Osservatorio Fondazione Prada / Surrogati. Un amore ideale

2 Aprile 2019

Manichini di legno, pelli sintetiche, giunture e parti meccaniche. L’ossessione dell’uomo per la creazione di replicanti, automi perfetti su cui vantare una potestà totale e totalitaria, non è un effetto della contemporaneità. Già nell’Iliade (libro XVIII), infatti, si racconta di come il dio Efesto avesse fabbricato delle ancelle d’oro dotate di “forza e favella” e “simili in tutto a giovinette vive”, in grado di aiutarlo nel lavoro di fucina. 

Di fronte alle fotografie esposte da Jamie Diamond e Elena Dorfman all’Osservatorio della Fondazione Prada (fino al 22 luglio), tuttavia, il desiderio umano di reiterare l’impresa divina sembra aver raggiunto una sorta di appagamento, cullato in una dimensione di artificialità morbida e confortante, al gusto di silicone. 

 

La mostra, curata da Melissa Harris, indaga le possibilità di relazione tra uomo e surrogati artificiali, ponendosi in linea con le attività promosse dall’Osservatorio della Fondazione Prada dedicate all’utilizzo contemporaneo del medium fotografico e alle sue implicazioni culturali e sociali. Il percorso espositivo si apre con la serie Nine months of reborning (2014) di Jamie Diamond, composta da cinque fotografie di bambole dalle fattezze iperrealistiche, disposte e ritratte in diversi atteggiamenti. Nella parete opposta, le sex dolls di Elena Dorfman vengono esibite in una sorta di catalogo, serializzate per modello e corredate da parrucche intercambiabili in base al gusto dell’acquirente. 

Fin dall’esordio, dunque, la mostra colloca l’osservatore nella scomoda e ambigua posizione di confrontarsi con immagini che evocano alternativamente il mondo dell’infanzia e quello del sesso – con i loro spettri di tenerezza e aggressività – da una prospettiva di finzione iperrealistica e dunque tecnicamente (e teoricamente) meno reale della realtà. Un mondo a senso unico dove il Tu, l’altro da sé, ricade nella sfera di appartenenza dell’Io divenendone quasi una proiezione, una protesi senza voce e opinione.  

 

Jamie Diamond, "Nine Months of Reborning" (2013-2014), 24 x 30 in each. Archival Pigment Print.


Perfettamente amalgamate nella loro diversità, le fotografie esposte presentano un indiscusso protagonista, il corpo, o meglio, i corpi: quelli di silicone e vinile e quelli in carne ed ossa, distinti da una diversità materica percepibile anche in foto. Rebecca 1 di Elena Dorfman, ad esempio, ritrae un uomo di mezza età mentre abbraccia e poggia il capo sul petto di una sex doll. L’immagine cattura un momento di intimità e affetto apparentemente lontano dalla dimensione erotica che si attribuirebbe a questo tipo di relazione: le sex dolls, del resto, nascono come surrogati sessuali e non per rispondere a bisogni emotivi. Con un imprevisto spostamento di prospettiva, invece, la serie Still lovers (2001-04) di Dorfman, di cui Rebecca 1 fa parte, stringe l’obiettivo sul legame affettivo che lega i proprietari al loro oggetti del desiderio, costruito a partire dal soddisfacimento sessuale e sfociato in attaccamento emotivo. Oltre a questo elemento, decisivo e riscontrabile in diverse fotografie, ciò che colpisce è la dissonanza materica tra il corpo dell’uomo ritratto e la sua bambola. Ci si aspetterebbe, infatti, che in quanto proiezione idealizzata delle fantasie umane, Rebecca sia perfetta. In realtà, la fotografia registra impietosamente l’effetto del tempo e dell’usura sulla pelle sintetica, che sul viso e sulle braccia si sfalda in sottili brandelli. 

 

L’approccio giornalistico, quasi documentario, dei lavori di Dorfman e Diamond enfatizza ulteriormente le caratteristiche mimetiche dei soggetti, ponendo l’accento sulla superficie dei loro corpi e rispondendo a un’estetica da rivista di moda. Osservando nel dettaglio altri lavori della serie, come Taffy 12, la deperibilità del silicone si ripresenta nelle imperfezioni della pelle, in articolazioni poco salde e in linee di giunzione evidenti. Se le imperfezioni rendono le bambole più realistiche – e non per questo automaticamente più desiderabili –  dall’altro lato sembrano annullare una delle funzioni per cui vengono spesso acquistate: il conforto e la sicurezza di possedere un oggetto da usare e consumare a proprio piacimento e sul quale detenere eternamente il controllo. I materiali di cui sono costituite le bambole, infatti, possono apparire molto resistenti e il loro aspetto giovane e attraente dare la parvenza di durare per sempre. I tagli e le fratture ritratte nelle fotografie di Dorfman, tuttavia, svelano brutalmente questa illusione: nonostante possano funzionare come un oggetto di sostegno e sopperire all’idea di abbandono, le sex dolls possono provocare potenzialmente un altro dolore rompendosi, sfaldandosi e diventando inutilizzabili. 

Attraverso una rapida comparazione con la serie Sex Pictures (1992) di Cindy Sherman – che ritrae bambole medicali in atteggiamenti sessualizzati, composte da un miscuglio di pezzi degno dei mostri delle Wunderkammern – possiamo notare in ogni caso quanto le fotografie di Dorfman evochino atmosfere tutto sommato serene (seppure velate di ambiguità) ed evitino il richiamo a contesti di crudeltà o violenza. 

