Lo psicologo di classe
Incontro amici della mia generazione – psicologi, psichiatri, filosofi, scrittori, sociologi – scandalizzati per avere avuto notizia che gli studenti di una certa scuola, o di alcune scuole, hanno occupato con la richiesta di avere uno psicologo per classe. Premesso che lo scandalo è da tempo lo sport preferito dell’anziano intellettuale – difficile che s’interroghino su quanto accade, o su quanto ci accade quando ci scandalizziamo. La considerazione essenziale dell’anziano intellettuale scandalizzato è: noi occupavamo la scuola per una società giusta, oppure, contro l’autoritarismo dei professori, perché la scuola trasmetteva contenuti ideologici, dietro l’apparenza di discipline scientifiche neutrali. Oggi tutto questo non c’è più, come hanno anticipato i versi della canzone di Lucio Battisti. Oggi gli studenti chiedono salute mentale. Perché? Inoltre, queste richieste – indubbiamente diverse dalle nostre a quel tempo – sono migliori, peggiori – come pensa chi si scandalizza – oppure semplicemente connesse a un contesto storico-sociale – a uno Zeitgeist – differente?
Nei primi anni Settanta iniziano le occupazioni di massa dei licei. Ricordo la mia prima occupazione a sedici anni; i compagni più grandi si erano portati il sacco a pelo. Io, come altri più piccoli, portavo il termos col caffelatte e le brioches la mattina alle sei, non avendo il permesso dei genitori di pernottare. Invitavamo gli studenti universitari e facevamo seminari di filosofia, sociologia, urbanistica, storia contemporanea, ecc. I temi erano la filosofia di Gramsci, la psicoanalisi, il cinema, la sociologia come critica della società di massa, la speculazione edilizia, le leggi razziali e la Resistenza, per esempio. Non che Aristotele, Kant, il greco, la trigonometria, il Risorgimento non fossero interessanti, ma c’era il bisogno di un sapere altro; qualcosa che i nostri professori e i nostri genitori rimandavano sempre a un dopo che non arrivava mai: prima le basi, dicevano. A noi le basi sembravano una caserma, una prigione, una sorta di Fortezza Bastiani che, come nel romanzo di Buzzati, ci imprigionava per il resto della vita, mantenendo il nostro desiderio indefinitamente costretto dentro le mura della fortezza dei saperi dominanti.
Invero c’era altro. A questo desiderio di liberazione, almeno in Italia e nei paesi dell’Europa occidentale – allora esisteva un’Europa occidentale diversa da quella orientale – si aggiungevano sogni che, man mano che il tempo passava, si rivelavano incubi. Avevamo in mente un cambiamento rivoluzionario, una società giusta e ci rifacevamo a modelli sociali altri, diversi dalle democrazie occidentali, che ci sembravano più avanzati: i paesi socialisti o comunisti. Anche se alcune esperienze ci avevano deluso – l’URRS, i paesi europei dell’Est invasi dall’URRS, Ungheria, Cecoslovacchia, ecc. – c’era sempre qualche altra realtà che testimoniava la possibilità di una società libera e giusta. La Grande Rivoluzione Culturale Proletaria Cinese? Quando scoprimmo di cosa si trattava – un grande esperimento di bullismo di massa verso gli intellettuali e i professori di quel paese – ci trovammo traumatizzati e ci volle – anni dopo – il film Lettere da uno sconosciuto di Zhang Yimou, per consolarci e renderci capaci di comprendere che cosa significava, nell’intimità della vita quotidiana, il totalitarismo. Il novero delle delusioni affrontate è infinito. Molti di noi entrarono in analisi – e molti psicoanalisti, a quell’epoca, furono generosi a non pretendere le loro esorbitanti tariffe e le loro asfissianti frequentazioni –, altri si misero a studiare, fecero altro: chi diventò conservatore, di destra, chi giornalista, parlamentare, poeta, scrittore, chi esercitò una professione liberale, utile, per far soldi, ecc.
Perché occupavamo la scuola a quel tempo? Per la trascendenza. Pensavamo – era forse l’ultima speranza della modernità – che fosse possibile creare il paradiso in terra: “a ognuno secondo i propri bisogni, da ognuno secondo le proprie possibilità”, questo regno lo aveva perfettamente descritto Tommaso Moro nel 1516, agli esordi dell’epoca moderna: Utopia. È stata la chimera degli ultimi cinquecento anni e ha potentemente agitato gli animi dei due secoli precedenti.
