Visioni di un mondo interiore
Ho conosciuto Nicol Vizioli sei anni fa, mentre progettavo una mostra collettiva di giovani artisti all’interno di un festival indipendente. A quell’epoca il dialogo tra la natura e la figura umana erano al centro del suo lavoro fotografico. Ancora giovane, già mostrava una certa coerenza nella composizione dell’immagine e una disinvoltura nell'uso della tecnica. La vividezza delle figure, la luce e la profondità furono gli aspetti che mi colpirono. Subito dopo quell’estate Nicol è partita per Londra–dove ancora oggi vive – con una borsa di studio per un master in fashion photography.
Nicol, sono ormai alcuni anni che io e te ci siamo incontrate e ricordo che hai sempre avuto ben chiara una cosa: che avresti lavorato con l’immagine. Come sei arrivata a questo linguaggio e che cos’è per te, oggi, la fotografia?
Ho iniziato a studiare l’immagine attraverso il disegno, quindi la pittura, il cinema e infine la fotografia. Mi sono avvicinata a tutti questi linguaggi da autodidatta e sempre con il desiderio di creare qualcosa che mi appartenesse. Per me è stato molto importante e decisivo poter approfondire un solo strumento alla volta. È parte del mio metodo. Sono convinta che la libertà espressiva, poter passare da un mezzo all’altro contemporaneamente, debba essere un punto d’arrivo, una conquista. Qualcosa che ti puoi permettere nel momento in cui hai raggiunto consapevolezza del tuo stile, non il contrario. La fotografia è per me un mezzo circostanziale, di passaggio. È stato un modo per fare uscire fuori la mia cifra stilistica. L’aspetto tecnico e linguistico sono secondari. Le mie priorità vanno oltre il linguaggio, preferisco dirigere l’immagine e rendere visibile il mio mondo. Non mi sento una fotografa. Il mio “occhio fotografico” è il mio modo per tradurre il mio universo interiore di visioni e l’unico scopo della mia esistenza è riuscire a riconoscerlo e a ricrearlo, a renderlo esistente. Per queste ragioni non ho mai pensato alla fotografia come a un mezzo per ritrarre o per raccontare la realtà, ma piuttosto come a uno strumento per creare immagini. Le mie immagini.
Shadows on Parade
Da Roma a Londra. Che cos’è che ti ha portato qui?
È successo tutto molto in fretta e in un momento di grande incertezza. È stato come fare un salto nel buio. Avevo vinto una borsa per un master in fashion photography qui a Londra e così mi sono trasferita iniziando a lavorare nella moda. Quello che volevo allora era soprattutto imparare meglio le tecniche della fotografia, al di là del contesto. Già dopo una settimana ho capito che il mondo della moda non mi apparteneva. Per questa ragione mi sono dedicata parallelamente a dei lavori autonomi, cercando sempre di confrontarmi con tutte le personalità creative che Londra ti dà la possibilità di incontrare.
Shooting for Grey Magazine, 2015
Non solo moda quindi?
La circolazione di idee che ho trovato qui a Londra e la voglia di sperimentare mi hanno dato la possibilità di avviare collaborazioni in diversi ambiti. Tuttavia la moda è stato un passaggio per approfondire la conoscenza del mezzo e crescere come artista, ed è un ambito che non escludo a priori, soprattutto quando questa mi permette di realizzare lavori di image making e mantenere il mio stile. Insomma quando il compromesso con la necessità di valorizzare il capo d’abbigliamento non è così evidente. In questi casi il soggetto – una modella, un tessuto, un musicista – diventa secondario. Ad esempio di recente ho collaborato con “Grey Magazine”, una rivista che si occupa di moda e per i quali ho realizzato gli scatti per la copertina. Oppure quando sono stata invitata da Vogue a presentare un lavoro per la loro web platform VTalents. A Study in Red and Gold (2015) era il titolo del lavoro [firmato insieme a Tzarkusi, alias Naz Di Nicola & Kusi Kubi, NdR]. In quel caso mi sono ispirata a Sergej Paradžanov, e in particolare al suo film Il colore del Melograno (1969), di cui ammiro moltissimo l'incontro tra la potenza visiva e l’estrema povertà dei mezzi.
A Study in Red and Gold, 2015
Quale consideri il primo lavoro che ti ha dato la possibilità di metterti alla prova come artista, al di là della moda?
Ho iniziato a esporre qui a Londra con Shadows on Parade (del 2012). Si tratta di un ciclo di immagini molto scure, avvolte nell’ombra, quasi in opposizione alla natura della fotografia che invece si fonda sulla luce. È stato un lavoro che mi ha dato una certa visibilità. Già il titolo ne anticipa questa caratteristica [Ombre in parata] ed è tutto nato da un sogno. Ho visto questa immagine e per prima cosa l’ho disegnata. Quindi ho scelto tre persone, le ho portate nella mia stanzetta di un metro quadrato e ho iniziato a scattare. La prima foto del ciclo che ho realizzato si chiama Madonna. Sebbene si tratti di un lavoro datato lo trovo particolarmente significativo e potente perché là ho visto uscire il mio universo.
Oltre al sogno cosa c’è dietro a queste immagini?
