Gilles Deleuze, matematiche dinamiche

1 Dicembre 2024

Il testo di Andrea de Donato Morfogenesi del concetto. Matematica e stile a partire da Deleuze, immanenza e molteplicità, edito da Orthotes, fornisce un importante contributo per ripensare la matematica dal punto di vista filosofico. Trae ispirazione dalla filosofia di Henri Bergson e dalla geometria di Bernhard Riemann, oltre che da altre fonti importanti, per giungere al pensiero filosofico di Gilles Deleuze sotto una nuova angolazione. Deleuze e Felix Guattari sono stati una strana coppia – un filosofo e uno psicologo clinico – noti ai più per avere scritto L’antiedipo e Mille Piani, due volumi che compongono Capitalismo e schizofrenia. Il primo è stato frainteso come inno alla gioia di vivere della schizofrenia, il secondo, ritenuto astruso ed eclettico, è stato edito e riedito presso diversi editori e finalmente approdato presso Orthotes. Il solo Deleuze è stato studiato sia per i suoi contributi in filosofia teoretica – Differenza e ripetizione e Logica del senso – che per le monografie di numerosi autori del panorama filosofico moderno: Hume, Spinoza, Leibnitz, Kant, solo per citarne alcuni. Guattari ha assunto notorietà, oltre che per il sodalizio con Deleuze, per il suo impegno clinico nella psicoterapia istituzionale presso la Clinica La Borde in Francia.

Entrambi gli autori non hanno mai nascosto il loro radicalismo politico e il loro impegno intellettuale a sinistra. Ci sono poi studi che riguardano altre opere scritte in comune – Che cos’è la filosofia?, Kafka. Per una letteratura minore, e altro – e i testi del solo Guattari: Caosmosi, L’inconscio macchinico, gli scritti raccolti nel volume Una tomba per Edipo, per esempio.

Nel panorama culturale dominante, mentre Deleuze è ritenuto il filosofo della differenza, Guattari è visto come uno psicoanalista dissidente.

Pure i due autori hanno avuto sempre un interesse epistemologico e scientifico, soprattutto riguardo alle matematiche, come osserva il volume di Andrea Colombo Immanenza e molteplicità. Gilles Deleuze e le matematiche del Novecento, uscito due anni fa per Mimesis. E, ancora: La piega. Leibniz e il Barocco, in cui Deleuze studia la genesi del calcolo infinitesimale; Lo strutturalismo, per SE; e l’editore Derive/Approdi ha prodotto l’Abecedario: un DVD, con Claire Parnet, dove alla B, di Boisson (Bevanda) Deleuze applica la teoria matematica dell’infinito potenziale alla sintomatologia alcolista. Un contributo singolare alle connessioni tra psicologia clinica e matematica. In Che cos’è la filosofia?, inoltre, la coppia Deleuze Guattari distingue tre tipi di idee: i percetti-affetti che riguardano l’arte, i concetti che riguardano la filosofia e i funtivi, le idee proprie della scienza.

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Ma questo è solo un aspetto delle connessioni epistemologiche di Deleuze. Oggi emerge come le connessioni tra il piano clinico e la matematica siano uno dei contributi più importanti di Deleuze. Si tratta di fondare una scienza anti-assiomatica, una scienza della singolarità. Esisterebbe dunque una scienza della singolarità? Oppure la scienza è destinata a essere sottomessa a categorie universali e assiomatiche indiscutibili? Che cosa rende la scienza differente dai dogmi religiosi? La maggiore astrazione delle sue divinità assiomatiche e categoriali?

De Donato si misura con Bergson, è in gioco la questione del tempo, e con Riemann, rispetto al tema dello spazio.

Da Bergson, Deleuze mutuò il concetto di “durata” che, in termini semplici, consiste nella sensazione del trascorrere del tempo nel corpo. Ognuno di noi sperimenta la differenza tra il tempo esterno, quello che si misura con l’orologio e il calendario, e quello interno, la durata, appunto. In campo clinico l’autore che più di ogni altro si è avvicinato a Bergson è Eugène Minkowski, in Il tempo vissuto. La durata è un trascorrere qualitativo, mutevole e dipendente da circostanze singolari. Il tempo della durata è connesso alla cognizione, che non è conoscenza o consapevolezza, ma habitus.

