Claudia Castellucci: Setta!
Un’immersione totale, rituale, nella ricerca sulle possibilità dell’attore, su di sé, sul corpo, il ritmo, il movimento, la voce, il fiato, la figura, la combinatoria, lo spazio, le forme, il respiro – individuale prima e poi collettivo. Una scuola anomala, senza concessioni consolatorie, la cui certezza è che per passare dalla potenza all’atto bisogna isolarsi dal mondo, guardarsi dentro, rifiutare ogni spinta facilmente comunitaria e andare alle radici dell’individualità, della solitudine di ognuno, da coltivare con pratiche teatrali, meditazioni, riflessioni teoriche, esercizi di decifrazione della bellezza. In una disciplina iconoclasta, che mira a scardinare il potere intimidatorio delle immagini che ci avvolgono, a eliminare peculiarità personali, apparenze, distinzioni caratteriali, per raggiungere più a fondo se stessi, passando attraverso lo sprofondamento della solitudine creatrice, dello sguardo allo specchio interiore, sostenuto da una prassi di relazione laboratoriale quotidiana con altri, dei quali non devono importare il nome o le motivazioni.
Setta. Scuola di tecnica drammatica, è l’ultimo libro di Claudia Castellucci, fondatrice con il fratello Romeo, con Chiara e Paolo Guidi agli inizi degli anni ottanta della Socìetas Raffaello Sanzio, di cui ha costituito sempre l’anima teorica, filosofica, letteraria, pedagogica. L’autrice lo dichiara un manuale, un volume da usare, composto con una scrittura “non creativa, bensì creatrice”. Lo rivolge a chi voglia prenderlo tra le mani e trasformare le parole scritte in prassi, in cinquantanove giorni di esercizi che più che a quelli di una scuola di recitazione assomigliano a una meditazione filosofica e artistica sviluppata attraverso l’azione, la riflessione teoretica, l’affondo nello scandalo della bellezza. Ma tutto deve partire da uno svuotamento, così come dal vuoto nascono parecchi impulsi all’azione.
Esercizi ritmici in un campo di Venezia per la Biennale Danza College, ph. Akiko Miyake
L’autrice già in passato ha inventato scuole dalla pedagogia eretica, incentrate su una ricerca non convenzionale, fuori dei canoni, come la Scuola teatrica della discesa o la Stoà. Palestre di attenzione, di ascolto, di pulizia interiore, di rovesciamenti. Ora lancia questo “eserciziario” articolato in cinquantanove stazioni, definite “giorni”, mentre sta girando a illustrare quello che diffida dal chiamare “metodo” e sta sperimentando un formato pedagogico più breve di laboratorio di ballo, che tende a creare sequenze di danza basate sui piedi della poesia classica greco-romana e su altre combinazioni metriche: le chiama Esercitazioni ritmiche e sono danze in cerchio, con gli esecutori resi figure insieme neutre e sacerdotali da vesti nere o marroni simili a austere zimarre, in elevazione verso il cielo, in direzione del sole, in esplorazione del rapporto con la terra, del peso della gravità, del salto, del giro del cerchio e del tempo del singolo, della gamba e del piede che battono, della sintonia o distonia con lo spazio intorno.
Al manuale premette un capitolo di Spiegazioni, che inizia rivolgendosi ai suoi ideali interlocutori, aprendo il discorso proprio dal tema del vuoto:
Ragazza, parlo a te che hai quattordici anni. Ragazzo, parlo a te che hai quindici anni. Quello che leggerai l’ho scritto per quei pomeriggi in cui non sai cosa fare; perché in quelle ore, cariche di ansia costruttiva, in cui occorre cambiare immediatamente il mondo assieme a due o tre altri compagni, qualcosa o tutto possa cominciare.
E dichiara, poco più avanti, che questo è “un libro di brani alimentari. Per chi ha fame”, fame di prassi. E poi, con impennata metaforica:
Ragazza, quanto segue leggilo all’alba del giorno in cui hai deciso di incominciare, quando ancora molte persone dormono e tu stessa lotti contro un sonno che ti vorrebbe ancora tutta sua. E tu, ragazzo, fa lo stesso.
Esercizi ritmici in un campo di Venezia per la Biennale Danza College, ph. Akiko Miyake
E poi l’invito è a prendere in mano il manuale e lanciarsi senza rete, lasciando perdere la ansie di definizione di confini, sprofondandosi nel fumo, nei rischi della smarginatura, dell’agire direttamente, sperimentando, guidati però da regole precise, da una disciplina rigorosissima, quasi intimidatoria, considerata condizione per fare vuoto. Per iniziare bisogna essere almeno in tre: due che agiscono e uno (una) che diventa “scolarca”, che guida questo sprofondamento in una prassi che è ricerca totale in condizione di “romitaggio”, dove non bisogna dichiarare il nome o perché si è là; dove, se si va via, non bisogna dire nulla né fornire spiegazioni; dove bisogna annullare l’agire quotidiano:
È bene cominciare al più presto (…). Non temere: i giorni della scienza verranno; i giorni della pacata riflessione si accatasteranno; ora è importante che tu arda – rabdomante del pensiero –in cerca di un’idea che prenda una forma. Avvolto nel fumo che aumenta, il movimento è genealogico, un albero che si va a cercare sotto terra. Poi occorre ramingare, cioè procedere scegliendo su quali rami appoggiarsi. Quindi capiterà il romitaggio, dove si butta via tutto, perché si desidera provare se stessi senza conforto alcuno. È un esercizio della libertà, che, in questo caso, fa propria la nudità: ciò che è stato già trovato, lo si deve salutare, perché si avverte che ora è tempo della nudità. È qui che si apre il capitolo del pensiero sistematico. Qui ci si ferma e, con la sola forza della mente, si catalogano tutte le forme essenziali. Qui è necessario riposare, perché solo se ci riposa (meglio ancora se in modo forzato) si è in grado di capire se la sistematica abbia avuto effetto oppure no. Questa scuola non si ferma alla mēchaniké. Il teatro è l’arte di una morte superata, ossia raccontabile da vivi. Superata la voglia di vivere, e superata la morte, è una voglia di rivivere.
