Freud e il transfert al centro

14 Ottobre 2024

È di recente pubblicazione una nuova traduzione, per la collana Psyché di Jaca Book, di Costruzioni nell’analisi, breve testo di Freud del 1937, quando, ottantenne, il padre della psicoanalisi stava per affrontare gli anni più duri della sua esistenza, prima di diventare apolide ed esule politico in Gran Bretagna, a causa dell’antisemitismo del regime nazista in Austria. Sono di quegli anni alcune riflessioni critiche sulla psicoanalisi e, credo, sulla sua istituzionalizzazione.

Una delle obiezioni classiche rivolte a Freud relativamente al fallimento del caso Dora fu l’eccesso di interpretazione, oggi lo chiamiamo “teoricismo”, che si verifica quando un modello teorico incastra la persona che frequenta la clinica e riconduce la sua narrazione dentro una teoria, come se le sedute cliniche non fossero un incontro, ma la risultante del modello del clinico. Sandor Ferenczi del resto, nel parlare di analisi reciproca, aveva creato lo scandalo di una cura fondata sull’incontro e la messa in questione continua della figura e della competenza dell’analista.

Per dipanare la matassa di quanto accadde a Freud negli ultimi anni della propria vita – ma certo anche prima – ci viene incontro Francesco Barale – psichiatra, psicoanalista e professore universitario – con questa nuova traduzione di Konstruktionen in der Analyse, ritradotto insieme a Ingrid Hennemann Barale. Il lavoro è una messa a confronto di altre due traduzioni: la Standard Edition inglese e le Opere di Sigmund Freud in italiano. 

A pagina 69, dove incominciano le note alla traduzione italiana, è messo in evidenza il termine tedesco Aufheben, che richiama la dialettica hegeliana e i suoi sviluppi marxiani. Ma, come osserva la nota, in Hegel il termine segnala togliere, ma anche conservare, in una sorta di contrasto. La traduzione italiana solitamente usata è: superamento, un passare oltre che conserva lo stato, o la condizione, antecedente. È però improbabile che Freud usi questo concetto nei termini hegelo-marxiani. La ragione, a mio avviso, non è la mancanza di interesse di Freud per Hegel, ma un’altra. Nell’Aufhebung – il superamento dialettico – la contraddizione viene risolta in un’istanza superiore, tipicamente: tesi – antitesi – sintesi. È questo, a torto o a ragione, il carattere illuminista del cammino dello Spirito hegeliano che in Freud – che non è un filosofo, ma un clinico – non può funzionare. 

Freud scrive a proposito del sistema inconscio, in un testo a esso dedicato del 1915, che il sintomo è formazione compromissoria. Freud non nega la possibilità dell’Aufhebung, intesa come superamento dialettico, ma è evidente come ciò non accada nel sintomo. Il sintomo è infatti permanenza di due o più istanze affettive tra loro contrastanti, irruzione nell’esistenza di qualcosa di insuperabile; una Besetzung – questo il termine usato da Freud e tradotto con “investimento” –, occupazione militare di un territorio estraneo. 

Potremmo dire che questa è la differenza tra l’idea di alienazione in Marx, l’espropriazione dei mezzi di produzione dalla forza-lavoro, e l’alienazione in psicoanalisi, ciò che Julia Kristeva ha definito nel titolo di una sua opera: Stranieri a se stessi. Qui nasce la questione clinica, in questa ostinazione del sintomo, in questo mancato superamento dialettico, questa permanenza dentro la differenza.

Ma l’elemento più sorprendente nella traduzione del testo da parte di Barale e Hennemann riguarda il termine Erraten, che nel testo inglese è reso con to make out e in quello italiano con “scoprire”. In questo testo invece Erraten è, correttamente e sorprendentemente: “indovinare”. Nel paragonare il lavoro dell’analista a quello dell’archeologo, Freud mette in luce la differenza, che consiste nella difficoltà legata ai materiali emergenti dal colloquio terapeutico: sogni, frammenti di memoria e condizioni del transfert, che impediscono il completamento dell’opera. O forse rendono l’opera di ricostruzione impossibile perché ogni emergenza è costitutivamente anche una copertura. Insomma l’indovinare freudiano sembra rinviare a una vera e propria archeologia della relazione clinica. 

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Barale sottolinea che Freud ricorda “una cosa che dovrebbe essere ovvia (e ormai lo è): all’analisi partecipano entrambi i suoi protagonisti: il paziente e l’analista, ognuno dei quali ci mette del suo.

Per cercare di colmare in qualche modo le lacune di quei resti incerti «dar forma a questa materia grezza, per farla diventare ciò che auspichiamo», all’analista non resta che esercitare quella che Musatti chiamò la sua «fantasia creatrice, guidata dal suo inconscio»: «egli deve, scrive Freud, indovinare o, per meglio dire, costruire»”.

Si tratta, allora, ancora di Deutung (interpretazione)? Oppure le Konstruktionen (le costruzioni) sono altro? 

Spesso il lavoro onirico, e il lavoro dell’inconscio, sono stati ridotti a due meccanismi: la condensazione e lo spostamento; ma, come osservato sempre in nota del testo di Barale, il lavoro onirico è deformazione e, in qualche modo, si mostra nella sovradeterminazione: a ogni elemento del sogno corrispondono più pensieri e a ogni pensiero sul sogno, più elementi onirici. Questa deformazione mostra la morfogenesi di una singolare degenerazione, irriducibile a qualsiasi modello lineare di riduzione bi-univoca. Barale osserva allora come l’autore da prendere in considerazione sia Charles Sanders Peirce, che nell’introdurre tre diversi modi dell’inferenza – la deduzione, l’induzione e l’abduzione – amplifica l’interpretazione. È un tema che affronta anche un Michel Foucault ventottenne nello scritto introduttivo a Sogno ed esistenza di Ludwing Binswanger. Potremmo definire la questione così: se il sintomo è la traccia emergente dalla contingenza e il simbolico è la Legge dei quadri diagnostici, ciò che la psicoanalisi rischia di lasciare indietro è il dominio immaginario, semiotico. 