In letteratura, possiamo pensare a l’Ulisse di James Joyce o alla La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda. Si tratta dello spaesamento che si prova mentre si legge quei testi. Fa perdere la certezza di quadri temporali misurabili, ci si trova soli davanti al romanzo, senza alcun riferimento su quanto sia accaduto prima e quanto accadrà dopo. In quel tempo, privo di parametri esterni, accade l’intuizione: un incontro che prende forma nel pensiero e diventa singolarità. La domanda da porre, a questo punto, è: tutto ciò è matematizzabile? È possibile pensare alla mathesis di un tempo qualitativo e singolare, come nel paradosso dell’opera di Joyce, che racconta una giornata – dal mattino alla sera – e che prende al lettore un’intera vita di lettura e rilettura?

Bergson, con cui de Donato si confronta in tutta la prima parte del suo libro, concettualizza il presente, mentre la tradizione filosofica antecedente, con Aristotele e Agostino, lo aveva, in qualche modo, azzerato.

Dopo avere fatto i conti con il Bergson di Deleuze, de Donato si riferisce alla geometria non assiomatica di Riemann. Così scrive l’autore a proposito dello spazio riemanniano: “le grandezze non vengono considerate come esistenti indipendentemente dalla posizione, né come fossero esprimibili mediante un’unità, bensì come domini di una varietà”. Qui la questione matematica, annunciata nel titolo, assume maggiore intensità. Così come in Bergson il tempo dipende dall’esperienza vissuta – è un tempo non standardizzabile – anche lo spazio, in Riemann, dipende dalla sua esplorazione concreta. Qual è il punto? La geometria euclidea, quella che abbiamo imparato a scuola, pensa uno spazio assoluto e rarefatto, la geometria di Riemann nasce dell’esperienza concreta. A scuola si dice: due rette che passano da uno stesso punto definiscono una porzione di spazio, ma lo spazio di questa ipotesi è astratto. Con Riemann si tratta di creare uno spazio che parta dalla molteplicità dell’esperienza sensibile. Cadono i concetti universali di grandezza generale, dai quali derivare teoremi, la grandezza è derivabile soltanto a partire da altre grandezze “tratte soltanto dall’esperienza”.

Si delinea una matematica che si fonda sulla varietà e la molteplicità di grandezze pluri-estese. Una mathesis singularis.

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Che vorrà dire a chi non è un esperto di questioni matematiche? Come intuire ciò che non sappiamo formalizzare? Come trasformare le funzioni matematiche in concetti filosofici o, addirittura, come abbiamo fatto con la filosofia di Bergson, in esperienza letteraria o esistenziale?

Il mio mestiere di clinico molte volte mi interroga sul problema dell’ostinazione del sintomo; quando un paziente dice: “è più forte di me”. È la stessa ostinazione di una retta euclidea, che non si piega mai. Ma esiste? Nella nostra esperienza reale: esiste la retta? La molteplicità del mondo – le montagne, le onde del mare, l’erba, gli alberi, ecc. – si compone di linee rette?

Quando si studia una curva, la si studia a partire da una retta che tocca la curva in un certo punto. Poi la curva devia e per ogni deviazione infinitesima si assume uno spostamento della retta, altrettanto infinitesimo. La curva non riesce a percepirsi altro che come una retta. Se la curva fosse una paziente, direbbe: “è più forte di me, mi sento una retta, anche se sono una curva!”. Tra due punti possiamo far passare un indefinito numero di curve, ma possiamo far passare una retta e una sola. Gianfranco Cecchin sosteneva che i sistemi patologici sono sistemi bloccati.

A partire dal libro di de Donato, potremmo sostenere che i sistemi patologici sono sistemi assiomatici, come la geometria euclidea.

A me, che matematico non sono, questa mathesis singularis ricorda la flânerie, il passeggiare senza meta dentro una città, tema caro a Charles Baudelaire e a Walter Benjamin. Chiunque abbia praticato l’esperienza di essere flâneur in città diverse ha esperito, con il corpo, la molteplicità geometrica, e può comprendere intuitivamente questa molteplicità. Ogni piega della mia camminata dipende da un’esperienza singolare, vagare senza meta per Roma ha intensità differente dal trovarsi a camminare per New York, per Parigi o per Rio de Janeiro. Roma è disposta in uno spazio collinare, dove due vie parallele sono destinate a divergere. A Manhattan – parzialmente simile a un accampamento per file parallele e perpendicolari – il flâneur incontra imprevedibili linee di fuga inoltrandosi sulla Broadway, fino al fiume Hudson, mentre al centro sta un grande rettangolo verde: Central Park. Parigi, attraversata dalla Senna, è uno spazio dissociato, con la destra del lusso sfrenato e degli affari e la sinistra piena di cultura e filosofia. Camminare a Rio dà l’impressione di un movimento a spirale che ci fa girare sotto le sue favelas che stanno, come in paradosso, ai quartieri alti della città.