Non occorre andare oltre nelle citazioni, né nella descrizione. Dalla “prima giornata” si apre un affascinante viaggio di conoscenza, fisica e intellettuale, con azioni che assomigliano agli esercizi spirituali dei mistici, fatte di tecniche del corpo e della mente che si nutrono a vicenda, di momenti di letargia e di altri di assoluta, dinamica presenza, di norme stringenti che vogliono garantire la libertà. Il tutto è raccontato con una scrittura smagliante, che rapisce, che fa di questo libro un’opera preziosa da percorrere, da provare (e da tradire) personalmente. È un manuale che si legge a brani, a pezzi, o si pratica in ordinata successione, fino a che se ne ha voglia, suggerisce Castellucci – fino a quando non si crede di aver trovato qualcosa. Ha un fascino analogo a trascrizioni letterarie di pratiche teatrali suscitatrici di pensieri e prassi, magari difformi dalle intenzioni degli autori, per varie generazioni, come fu Per un teatro povero di Grotowski: volume così stringente e tanto astratto dal teatro corrente da diventare più una suggestione piena di aura che un prontuario.
La scolarca disegna l’ambiente ideale di lavoro (una stanza neutra, con spazi per i momenti collettivi e stanzini separati per gli esercizi individuali), suggerisce esplorazioni del corpo e della voce, riflette sulle forme, sui colori, sulla composizione e sulla recitazione; si rivolge agli allievi con discorsi sulle dinamiche della scuola, delle emozioni, delle pratiche che attraversa; usa Aristotele e Heidegger, Platone e George Simmel, la Stoà e De Martino, la musica e la critica, l’isolamento e l’insieme, la dizione meccanica e quella emotiva, la melodia e il ritmo, Dostoevskij e Juan de la Cruz, Yves Klein, Giuseppe Penone, Winkelmann, Stockhausen e Scelsi, la storia dell’arte e la teoretica. E così via.
L’altra cosa folgorante di questo ponderoso volume è il suo irriducibile fare del teatro una “tecnica personale”, un modo per rispondere, senza ideologismi, a inquietudini, un aurorale mettersi alla prova per costruire un nuovo mondo, evadendo dalle tecniche note per esplorare, in un procedimento di pedagogia che diventa continua autopedagogia, accostamenti inconsueti, eccentrici, fuori da ogni mainstream teatrale e culturale, in un montaggio di curiosità individuali, di saperi differenti, di ansie e dilemmi esistenziali e filosofici, da esplorare esplorandosi. In quel senso si può leggere l’invito a superare la voglia di vivere (il disgusto per il mondo come è, da parte di ragazzi che vogliono rovesciare il vuoto delle ore), a superare la morte, per rivivere, per aprirsi alle visione di una nuova vita più “autentica”. Il manuale spiega, però, che ciò forse può avvenire solo percorrendolo, con corpo, mente, sentimento, giorno per giorno, spogliandosi degli abiti abituali, facendosi simili a monaci, a mistici, che partano dal fare il vuoto del mondo intorno. E qui qualcosa ancora riecheggia il radicalismo di Grotowski e del suo teatro povero, e la fase iconoclasta della Raffaello Sanzio, e comunque il suo credere sempre, ancora, che l’arte non è mai riproduzione: è viaggio, sprofondamento, invenzione di realtà che spesso assomigliano a quella che chiamiamo convenzionalmente con questo nome solo per la loro forza imprevista di sobillare la materia magmatica della vita irriducibile. E trasformarla in ricerca inesausta, spesso paradossale, sempre eterodossa, di bellezza.
Esercizi ritmici in un campo di Venezia per la Biennale Danza College, ph. Akiko Miyake
Il libro:
Claudia Castellucci, Setta. Scuola di tecnica drammatica, Macerata, Quodlibet 2015, pp. 435, euro 32,00
Claudia Castelluccci si può incontrare a Torino, teatro di San Pietro in Vincoli, il 25 settembre; a Roma a Teatro Due, in un seminario con la regista Silvia Rampelli, il 16, 17 e 18 ottobre; all’Accademia di Brera a Milano, in un seminario con lo storico dell’arte Federico Ferrari, l’11 e il 12 novembre; alla Sapienza di Roma, in un seminario promosso dalla storica del teatro Valentina Valentini, il 10 e l’11 dicembre.