merletti di ferro battuto,
gioielli intarsiati, i sogni di Cellini,
libri dai dipinti a scomparsa sui margini,
cotte di maglia, crinoline, Hokusai, Cotman.
Ecco la storia come la volevo io: magica, speciale
ricca, confusa,
un mondo che la mente poteva passare al vaglio
della sua clessidra – adesso, a dodici anni,
o per sempre.
Altrettanto fondamentale, in quegli anni, l’attivismo politico dei genitori che le lasceranno in eredità una passione per la partecipazione attiva ai mutamenti sociali in corso. A questo non comune bagaglio si aggiungeranno la tradizione e gli stimoli della terra di adozione, che l’accoglie in un momento particolarmente favorevole allo sviluppo delle arti, e della poesia in primis, stagione che durerà più di un trentennio, segnata nel 1955 dalla pubblicazione dell’edizione critica delle opere di Emily Dickinson che presentandone la lezione autentica restituivano a Dickinson la sua abbagliante modernità.
In America, Levertov è da subito pienamente dentro al fermento della poesia contemporanea, che ha al suo centro la figura di William Carlos Williams, e in dialogo diretto con figure come Adrienne Rich a Cambridge, una poetessa cui la univano oltre alla comune passione, una storia familiare simile e in contatto a distanza con i centri di elaborazione e discussione, come quelli della costa occidentale, prima, e poi con la Black Mountain School di Olson e Creeley.
Il “rumore della storia” si farà più assordante con la guerra del Vietnam, tragedia epocale che occuperà una fase importante della sua produzione, mettendola in aspra dialettica con un poeta a lei molto vicino, Robert Duncan, il quale le rimproverava di avere, in questo suo darsi totalmente a una causa, lasciato sfiorire la sua arte. Per Duncan, la sovrapposizione di impegno politico e attività artistica nuoceva al delicato e misterioso equilibrio che fa di un insieme di versi una poesia; produceva energie malsane che finivano per logorare quella creative. Levertov non accetta questo richiamo da parte di un collega che aveva considerato fino ad allora un maestro e lo rintuzza aspramente in un infuocato scambio di missive che possiamo ritrovare nell’appassionante epistolario The Letters of Robert Duncan and Denise Levertov, monumento all’intensità della vocazione artistica dei due.
Eppure Levertov aveva dato prova della sua capacità di veicolare la tragedia in corso nel sud-est asiatico in versi destinati a rimanere, che asserivano l’urgenza irrinunciabile di affrontare quel conflitto geograficamente lontano ma così decisivo per la coscienza dei poeti e degli intellettuali. Levertov è consapevole dei rischi che un’artista corre se troppo sbilanciata sulla polemica. Ma ciò che la muove ha radici profonde. La poesia, infatti, “nasce da una richiesta pressante, ineludibile”, come scrive Splendore, “o non nasce”. Levertov incarna quella figura di umanista prefigurata da Edward Said, “che sviluppa un proprio contro discorso che vieta alla coscienza di volgere lo sguardo altrove”. La guerra in Asia doveva aver riaperto le ferite lasciate da quella cui aveva assistito giovanissima a Londra, tra il settembre del 1940 e il maggio del 1941, non soltanto come testimone oculare della devastazione scatenata dai bombardamenti tedeschi, ma direttamente impegnata, da volontaria, ad assistere i feriti. Su questo suo assillo, che doveva necessariamente affrontare, pena il soffocamento della sua vocazione, abbiamo poesie che sentiamo sempre più nostre ed attuali a più di mezzo secolo di distanza, quali Altari per la strada, sulla campagna buddista anti-violenza che a Saigon nel 1966 chiamava i bambini a costruire altari per le strade di Saigon: “altari sbilanciati, sovraccarichi di preghiere,/a ogni istante sempre più gremiti/ di antenati quasi visibili”. Altari fragili e vacillanti, come la poesia stessa, e come il tempio in cui è trasformata la città intera “con tutto il sangue versato che il monsone non potrà lavare”.
