Bolzano / Paesi e città

4 Marzo 2011

Bolzano è una forzatura.
Innanzitutto toponomastica: non esiste Bolzano, ma Bolzano-Bozen.
Da questo piano nominale, il più immediato, verificabile da ogni automobilista, la forzatura si estende a quello urbano e demografico: Bolzano sarebbe la parte italiana – quartieri, abitanti, cultura – di Bolzano-Bozen. Ma una tale Bolzano italiana non c’è. Ovvero, se c’è, non è quella che crede di essere.
“Chi credono di essere i bolzanini?” mi chiedevo a vent’anni, prima di andarmene da questa città – voglio dire da Bolzano, non da Bolzano-Bozen. Bolzano-Bozen è la città reale, bilingue, complessa, contraddittoria, dall’identità più frammentata che fluida; Bolzano invece è l’idea semplificata che di questa città hanno i bolzanini, soprattutto italiani. È da quest’ultima che volevo allontanarmi, ma è dalla prima che me ne sono andato. Se avessi imparato a conoscere Bolzano-Bozen anziché crescere posseduto dalla falsa coscienza di Bolzano, forse sarei rimasto. Non è un vezzo autobiografico: Bolzano è una finzione topologica sommamente alimentata dalle idiosincrasie di chi vive o ha vissuto a Bolzano-Bozen. E la fuga dei giovani italofoni è ormai un topos della mitologia urbana locale.
Quest’attitudine a lasciare le tende degli italici padri, d’altra parte, è solo la debole caricatura di vecchie istanze opposte e ben più imperiose – una per tutte: “Los von Trient! (via da Trento!)” gridò Silvius Magnago nel 1957 al cospetto di trentacinquemila sudtirolesi riuniti a Castel Firmiano, oggi sede del Messner Mountain Museum, per protestare contro l’italianizzazione del capoluogo altoatesino. Ma forse, per essere più esatti, bisognerebbe dire colonizzazione. Del resto è questo che i bolzanini italiani stentano ad ammettere: di essere stati a lungo dei coloni, ossia che Bolzano, molto più di ogni altro luogo dell’Alto Adige, è stata per decenni una colonia italiana incistata nel Tirolo del Sud. Era questa, se mai ve n’è stata una, la Bolzano italiana. Che oggi non c’è più, erosa e contaminata da una mondializzazione ormai ineluttabile. Ne è rimasta, per l’appunto, una versione ideologica, il grimaldello propagandistico di chi coopera – sia da parte italiana che tedesca – al perpetuarsi del conflitto etnico sotto forma di rappresentazione politica ad uso dei potenti: Bolzano porta voti facili, Bolzano-Bozen no. Un quarto di secolo fa, per dire, l’Msi divenne il primo partito cittadino, complice indiretta quella Südtiroler Volkspartei che negli anni precedenti aveva promosso una sorta di apartheid alpina all’insegna del motto «Meglio ci separiamo, meglio ci comprendiamo» (sic). Ancora oggi i partiti di centro–sinistra italiani e tedeschi, tendenzialmente interculturali e plurilingui, non superano insieme il 30%, mentre un vistoso calo di consensi tra i propri consimili induce Durnwalder, il Landeshauptmann, a puntare i piedi perfino contro le celebrazioni dell’unità d’Italia. E gli italiani, che hanno la malafede di chi non vuole ammettere la debolezza della ricorrenza innanzitutto nel proprio, di immaginario collettivo, trovano in “re Durni” e nella Provincia autonoma di Bolzano, privilegiata e irriconoscente, un capro espiatorio ottimale.
Chi non vive a Bolzano, nella finzione Bolzano, non può coglierne l’artificio – e non mi riferisco solo a chi sta fuori dall’Alto Adige, a Trento, Milano o Catania. Un mio caro amico di Bressanone, scrittore nell’ombra e acuto analista del microcosmo provinciale, ha dovuto rivedere radicalmente la propria visione del Sudtirolo a quarant’anni suonati, dopo aver trovato un nuovo lavoro nel capoluogo. Cresciuto e vissuto tra Bressanone e Brunico, di madrelingua italiana ma perfettamente bilingue e integrato, fino a quel momento non aveva sospettato che in Alto Adige potesse esistere un simile zoccolo duro di italiani monolingui e nazionalisti – ma così politicamente innocui, così depotenziati! All’improvviso gli fu chiaro a chi si rivolgeva il principale quotidiano locale in lingua italiana, dedito da decenni, in termini uguali e contrari al suo gemello tedesco, ad attizzare polemiche a sfondo etnico.
Ho un’altra cara amica, scrittrice meranese di madrelingua tedesca, che della mia città natia conosce solo il centro storico, più Bozen che Bolzano, e questo a quanto pare le basta, per ora. Ai bolzanini italiani, d’altra parte, questa scarsa familiarità dei sudtirolesi di periferia con il capoluogo è ugualmente estranea: come tutta la gente di città, si sentono al centro delle cose e non capiscono come questa centralità possa essere ignorata. Se poi li interpellate di persona, noterete un altro artificio: a Bolzano si parla un italiano standard, mediatico, un po’ repubblicano e un po’ repubblichino, sporcato appena dagli importi regionali di chi è migrato qui, spinto dalla propaganda fascista e dalla ricerca di un lavoro, a partire dall’annessione all’Italia. E a proposito, gira il mito della terra di confine, ma è gonfiato: fino a cento anni fa il vero e ampio confine culturale e linguistico tra mondo mediterraneo e mondo germanico passava un po’ più a sud, tra Salorno e Rovereto; ne sono ancora indizio le sapide contaminazioni dei dialetti locali, di fronte ai quali la lingua astratta dei bolzanini italiani impallidisce. Sicché la frontiera geografica o “naturale” individuata a inizio Novecento da Ettore Tolomei sullo spartiacque alpino, poi divenuta l’odierno limite settentrionale della regione, non fu che l’ennesima forzatura imposta a una terra refrattaria ai cambiamenti.
Il tempo passa, però, e la memoria non è sempre la miglior guida all’azione. Dove non serve da monito, rischia di essere una zavorra allo sviluppo del presente. Bolzano, questo orpello dell’immaginazione e della memoria, è un’argomentazione capziosa e viscerale. Bolzano-Bozen, invece, è l’esito sempre parziale e perfettibile di un progetto condiviso. Purtroppo è snobbato da molti, benché sia su tutti i cartelli stradali.

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