Poi è arrivato il terzo millennio, e tutto è cambiato. Alla generazione del boom economico, è toccato l’ultimo afflato, il canto del cigno di quest’epoca, definitivamente tramontata negli anni di piombo. C’è un libro, su cui ho avuto il piacere di scrivere un mio capitolo, che parla di questi temi e che non è mai stato tradotto in italiano; curato da Alessandra Diazzi e da Alvise Sforza Tarabochia si intitola: The years of alienation in Italy : factory and asylum between the economic miracle and the years of lead (Gli anni di alienazione in Italia: fabbrica e manicomio tra il miracolo economico e gli anni di piombo).
È interessante che questo libro non sia stato tradotto; riguarda la fine del secolo nel nostro paese. Le vicende culturali, sociali e letterarie che hanno transitato in Italia, potenza industriale negli anni Settanta, luogo di dissipazione oggi. Gli anni di piombo portano la scritta che Dante incontra all’ingresso dell’inferno. Da quel momento in poi – potremmo mettere una data nel giorno in cui il cadavere di Aldo Moro fu ritrovato in un’auto parcheggiata a Roma – davanti alla porta dei saperi scolatici sta scritto “lasciate ogni speranza”. In realtà quel tipo di speranza era truccato, cercava l’utopia, il paradiso in terra, ultima forma della trascendenza.
Gli adolescenti di allora, parlo per me – ma forse anche per altri – curavano il loro malessere esistenziale dentro il principio di speranza in un altro mondo sulla terra, ricordo l’ammirazione che provavo per Thomas Müntzer, capo dei ribelli contadini tedeschi, sognavamo una ribellione studentesca analoga, forse.
Oggi invece siamo nel regno dell’immanenza, dove il bisogno è sostituito dal desiderio. In questo regno non ci restano che i sogni, le visioni, le trance, le dissociazioni. Ci restano però anche le passioni veraci, concrete, particolari. È finita l’epoca del bene generale, come vuole il poeta: “chi vorrebbe far del bene all’altro lo deve fare nei minuti particolari. Il bene in generale è la scusa dei mascalzoni, degli ipocriti e degli adulatori perché l’arte e la scienza non possono essere organizzati altro che nel dettaglio” (William Blake).
Nell’immanenza significa che non c’è l’al di là, neppure nell’al di qua. Nessuna società perfetta ci potrà salvare perché la società perfetta, il paradiso in terra, è fallito. Agli adolescenti oggi non è rimasto che questo fallimento. Ma in ogni fallimento si trovano linee di fuga verso qualcosa di inatteso. Se il malessere psichico non ha più un contenitore sociale definito, una comunità salvifica, oggi, a differenza di un tempo, gli studenti chiedono di essere aiutati a prendersi cura di sé. Sono soggetto collettivo inquieto, senza prospettive salvifiche, ma con un impegno concreto. Non come malati di mente, ma come soggetti responsabili, più responsabili degli attuali adulti, che nascondono la testa sotto la sabbia.
Tim Ingold ha scritto di recente Corrispondenze, edito da Raffaello Cortina. In quel testo si parla della perdita, in termini di pensiero, del modo di scrivere una lettera, con una matita o una stilografica, su un foglio di carta, con le parole composte da lettere dell’alfabeto tra loro concatenate in un continuo, da spedire, per alimentare l’attesa di un invio e di una risposta differita. Di recente l’ho proposto a una adolescente che vive al Sud, per creare un nuovo rapporto con la madre, che vive al Nord. Abbiamo pensato insieme di inserire nella busta, insieme alla lettera, una zagara. Questo internet e la tecnologia digitale non lo possono fare, forse è questa la ragione per cui gli studenti occupano la scuola oggi, per riapprendere le tecnologie della tenerezza, l’arte antica dell’attesa, la pazienza e la materialità delle cose. Ma gli psicologi, tutti presi con le tecnologie digitali e con le tecniche di guarigione cognitivo-comportamentali, saranno in grado di far fronte a questa domanda di cura? Qualcuno potrebbe intendere: allora lo psicologo di classe è necessario, qualcuno potrebbe intendere l’opposto, qualcuno è preoccupato della presenza nelle scuole di psichiatri melliflui – con nomi che richiamano la mitologia greca – che istruiscono gli insegnanti a fare diagnosi precoci di depressione adolescenziale per ammannire farmaci ai giovani inquieti. Insomma il campo della salute mentale degli adolescenti è pieno di lupi travestiti da agnello, o da nonna di Cappuccetto Rosso, ma gli adolescenti di oggi, come noi quando avevamo la loro età, continuano a essere un enorme potenziale di cambiamento, sono come il pesciolino rosso del capolavoro di Francis Ford Coppola Rumble Fish. E, come dicono le parole della colonna sonora del film: Don’t Box me in.