La mia prima didatta in psicoterapia, quarant’anni fa, Gabriela Gaspari, aveva una formazione gruppo-analitica. Fu lei a indicarmi Costruzioni nell’analisi come opera fondamentale nel pensiero di Freud. Costruzioni nell’analisi irrompe nel silenzio del setting analitico, costringe il terapeuta a parlare, a intervenire, a proporre al paziente una via d’uscita, dal lugubre, luttuoso e silenzioso setting del lettino; rompe con l’infallibilità dell’analisi e dei suoi dogmi. Propone un dominio conoscitivo che non possiede una verità al di fuori dell’incontro tra l’inconscio dell’analista e quello del soggetto che frequenta la terapia, quanto Christopher Bollas ha chiamato “coppia freudiana”. C’è una verità terza, che non corrisponde al sintomo del paziente né al sapere astratto del terapeuta, una terzità (thirdness) irriducibile all’univocità. 

Un secondo aspetto che emerge da Costruzioni, che in un certo senso sono sempre co-costruzioni, è l’intuizione dell’analista, fenomeno a cui Barale fa cenno nel suo scritto. Il terapeuta, nell’indovinare, deve incontrare il consenso del paziente, avvicinarsi il più possibile alla storia dell’altro; direi che può usare quello stile indiretto libero che caratterizza anche il lavoro dello scrittore, o quell’immagine soggettiva libera, che caratterizza il lavoro del regista cinematografico, di cui scrivono rispettivamente Pierpaolo Pasolini in Empirismo eretico e Gilles Deleuze in Immagine tempo. Qui Freud sembra vicino a Henri Bergson e al suo concetto di durata. Insomma la relazione analitica, in Costruzioni nell’analisi, diventa una relazione costruttivista che crea emergenze surreali, che stanno sopra la realtà, almeno sopra la visione ingenua della realtà come corrispondenza tra le parole e le cose.

In Analisi terminabile e interminabile, scritto sempre nel 1937, Freud ricorda l’obiezione di fronte a cui lo psicoanalista si trova quando affronta il problema della resistenza del paziente: “testa io vinco, croce tu perdi”. È l’idea paradossale dell’infallibilità dell’analisi. Non dell’analista, che in fasi di impasse, o quand’anche si dovesse sentire troppo certo delle sue convinzioni cliniche, sarebbe comunque sottoposto alla supervisione di un collega; ma dell’analisi. Su questo tema – se l’analizzante nega, allora afferma – la psicoanalisi mostra una pretesa di universalità che la indebolisce, come nell’immagine del gigante con i piedi d’argilla. 

Il caso clinico di Dora è paradigmatico dei limiti dell’interpretazione. Dora – la giovane Ida Bauer – presenta i classici sintomi dell’isteria, così come descritti a cavallo tra i due secoli d’inizio della pratica clinica di Freud: fine Ottocento, inizio Novecento. Il sintomo che sembra presentare Dora è bolo isterico, che produce eccessi salivari – scialorrea – difficoltà nell’articolazione fonetica e forse qualche accesso di vomito. La paziente racconta all’analista le molestie sessuali che riceve da parte di un amico del padre, il signor K., Freud, a differenza del padre di Dora, le crede, ma interpreta il sintomo di Dora come un conflitto tra le premesse morali della giovane – il Super-Ego – e il desiderio sessuale inconscio risvegliato dalle molestie di K.. Dora rifiuta l’interpretazione e, di fronte all’insistenza di Freud, abbandona l’analisi. Il caso Dora fu trattato tempo fa in maniera esaustiva da Michael Billig in L’inconscio freudiano, per UTET. 

La principale critica a Freud, riguardo a Dora, e non solo, fu l’eccesso di interpretazione e la scarsa attenzione al transfert, ossia alla creazione della relazione terapeutica, tema caro a Sandor Ferenczi, il principale allievo di Freud, che, per molti anni, non godette di stima presso l’internazionale psicoanalitica.

In Costruzioni nell’analisi, Freud oscilla, non è più così sicuro così come lo era stato nel trattamento del caso Dora.

Compiuti gli ottant’anni, e dopo la morte prematura di Ferenczi nel 1933, Freud sembra riavvicinarsi a un modo di fare psicoterapia fondato sulla co-costruzione, la curiosità terapeutica e un maggiore intervento dell’analista in seduta. Insomma, se l’inconscio possiede il privilegio di non riconoscere la negazione – come il padre della psicoanalisi ha scritto in numerose occasioni – da ciò non si evince necessariamente che la negazione del paziente significhi affermazione. La questione è complessa. 

Che significa tutto ciò? Che Freud assume la questione della relazione terapeutica e abbandona la Deutung (l’interpretazione)? Forse no, ma certo l’interpretazione non è più quella di prima, perde lo statuto di supposto sapere separato, da condividere tra terapeuti esperti, e acquista il privilegio di diventare conversazione terapeutica. Ma forse Freud, a differenza dei suoi epigoni che hanno creato il dogma, lo ha sempre fatto, come mostrano i verbali delle sedute di Ernst Blum nel 1922, raccolti nel libro di Manfred Pohlen, In analisi con Freud pubblicati da Bollati nel 2009. 

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TAGGED: Sigmund Freud