Di sicuro la mitologia greca, il mondo animale e quello naturale, che poi sono gli elementi fissi che ritornano nel mio lavoro. Come se nel tradurre il mio immaginario, tirassi fuori la tribù umana che esiste dentro di me. In queste immagini c’è anche la casualità, l’incontro fortuito con un persona che vedo per strada e che improvvisamente sento il desiderio di fotografare.
Shadows on Parade, da sinistra: Satiro; Argo
Passando invece a un lavoro successivo, An Opening Song, è un ciclo in apparenza meno onirico, ma quali sono stati per te gli elementi di continuità?
Quello che ritorna in An Opening Song è l’idea di spazio che si fonde dietro la figura isolata in un quadrato nero. Nel Teatro e il suo spazio [The Empty Space, 1968], Peter Brook dice sempre che per fare teatro non serve altro che, appunto, uno spazio vuoto. Una figura che attraversa lo spazio, un’altra che lo osserva. E questa è già performance. Il vecchio con l’ala è la mia musa privilegiata. L’ho fotografato almeno tre volte. Quando vedo quella foto, non penso: “che bella foto!”, penso che quest’universo dovrebbe essere vero, vorrei che quell’ala si muovesse.
I soggetti che scegli per i tuoi lavori sembrano perdere del tutto la loro identità per trasformarsi in personaggi. Come li hai scelti?
Ho scelto i personaggi con cui lavorare per il loro aspetto, quanto più lontano dalla patina “fashion”, quello che gli inglesi potrebbero chiamare freak. Sono sempre persone molto particolari quelle che utilizzo nei miei lavori. Si può dire che mi sento attratta da un certo tipo di umanità. Sento un senso di appartenenza. Come se condividessimo uno spazio. Ogni tanto qualcuno si palesa, lo fermo e gli dico che deve fare parte di tutto questo. Non so spiegarmi bene cosa accade. È qualcosa di istintivo. È sempre stato così. Non è un discorso sulla fatalità delle cose. Le vedo. Vedo queste persone e le riconosco. Se hai la capacità di guardare il mondo, la bellezza, le cose si palesano. Non importa cosa, ma solo la bellezza che essi portano e che io so di poter tirare fuori. Non faccio di certo casting. Fermo le persone per strada. Perché le vedo. Perché in quell’istante ha un senso. Lo considero una sorta di “dono della visione”, misto al desiderio di condividere questa esperienza, per quel giorno, per quell’ora o anche più a lungo. In quei momenti lì noi siamo una persona sola. C’è uno scambio di energia da entrambe le parti e il fatto di essere per un attimo parte della stessa cosa. Anche se adesso lo faccio di meno. Mi scrivono in tanti per essere fotografati.
Dall'alto: An opening Song; Shadows on Parade
Però hai detto che non ti interessa ritrarre quello che vedi.
No, infatti. Non mi interessa documentare la realtà o raccontare la persona. Non mi interessano neanche i “tipi”: l’albino, il vecchio, la donna. Altrimenti farei reportage o ritrattistica. Mi interessa accogliere questi soggetti, portarli nel mio universo, e una volta che ci sono dentro loro rimangono se stessi, anche se, è chiaro, poi sono filtrati da tutto il mio mondo, sempre nel rispetto della loro umanità. C’è quel dettaglio, un dente rotto, o i capelli, o l’incarnato, qualcosa che mi fa sentire come a casa. Come se ognuno di loro fosse la mia famiglia e io li devo avere per un attimo. È questo quello che mi interessa.
Prima hai detto che lavori in “una stanzetta di un metro quadrato”. Ma i fotografi non hanno studi molto grandi di solito?
Mi bastano quattro mura e un pannello nero. Per me questo è uno studio. Per me lo studio è uno spazio per il pensiero. Mi bastano pochi metri quadrati. Penso al lavoro come qualcosa di artigianale, a prescindere dal mezzo. Per me quello che conta è la capacità di dirigere le persone all’interno del mio mondo.
Che tecniche hai usato?
Io scatto sempre e solo in pellicola. Questa è l’unica cosa che mi fa credere nella fotografia. Mi piace lavorare in maniera rudimentale, giocando con le lenti e senza altre luci se non quella naturale, e con una macchina che mi ha regalato mio padre e che ha quarant’anni. Lavoro sulle luci, sulle ombre e, più che ad altri fotografi, guardo alla pittura, anche a quella antica; ai pittori, primo tra tutti Caravaggio. Sarà anche per questo che amo usare macchine vecchie di medio e grande formato; macchine molto delicate, molto lente; macchine che non ti permettono di sbagliare. In questo modo non ho la possibilità di vedere e correggere subito l’immagine, come con il digitale che trovo avido e frenetico, e la mia scelta tecnica mi fa sentire più vicina alla pittura. Solo così la fotografia assume per me una dimensione intima, quasi spirituale. Ed è questo quello che più di tutto mi tiene legata alla fotografia, che, come ho detto è un mezzo che amo molto sebbene non lo consideri un mezzo esclusivo.
Quindi stai sperimentando ad altre tecniche?
Sono in un momento di transizione, la fotografia non mi interessa più. Ho un progetto in cantiere, ma per ora non dico nulla.