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Dal gioiello al bijou

21 Giugno 2015

Per molto tempo, secoli o forse millenni, il gioiello è stato essenzialmente una sostanza minerale: diamante o metallo, pietra prezioso od oro, esso veniva sempre dalle profondità della terra, da quel cuore a un tempo oscuro e rovente di cui conosciamo soltanto i prodotti induriti e raffreddati. In breve, proprio per la sua origine, il gioiello era un oggetto infernale, proveniente, attraverso percorsi costosi e spesso insanguinati, da quelle caverne sotterranee in cui l’immaginazione mitica dell’umanità ha posto insieme i morti, i tesori e le colpe.

 

Estratto dall’inferno, il gioiello ne è diventato il simbolo, ne ha assunto il carattere fondamentale: l’inumanità. In quanto pietra (i gioielli erano in gran parte costruiti da pietre), esso era soprattutto «durezza». La pietra ha sempre rappresentato l’essenza stessa della cosa, dell’oggetto inanimato: la pietra non è né vita, né morte, è inerzia, ostinazione della cosa a non essere altro che se stessa: è immobilità infinita. Ne consegue che la pietra è imperturbabile: il fuoco è crudele, l’acqua è subdola, la pietra è desolazione di chi non è ma vissuto né mai vivrà, di chi resiste testardamente a ogni animazione. Per molto tempo il gioiello ha tratto dalla propria origine minerale questo primo potere simbolico: denotare un ordine inflessibile come quello delle cose.

 

"Coco" Chanel, 1936, ph. Lipnitzki-Roger Viollet

 

Inoltre, l’immaginazione poetica dell’umanità, ha potuto concepire pietre sottoposte all’usura, pietre nobili, vulnerabili, vive malgrado tutto, perché capaci di invecchiare. Ma il diamante, quintessenza della pietra, è al di là del tempo, indeperibile, incorruttibile, la sua limpidezza è l’immagine morale della virtù più micidiale: la purezza. Sostanzialmente il diamante è puro, pulito, quasi asettico. E benché esistano purezze tenere, fragili (come quella dell’acqua, per esempio), vi sono anche purezze sterili, fredde, taglienti. La purezza, infatti, è vita, ma forse è anche – al contrario – infecondità; e il diamante è come il figlio sterile della terra profonda: improduttivo, impotente a trasformarsi in marciume, in humus, dunque in germe.

 

Ciononostante il diamante seduce; duro, limpido, possiede una terza qualità simbolica: brilla. Eccolo allora inerito in un nuovo tema magico e poetico, quello di una sostanza paradossale, contemporaneamente ignea e fredda: è fuoco ed è anche ghiaccio. Fuoco freddo, brillante tagliente, ma senza esito: quale simbolo migliore del diamante per rappresentare l’ordine mondano della vanità, della seduzione senza contenuto, dei piaceri senza verità! Per secoli l’umanità cristiana (ben più di noi) ha sofferto vivamente dell’opposizione tra il mondo e la solitudine; per il suo fuoco e la sua freddezza il diamante era il mondo, quell’ordine aborrito e affascinante fatto di ambizioni, lusinghe e delusioni, che tanti moralisti hanno condannato – forse per meglio descriverlo.

 

E l’oro, con cui pure si facevano i gioielli? Benché proveniente – essendo in primo luogo minerale o pepita – dalla terra e dall’inferno, l’oro è una sostanza più intellettuale che simbolica; può affascinare solamente all’interno di economie fondate sulle merci; ha poca realtà poetica; lo si evoca solo per sottolineare quanto la mediocrità della sua sostanza (un metallo sbiadito e giallastro) contrasti con l’ampiezza delle sue possibilità. Ma come segno, che forza! È proprio il segno per eccellenza, il segno dei segni: è il valore assoluto, dotato di tutti i poteri, compresi quelli un tempo detenuti dalla magia: non può forse appropriarsi di tutto, beni e virtù, vite e corpi? Non può convertire tutto nel suo contrario, abbassare, elevare, avvilire, glorificare? Il gioiello ha condiviso a lungo questo potere dell’oro. Di più: nella misura in cui ben presto l’oro puro non è stato più utilizzato per monete, né per oggetti d’uso, venendo così escluso da ogni ordine pratico, esso – la cui funzione si è come ripiegata su se stessa – è diventato oro superlativo, ricchezza assoluta: il gioiello diviene allora il concetto stesso del prezzo: lo si indossa come un’idea, quella di un potere terribile, a cui basta essere visto per essere dimostrato.