Non so se lo spazio riemanniano formalizzi queste esperienze in funzioni geometriche, ma le due esperienze – quella sensibile del flâneur e quella intellegibile del geometra – ci dicono che lo spazio è imbricato nella camminata in maniera costitutiva, la sua qualità dipende dal camminatore. Come ebbe a sostenere Thomas Hobbes: “passeggio, dunque sono una passeggiata”, noi siamo lo spazio che abitiamo.

Il testo di de Donato è difficile, a tratti incomprensibile per chi non ha, o non ricorda, la formalizzazione matematica, tuttavia l’autore riduce le parti formali al minimo, a favore del ragionamento concettuale. Inoltre, Morfogenesi del concetto si innesta in un quadro di studi scientifici e semiologici iniziati alcuni anni fa da Alessandro Sarti, Giovanna Citti e David Piotrowski, che hanno pubblicato in inglese due testi: Differential Heterogenesis: Mutant Forms, Sensitive Bodies e Neuromathematics of Vision, quest’ultimo a sola stesura di Citti e Sarti.

Sono ricerche e studi che illuminano le nuove ricerche in campo neurofisiologico e psicologico.

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Che significa dunque morfogenesi? Letteralmente si tratta della creazione (genesi) di forme (morfe). Le forme non sono date in partenza, non sono premesse, sono il risultato di un processo. Risultato che non è non è permanente, è mutevole, sfuggente, evanescente, eppure formale. La morfogenesi è creazione di strutture sempre in divenire e, secondo de Donato, al fondo di questo divenire si trova il caos. La conoscenza non è altro che “articolazione di tracce per risalire al caos”.

Se uno spazio assoluto sul quale fondare assiomi logicamente inattaccabili non esiste nell’esperienza reale, al suo posto si sostituisce una concezione morfogenetica, un reticolo mobile e plastico di connessioni in continuo divenire.

La psicologia della Gestalt individua la tendenza a creare buone forme a partire dai meccanismi della percezione visiva. Ma qui non si tratta neppure più di Gestalt. In de Donato, e negli studi matematici e filosofici ai quali l’autore attinge, le forme assumono instabilità, sono forme mutanti, si compongono, scompongono e ricompongono in maniera sempre differente. Si tratta forse di affrontare la scissione tra due termini che sono considerati sinonimi: “distinzione” e “differenza”. Quando si parla di distinzione, ci si riferisce alle categorie aristoteliche classiche, quando si parla di differenza invece si parla della formazione qui ed ora di qualcosa che prima, e in altro luogo, non c’era. Le buone forme della psicologia della Gestalt si stabilizzano, si irrigidiscono e si rendono universali; segnano la distinzione, la morfogenesi mostra la differenza.

Nel testo Caosmosi, edito nel 2007 da Costa&Nolan, Felix Guattari scrive: “Mi trovo coinvolto in un Universo Debussy, in un Universo blues, in un divenire folgorante di Provenza. Ho superato una soglia di consistenza […] Non ci troviamo di fronte a una semplice configurazione gestaltica che cristallizza la prevalenza di una “buona forma”. Si tratta infatti di qualche cosa di più dinamico […]”.

La mathesis che propone de Donato, sulla scorta delle ricerche di Citti, Sarti, piuttosto che universalis, sembra una mathesis singularis. Si tratta di pensare scientificamente la singolarità.

Il libro di de Donato non nasce dunque dal nulla, si innesta in altri autori che hanno spostato l’attenzione sugli aspetti epistemologici del pensiero di Deleuze. Anche Andrea Colombo ha scritto un testo per Mimesis: Immanenza e molteplicità. Gilles Deleuze e le matematiche del Novecento che sottolinea l’influenza di Bergson e Riemann sulla coppia Deleuze e Guattari.

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