 

Il progetto di Dorfman ritrae persone che vivono effettivamente insieme alle bambole, svolgendo in loro compagnia le proprie attività quotidiane. Se alcuni di essi sembrano usciti da un romanzo di Houellebecq – “Brutto sia dentro che fuori, soggetto a frequenti attacchi di depressione, è il contrario di quel che le donne cercano in un uomo” dice l’autore del protagonista di Estensione del dominio della lotta – nei lavori della fotografa trovano posto anche alcune donne, ritratte mentre sfogliano il giornale o giocano a scarabeo accanto alle bambole. La doppia presenza di soggetti femminili, artificiali e umani, dispiega visivamente la questione dell’oggettivazione del corpo della donna che in queste fotografie, tuttavia, sembra rappresentare una sottotraccia, piegata alla volontà sociologica di esplorare in generale la relazione tra umano e artificiale, al di là del genere dei suoi protagonisti. 

 

Il rapporto tra donne e surrogati è invece al centro dei lavori di Jamie Diamond, interessata all’esplorazione delle convenzioni sociali che regolano i rapporti interpersonali, specialmente quelli familiari. La serie I promise to be a good mother (2007-2012) indaga l’inedita relazione tra madre umana e figlio surrogato partendo dall’esperienza personale dell’artista, che per un lungo periodo ha vissuto insieme a quattro bambole iperrealistiche impersonando il suo modello ideale di madre. Gli autoritratti di questa serie sono pervasi da un filtro idilliaco che richiama nei luoghi rappresentanti e negli atteggiamenti dell’artista un’atmosfera da vacanza e un tipo di maternità edulcorata, irreale. 

 

In 1.1.11, ad esempio, Diamond è ritratta sul treno mentre osserva romanticamente ciò che accade fuori dal finestrino stringendo tra le braccia il suo neonato artificiale. La posa dinamica dell’artista, protesa verso il vetro, scopre un dettaglio interessante, ossia la scritta “first class” cucita sul poggiatesta del sedile. Sebbene non sia l’intento dell’artista, il tipo di maternità che emerge da questi scatti appare modellato proprio sull’idea di prima classe, all’interno della quale le bambole appaiono per quello che sono: oggetti molto costosi, maneggiati per sperimentare senza impegno un’idea personale di accudimento che oltrepassa, per divertimento e per gioco, le convenzioni culturali. 

 

Un discorso diverso può essere fatto per la serie Forever Mothers (2012-2018), che ritrae alcune donne della comunità reborner, ossia artigiane che realizzano bambolotti (detti reborn) dalle sembianze perfettamente verosimili, destinati all’uso personale e alla vendita. I motivi che conducono donne adulte alla fabbricazione e all’acquisto di queste bambole sono i più vari: dall’impossibilità fisiologica di avere figli a quella economica di mantenerli, fino alla volontà di sperimentare una maternità senza impegno o riviverne i primi momenti dopo la crescita dei propri figli. Nelle fotografie della serie, Diamond ritrae donne di tutte le età e provenienza sociale mentre abbracciano o accudiscono le loro bambole, somiglianti in tutto e per tutto a bambini reali. 

Il soggetto di queste fotografie, in cui compare anche un “papà”, è il legame stipulato con quelli che in genere definiremmo come oggetti transizionali ossia, secondo la definizione di Donald Wood Winnicot, oggetti in grado di aiutare il bambino ad attraversare la fase dello sviluppo dell’Io e della differenziazione. In questo caso, tuttavia, i nostri riferimenti interpretativi svaniscono di fronte a un bisogno che si manifesta in età adulta e che accorpa probabilmente ulteriori funzioni, per nulla chiare o deducibili. L’inquietudine che questi ritratti suscitano nello spettatore è anche qui mitigata dallo sguardo dolce di Diamond, che tenta di fissare su pellicola una nuova possibilità di amore, senza esprimere un giudizio.

 

Nei lavori di Dorfman e Diamond, dunque, la sospensione di giudizio genera ritratti idealizzati che sfidano gli stereotipi e le convenzioni sociali, sollevando la questione di cosa significhi amare e di cosa sia degno di amore. Il potere di queste immagini risiede nella stridente difformità tra l’idea della mostra – ossia l’esplorazione di nuove tipologie di amore – e il disgusto che questo tipo di pratiche emotive e fisiche possono produrre, generando una sessualità disincarnata e disumanizzata e una maternità leggera, priva di vincoli e responsabilità. 

Sul piano fisico, la sfida è persa in partenza dall’uomo che di fronte alla perfezione sintetica dei corpi artificiali – personalizzabili esattamente come vuoi! – e alla loro apparente eternità e incorruttibilità si trova ad affrontare il peso di un corpo debole e difettoso. Un corpo obsoleto, come proclamato dal pioniere della performance robotica e virtuale Stelarc, che già negli anni ottanta teorizzava l’estensione tecnologica del corpo come unica vera possibilità evolutiva. 

Sul piano emotivo e affettivo, invece, la partita tra esseri umani e surrogati è ancora aperta, almeno fino a quando le nuove tecnologie non saranno in grado di garantire automi responsive in grado di guarire i nostri vuoti emozionali con le giuste parole, le pause corrette e le verosimili illusioni del sentirsi (e sentire) umani.

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