 

 

Non c’è dubbio che in fondo il gioiello sia stato a lungo un segno di ultrapotenza, cioè di virilità (solo recentemente, infatti, sotto l’influenza puritana del vestito quacchero, che è all’origine del nostro abito maschile, gli uomini hanno smesso di portare gioielli). Perché, allora, il gioiello è stato da noi così costantemente associato alla donna, ai suoi poteri e ai suoi malefici? Il fatto è che l’uomo ha ben presto delegato alla donna l’esposizione della propria ricchezza (alcuni sociologhi spiegano così l’origine della moda): le donna testimonia poeticamente la ricchezza e la potenza del marito. Solo che, come sempre nella società umana, la motivazione di base è stata rapidamente investita di significati, simboli ed effetti inattesi. Così, la primitiva esposizione della ricchezza si è intrecciata con tutta una mitologia della donna: mitologia, d’altronde, ancora una volta infernale, dato che la donna si perde per il possesso dei gioielli e l’uomo si danna per la donna, la quale indossa quegli stessi gioielli per cui si è venduta: attraverso la catena dei gioielli, la donna si dà al diavolo, l’uomo si dà alla donna, divenuta essa stessa pietra preziosa e dura. E non bisogna credere che una tale simbologia, a un tempo prosaica e spirituale, ossia ingenua, appartenga solamente ai tempi barbari del nostro Occidente. Tutta la società del Secondo Impero, per esempio, si è inebriata ed è impazzita a causa del potere dei gioielli, di quella sorta di conduttibilità alla colpa, per molto tempo ritenuta quasi una proprietà fisica dei diamanti e dell’oro. Nanà di Zola è davvero il canto grandioso e furioso di una società che si annienta in una doppia distruzione o, per così dire, divorazione: la donna è contemporaneamente mangiatrice di uomini e di diamanti.

 

Ancor oggi questa mitologia non è del tutto scomparsa: esistono grandi gioiellieri, un mercato mondiale dei diamanti, furti di gioielli celebri. Ma il tema infernale è visibilmente in declino. Innanzitutto perché la mitologia della donna è cambiata: nel romanzo, nel cinema, la donna è sempre meno fatale, non distrugge più l’uomo; non è possibile considerarla immobile, inanimata, farne un oggetto prezioso e pericoloso: ha raggiunto l’ordine umano. Inoltre, i gioielli, i grandi mitici gioielli non si portano quasi più: sono valori storici, asettici, imbalsamati, separati dal corpo femminile, condannati a stare in cassaforte. In breve, la moda – ed è quanto dire – non conosce più il gioiello ma soltanto il bijou.

 

La moda, come sappiamo, è un linguaggio: attraverso essa, attraverso il sistema di segni che la costituisce, per quanto fragile appaia, la nostra società – e non solamente quella femminile – mostra, comunica il proprio essere, dice ciò che pensa del mondo. Così come il gioiello della società antica esprimeva in fondo la sua natura essenzialmente teologica, allo stesso modo il bijou di oggi – quello che vediamo nei negozi e nelle riviste di moda – segue, esprime, significa il nostro tempo: venuto dal mondo ancestrale della colpa, si può dire con una battuta che il bijou si è laicizzato.

 

Questa secolarizzazione ha toccato innanzitutto, e più visibilmente, la sostanza stessa dei bijoux: essi non sono più fatti soltanto di pietre o di metallo, ma anche di materiali fragili o teneri, come il vetro o il legno. Inoltre, non esibiscono più in modo uniforme un prezzo per così dire disumano: se ne vedono in metallo volgare o in vetro poco costoso; e quando imitano materiali preziosi, oro o perle, lo fanno senza vergogna. L’imitazione, caratteristica della civiltà capitalistica, non è più un modo ipocrita di mostrarsi ricchi a buon mercato; essa si mostra chiaramente, non mira a ingannare, ma solo a mantenere le qualità estetiche della materia inanimata. In breve c’è una liberazione generale del bijou; la sua definizione si allarga, si tratta ormai di un oggetto – se così si può dire – privo di pregiudizi. Vario nelle forme e nei materiali, infinitamente utilizzabile, non più soggetto alla legge del prezzo alto né a quella di un uso particolare, festivo, quasi sacralizzato: il bijou è diventato democratico.