Trattandosi di una particolare sensibilità al dolore, che è, tuttavia, come scrive Massimo Bacigalupo nella postfazione, costruttivo, tenuto a bada come “un cane cui si dà rifugio in casa” (Parlare al dolore) – l’impegno politico di Levertov non poteva che essere a tutto campo. In prima fila, insieme al marito, nella Campaign for Nuclear Disarmament e poi a sostegno degli obiettori di coscienza e in tutte le battaglia per i diritti civili, pronta ad affrontare l’ostracismo, di cui resta testimonianza nella poesia Il giorno in cui il pubblico mi ha voltato le spalle, e perché. Un pubblico indisponibile a ricordare, insieme con gli studenti uccisi alla Kent State University nel maggio del 1970, anche gli studenti di colore assassinati due anni prima a Orangeburg e l’attivista nero Fred Hampton ammazzato a Chicago dall’FBI nel 1969.
Non tacerà, la poetessa, neppure davanti alle mattanze della guerra civile nel Salvador – Pensando a El Salvador è il titolo di una sua poesia – e proprio mentre è impegnata a denunciare quegli orrori, la storia “le getta in gola gli sporchi grumi di sangue” di Sabra e Shatila, dove “cosiddetti ebrei hanno permesso a cosiddetti cristiani/ di infliggere un pogrom (“tuono di devastazione”) a gente inerme (di una tribù/ anticamente affine alla loro, e ora/ rinchiusa/ nei Campi…”. (Non poesia forse, ma quello che riesco a dire e non posso tacere).
Nelle raccolte degli anni ’90, tutti i temi e gli assilli delle raccolte precedenti – compresa la condivisione del pane con i poeti amati (Rilke, in particolare) e l’ambito religioso, la sfera del sacro, e quello visionario – sono ripresi con una sapienza e un’arte affinate dall’esperienza e sostenute da un approccio ecologico, che scaturisce da tutta un’esistenza coerentemente votata non solo ad osservare e ascoltare – come d’altra parte facevano negli stessi anni, con altrettanta intensità e maestria, Bishop, Rich e Glück – ma soprattutto a difendere, “la vita intorno a noi” – come dice il titolo di una poesia – in tutte le sue forme.
Memorabili rimangono tutte le poesie delle ultime due sezioni di questa selezione, tratte rispettivamente da La sabbia dello stagno (1996) e Il grande ignoto (1999), in cui è compreso e reiterato con vigore l’impegno pacifista. Emblematica, in questo senso, Protesta al sito degli esperimenti nucleari: “Ora, come capivo nella mente ma l’immaginazione stentava ad accettare/ buche strette e profonde erano state scavate/nelle viscere della terra, e lì in successione crudele/ erano esplose le bombe di Hiroshima, esplose, lo stupro/ ripetuto per anni, un mese dopo l’altro”), E ancora; la riflessione sul proprio mestiere (Per quelli che gli dei amano meno e Scrittrice e lettrice), la fascinazione per il mistero e la visione, come in Il grande airone nero o Soggiorni nel mondo parallelo:
nuvola, uccello, volpe, il flusso della luce
l’errare danzante dell’acqua, la vasta quiete
di efemere incantate sul vetro di una finestra illuminata,
voci d’animali, brusio minerale, vento
che conversa con la pioggia, oceano con la roccia, balbettio
del fuoco col carbone – allora si libera qualcosa
bloccato dentro di noi, impastoiato come un asino
sul suo pezzetto d’erba e cardi masticati.
Alle isole via terra si chiude opportunamente con Consapevole, che rimanda sempre alla stessa facoltà da coltivare – l’ascolto – soprattutto del mondo naturale per l’esercizio dell’arte. Il suo giardino non è quello di Louise Glück dell’Iris selvatico, né tanto meno “il giardino loquace” di Pasternak: nel mondo di Levertov, le piante diffidano degli umani, pronte a ritrarsi davanti a chi le osserva o indaga:
Quando aprii la porta
vidi le foglie della vite
che si parlavano in fitti
bisbigli
L’intrusione pone bruscamente fine, “al suono di voci così intime”. Per riuscire a percepirle, sarà necessario muoversi “come un cauto raggio di sole”, spiandole “senza far rumore”.