Speciale

Un verso, la poesia su doppiozero / Antonio Machado. Viandante, non c’è cammino

31 Marzo 2018

Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.

 

Caminante no hay camino. Viandante, non c’è cammino […]. Il verso di Antonio Machado ha lasciato la poesia alla quale apparteneva per andarsene nel mondo, insomma per camminare, a sua volta, lungo quei sentieri dove prende forma, e ritmo, un sapere, o una sapienza, della vita: l’esperienza del cammino non come movimento progressivo verso una meta, né come relazione visibile della partenza con l’arrivo, e neppure come piacere per il tratto già compiuto e ansia per quel che resta da percorrere, ma soltanto come esperienza tutta interiore di una condizione, che è insieme uno stato di sospensione e di conoscenza, e dunque come figura dell’esistenza umana stessa. Il verso appartiene a una poesia della raccolta Campos de Castilla, del 1912, in particolare alla sezione Proverbios y cantares (la poesia è indicata con il numero XXIX). Ecco la poesia in spagnolo, seguita da una mia traduzione in italiano:

 

Caminante, son tus huellas

el camino, y nada mas;

caminante, no hay camino,

se hace camino al andar.

Al andar se hace camino, 

y al volver la vista atrás

se ve la senda que nunca

se ha de volver a pisar.

Caminante, no hay camino, 

sino estelas en la mar.

 

Viandante, sono le tue impronte 

il cammino, e niente più, 

viandante, non c’è cammino, 

il cammino si fa andando.

Andando si fa il cammino,

e nel rivolger lo sguardo

ecco il sentiero che mai 

si tornerà a rifare.

Viandante, non c’è cammino, 

soltanto scie sul mare. 

 

“Caminante, non hay camino”. Traducendo, diversi anni fa, ero incerto se rendere quel “caminante” con un’allocuzione: “Tu che sei in cammino, non c’è cammino”. Questo sia per dare rilievo con la voce cammino all’atto stesso del camminare, sia per sottrarre l’immagine alle varie declinazioni romantiche del wanderer, appunto del viandante (ma sul wanderer ci sono le due liriche bellissime di Hölderlin, la seconda rifacimento ampio della prima, versi densi di riverberi e di possibili trasvalutazioni metafisiche, soprattutto nella parte dedicata al tempo del ritorno).

 

Liberare il cammino, come fa Machado, dalla sua dimensione fisica e visiva, per farne una figura precipua dell’interiorità, è possibile proprio in una cultura come quella spagnola che ha nella sua mitografia due grandi rappresentazioni, sorgenti a loro volta di molte interpretazioni e variazioni filosofiche e narrative: l’hidalgo don Chisciotte della Mancia e il pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Il cammino di Alonso Quijano diventato il Cavaliere dalla triste figura, è, di stazione in stazione, di avventura in avventura, l’affermazione di un’alterità fantastica, ideale, irriducibile alla convenzione, che fa deflagrare il sempreguale, la ripetizione, la concretezza del visibile e del tangibile. In quel grande romanzo non è la direzione verso una meta a generare fantasmagorie, ma il cammino stesso, inteso come tempo e spazio dell’accadere. Quanto all’altro cammino, quello verso Santiago, esso era, prima che il costume e il cosiddetto turismo culturale ne dilatasse e disperdesse il senso, un esercizio che univa il percorso sul sentiero e nel paesaggio con l’itinerario spirituale che portava verso la purificazione: figurazione corporea della medievale cristiana peregrinatio. Paradigma che presiede alla Commedia di Dante, il cui verso d’incipit nomina appunto il cammino: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. 

 

Opera di Hiroyuki Masuyama.

 

Del resto, una filigrana di ascesi, un esercizio di distacco dagli affanni del mondo perché lo sguardo possa rivolgersi al teatro della propria interiorità ha a lungo accompagnato la figura del cammino: si pensi alla lettera nella quale Petrarca racconta l’ascensione al monte Ventoux in compagnia del giovane fratello, che è insieme descrizione del cammino e interrogazione di sé (il poeta porta infatti con sé le Confessioni di Agostino, che apre quando giunge in alto). Molteplici sono le connessioni del cammino con la cura di sé o con l’attivazione di un pensare che sia in accordo con il ritmo del passo (quella che Valéry chiama “reciprocità tra la mia andatura e i miei pensieri”): nel mio libro sull’interiorità (Il cielo nascosto) non potevo non dedicare un capitolo alla figura del cammino. 

 

Machado nel verso “Caminante no hay camino” allontana la storia, e le storie, che fioriscono nel tempo e nei luoghi del pellegrinare – il narrare favoloso, dal picaresco al devozionale che nasce proprio nelle soste del viaggio e alimenta il romanzesco occidentale – per dare rilievo a un movimento che è percezione dell’essere in cammino, da sempre e per sempre in cammino, cioè in una condizione che è raffigurabile bene dall’esilio: stato di lontananza anzitutto interiore, di spaesamento e sradicamento, di sospensione e desiderio aperto e incolmato, come quella che sarà nei particolari interrogata da Maria Zambrano (eccoci ancora nella cultura spagnola), o da scrittori dell’esilio come Edmond Jabès. Costui sottrarrà l’erranza sia al rimpianto dell’origine sia alla speranza della meta, per farne invece la soglia di un interrogare incessante: apertura costante della domanda, invece che replica del senso, o quiete di un approdo.