 

Corinne Day, Kate, 1990

 

Tale democratizzazione, ben inteso, viene compensata da un nuovo valore di controllo. Finché la ricchezza regolava la rarità del gioiello, questo poteva essere valutato solo in base al prezzo (della materia e della lavorazione); ma nelle nostre società democratiche, e tuttavia ancora differenziate, quando una cosa diventa quasi alla portata di tutti, quando l’opera diventa prodotto, bisogna che sia sottoposta a una discriminazione di ordine diverso: quella del gusto, di cui proprio la moda è giudice e custode. Oggi abbiamo dunque bijoux di cattivo gusto; e, paradossalmente, il cattivo gusto di un bijou è individuato proprio nell’ostentazione di ciò che un tempo ne fondava il prestigio e la malia: il presso. Non solo i bijoux troppo ricchi e carichi sono screditati, ma al contrario, perché un bijou costoso sia di buon gusto, bisogna che la sua ricchezza sia discreta, sobria, visibile solo agli intenditori.

 

In che consiste dunque il buon gusto per un bijou di oggi? Semplicemente nel fatto che, per quanto poco costi, esso deve essere pensato in relazione all’insieme dell’abbigliamento, sottoposto a quel valore essenzialmente funzionale che è lo stile. La novità, se si vuole, sta nel fatto che il bijou non è più solo: è un termine di quel rapporto che lega contemporaneamente il corpo, il vestito, gli accessori e la circostanza; fa parte di un insieme, e quest’insieme non è più fatalmente cerimoniale. Il gusto può essere ovunque – al lavoro, in campagna, al mattino, in inverno – e il bijou lo segue; non si tratta più dell’oggetto singolare, folgorante, magico, concepito per ornare, cioè per far valere la donna; più umile e più attivo il bijou fa ormai parte del vestito, sullo stesso piano di una stoffa, di un taglio, di un qualsiasi altro accessorio.

 

Ora, proprio le sue ridotte dimensioni, il suo carattere di finitezza, la sua stessa materia, estranea alla morbidezza dei tessuti, fanno rientrare il bijou in quella parte della moda che ormai costituisce l’anima dell’economia generale del vestito: il dettaglio. Era fatale che, concependo il gusto come il prodotto di un delicato insieme di funzioni, la moda accordasse un potere sempre maggiore alla semplice presenza di un elemento, per minimo che fosse, indipendentemente dalla sua importanza fisica. Da qui l’estremo valore, nella moda attuale, di tutto ciò che, pur essendo di dimensioni ridotte, modifica, armonizza, anima la struttura di un vestito, e che viene appunto chiamato (ormai con molta deferenza) un nonnulla. Il bijou è un nonnulla, ma da questo nonnulla emana una grande energia: spesso poco costoso, venduto nei normali negozi e non più nei templi della gioielleria, di materiali vari, d’ispirazione libera (spesso anche esotica), dunque deprezzato nella sua essenza fisica, il bijou – anche il più modesto – rimane l’elemento vitale di una toletta, perché ne sottoscrive la volontà d’ordine, di composizione, cioè di intelligenza. Analogo a quelle sostanze metà chimiche e metà magiche, tanto più efficaci quanto più infinitesimale è la loro quantità, il bijou «regna» sul vestito non perché è prezioso in sé, ma perché concorre in maniera decisiva a renderlo significante. Ad essere prezioso è ormai il senso di uno stile, e questo senso dipende non dai singoli elementi, ma dal loro rapporto. E, all’interno di tale rapporto, è proprio il termine staccato (una tasca, un fiore, una sciarpa, un bijou) quello che detiene il potere ultimo di significazione. Verità, questa, non solo analitica ma anche poetica: il lungo percorso che, attraverso i secoli e le società, conduce dal gioiello al bijou è lo stesso itinerario che ha trasformato le pietre fredde e lussuose dell’universo di Baudelaire nei gingilli, bijou e nonnulla nei quali Mallarmé ha saputo racchiudere tutta la metafisica del nuovo potere dell’uomo di rendere significanti le cose più infime.

 

 

Roland Barthes, Il senso della moda, Einaudi, Torino 2006, pp. 63-69

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