 

Ricordo che quando per Feltrinelli tradussi di Jabès Le livre de la subversion hors de soupçon (Il libro della sovversione non sospetta) la copertina più appropriata – parlandone anche con l’autore – sembrò la riproduzione di un’opera di Antoni Tàpies, l’artista spagnolo che nella sua ricerca ha dato forma alla cancellazione, colore all’abrasione, segno materico alla mancanza e allo spaesamento (molto bello il dialogo che Tàpies ha intrattenuto a lungo con un suo amico, José Ángel Valente, il quale a sua volta, oltre che poeta di grande tensione immaginativa e speculativa, fu il traduttore spagnolo di Jabès). 

A proposito del legame tra il cammino e l’esilio: un bravo interprete musicale di Machado, Joan Manuel Serrat, quando nel 1969 cantò, tra diverse poesie del poeta, i versi di Caminante son tus huellas sopra citati, li unì ad altri versi sull’esilio, in una canzone che comincia: 

 

Todo pasa y todo queda,

Pero lo nuestro es pasar,

Pasar haciendo caminos,

Caminos sobre la mar.

 

Tutto passa, tutto resta, 

ma il nostro è un passare, 

un passare battendo sentieri,

sentieri sopra il mare.

 

Per Serrat dire di Machado e del “caminante” voleva dire pensare all’esilio, a Machado stesso in esilio (il poeta, sostenitore attivo della Repubblica spagnola, dopo la caduta di Barcellona il 26 gennaio del 1939 e la fine dell’esperienza repubblicana, dovette attraversare il confine e andare in terra d’esilio, dove dopo meno di un mese morì). 

 

Potremmo ora sostare un momento sulle huellas, le impronte del verso di apertura, e sulle estelas, le scie del verso di chiusura. Le impronte, nient’altro che le impronte: questo il cammino. Esse dicono il passaggio, ricordano che siamo passaggio, cioè segno che insieme dice quel che è accaduto e annuncia la sparizione di quel che è accaduto. Se di qualcosa le impronte testimoniano, esse testimoniano del transito: esposte al vento della cancellazione, la loro forma è un fragile gioco dell’apparenza, appartengono al mostrarsi e nascondersi della terra. Ma quelle impronte sono le tue impronte. Anche quando sulla sabbia del deserto sono subito cancellate dal vento, esse ti appartengono in quanto già state. Il cammino è questo tuo offrire un segno alla sparizione. Camminare è stare nella bellezza, e nel fuggitivo lampeggiare, della sua apparizione. Delle immagini che nascono da questa consapevolezza, si alimenta la poesia di Machado.

Sulle estelas. Non c’è cammino, soltanto scie sul mare. Anche il mare, come il deserto, più ancora del deserto, si prende il passaggio, lo sottrae alla vista, lo cancella. Ma le scie sono il segno di una presenza: questa presenza è la vita stessa, una scia, una sequenza di scie, che presto si ritrae confondendosi con un’onda più grande. E questo mare che chiude la poesia e che si spalanca dinanzi alla vista interiore – come accade nella più nota poesia leopardiana, L’infinito – invita a spostare lo sguardo verso la lontananza estrema, sul confine tra il visibile e l’invisibile, sull’orizzonte che è oltre il nostro stesso vedere, oltre il nostro cammino. 

 

Dalla soglia del verso “Caminante, no hay camino”, possiamo muovere verso tutta la poesia di Machado, a cominciare da Soledades, seguire il meraviglioso accordo tra il vedere e il sentire, ascoltare le modulazioni pensosamente musicali dei versi, e avvertire come il dolore cerca di salire verso la parola, farsi parola. 

Dopo la lettura di Machado, ciascuno porterà con sé qualche verso che, come accadeva per i detti memorabili presso la sapienza antica, gli farà compagnia lungo il cammino. Tra i versi del poeta che da molti anni mi risuonano spesso nella mente ci sono tre versi pronunciati da un “caminante” nella notte: “Está en la luna /el alma de la tierra /y en los luceros claros”. Versi che ho tradotto, un po’ liberamente, così: “È nella luna l’anima della terra /e nel chiarore delle prime stelle”.

 

Un verso:

Ugo Foscolo. Né più mai toccherò le sacre sponde

Dante. L'amor che move il sole e le altre stelle

Giacomo Leopardi. Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi

Charles Baudelaire. Un lampo... poi la notte! Bellezza fuggitiva

Francesco Petrarca. Erano i capei d'oro a l'aura sparsi

Eugenio Montale. Spesso il male di vivere ho incontrato

Stéphane Mallarmé. La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri

John Keats. Una cosa bella è una gioia per sempre

Giuseppe Ungaretti. Mi tengo a quest'albero mutilato

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