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“Com’è curioso, com’è bizzarro!”
Chi dovesse passare per Parigi, non manchi di andare presso il teatro de la Huchette, nell’omonima via dietro Boulevard Saint-Michel. Là vengono messe in scena, da una quantità d’anni, due opere di Eugène Ionesco: La lezione e La cantatrice calva. In La cantatrice calva, tra l’altro, accade l’incontro tra un uomo e una donna inglesi. I due giungono presso un appartamento contemporaneamente e si siedono, uno di fronte all’altra, in attesa che i loro ospiti vengano ad accoglierli. L’uomo si rivolge alla signora che gli sta di fronte: “Mi scusi signora, ma, mi sembra, se non sbaglio, di avervi incontrato da qualche parte”, lei prontamente risponde: “Anche a me” e – dopo uno scambio di oltre trenta turni di conversazione – i due scoprono pian piano – in inglese si dice step by step – di essere moglie e marito e di avere una figlia di due anni, di nome Alice, in comune.
In quasi ogni turno di conversazione, man mano che scoprono di essere originari di Manchester, di essersi trasferiti a Londra di recente, di avere fatto il viaggio sullo stesso treno, nello stesso vagone, lo stesso giorno, di aver preso casa presso lo stesso indirizzo, allo stesso piano, lo stesso appartamento, di dormire nelle stessa camera, sullo stesso letto, di avere una figlia con lo stesso nome, la stessa età e gli stessi occhi; finalmente si riconoscono: “Elisabeth ti ho ritrovato!”, “Donald sei tu mio caro!”.
Mentre si scambiano le battute che definiscono ogni strana coincidenza che li porta a riscoprire che sono sposati – essendo Elisabeth e Donald moglie e marito – ripetono: “Com’è curioso, com’è bizzarro!”.
Il sarcasmo di Ionesco riguarda il supposto senso di curiosità dell’Englishness: il procedere nei ragionamenti con gran cautela, senza mai dar nulla per scontato, il cui correlato è: la memoria è una convenzione procedurale il cui supporto hardware – il cervello – è presupposto metafisico (esiste il cervello?).
Ma c’è di più, per i coniugi Martin, curiosità e bizzarria hanno la stessa valenza. Essere curiosi è essere bizzarri. Non è forse questa la caratteristica di certe professioni? Quali? Ho un’amica con cui ci scambiamo impressioni, lei è scrittrice di professione e mi invia, di tanto in tanto, testi in cui racconta di bizzarri personaggi, mi chiede se il racconto abbia plausibilità clinica, se le condotte strane dei suoi personaggi possano essere inquadrate in qualche patologia mentale. Io le rispondo sempre: né sì, né no. Le faccio altre domande, e alla fine ne viene fuori una trama. Ma non è così anche in terapia? A volte, sempre più spesso, le persone vengono in seduta per essere inquadrate, per darci il potere di esperti, di soggetti supposti sapere. Pensano che la nostra professionalità consista nell’avere una sorta di sfera di cristallo scientifica.
Ma noi, non tutti, ma quelli che credono nella psicoterapia, continuiamo come i coniugi Martin a non innamorarci delle nostre ipotesi cliniche, a non credere che gli affetti e i sentimenti siano espressione di un soggetto, a credere che i soggetti emergano dalle espressioni, dalle viseità, che, insomma, la soggettivazione sia sempre performativa, come sostiene Judith Butler nel libro Parole che provocano, edito da Raffaello Cortina.
Qualcuno dirà: ma che tipo di professionalità, che tipo di etica può emergere da questa posizione? Carol Gilligan, molti anni fa, scrisse un libro il cui titolo in inglese è: In A Different Voice, tradotto da Feltrinelli col titolo: Con voce di donna. Io l’avrei tradotto: “la voce della differenza”, o addirittura “la voce della dissidenza”, benché non si possa negare che questa voce emerga dal femminino.
Da dove parte la ricerca di Gilligan? Si tratta della revisione di un’altra ricerca svolta anni prima da Lawrence Kohlberg intorno allo sviluppo morale del bambino. Kohlberg inventa dilemmi da sottoporre ai bambini e “scopre” che dopo i 13 anni i bambini raggiungono un modello morale post-convenzionale, analogo al pensiero etico propugnato da Immanuel Kant nella Critica della Ragion Pratica. Questo modo di pensare, secondo Kohlberg, corrisponde a uno sviluppo morale avanzato e maturo. Uno di questi dilemmi morali, il più noto, è il dilemma di Heinz: Heinz è sposato a una donna che ha una malattia grave. Sa che un farmacista possiede la medicina che la può guarire, ci si reca, ma il farmacista che la possiede gli chiede una somma di denaro che Heinz non ha. Durante la notte, Heinz si reca di nascosto presso la farmacia e ruba la medicina.
Questo il racconto, la domanda ai tredicenni è: “Heinz ha fatto bene o male a rubare la medicina?”. Secondo Kohlberg, mentre a 10-11 anni sono pochi i bambini che rispondono che Heinz ha fatto bene, a 13 anni invece la maggioranza dei bambini risponde che ha fatto bene perché rubare per salvare una vita umana è giustificabile sul piano dei valori morali.
I bambini. E le bambine? Gilligan ripete la stessa ricerca con le bambine e scopre che le bambine discutono l’impianto di ricerca di Kohlberg. Si domandano: ma che tipo di dilemma è mai questo? Come fa Heinz a entrare di notte in una farmacia? Non scattano gli allarmi? E poi, qualora la faccia franca, chi ci dice che la moglie guarirà? La medicina ha una sua complessità, che malattia ha la moglie di Heinz che guarisce solo con la medicina di quel farmacista? Non ci sono altri farmacisti, altri farmaci? E i medici? E fare una colletta? Heinz non ha amici? Il sistema sanitario non copre le spese?
Insomma i maschietti, tranne poche eccezioni, ragionano in astratto, si fermano sui principi; le femmine, tranne poche eccezioni, ragionano in concreto, esercitano la curiosità. Possiamo dire che la curiosità è terapeutica? Forse i coniugi Martin esagerano, ma un terapeuta non dà nulla per scontato, la sua professionalità si gioca dentro la dimensione dell’ignoranza, la curiosità alimenta il desiderio perché, come il desiderio, si mostra nell’assenza di qualcosa che si manifesterà. Chi disse “dove si era io avverrò”? Ho avuto, tra i miei maestri Gianfranco Cecchin, che sosteneva che la psicoterapia non è altro che atteggiamento di curiosità. Ho visto, benché raramente, qualcuno che, con arroganza, lo insolentiva per questo atteggiamento imperfetto; io so di essere suo allievo perché di tanto in tanto accade anche a me.
Ma oggi la professionalità si misura in termini di risultati promessi, raggiunti a priori, prima di cominciare e ci sono sempre più persone che si aspettano il risultato che sperano senza entrare nella relazione terapeutica, senza sentirsi soggetti interpellati dalla terapia. Nel romanzo di Stefano Massini L’interpretazione dei sogni, uscito per Mondadori nel 2017 – che poi fu pièce teatrale con Fabrizio Gifuni – si immagina una coppia, direi l’opposto dei Martin di La cantatrice calva. In quella coppia, il marito, Oskar K., conduce la moglie dal dottor Freud perché lei sogna, dice che sotto un certo trattamento farmacologico la moglie aveva temporaneamente smesso questo brutto vizio di sognare, ma che poi ha ripreso. Spera che il dottor Freud le tolga questo sintomo, ma ovviamente Freud prova a contraddirlo e cerca di spiegare l’importanza dei sogni per la vita. L’uomo si alza indignato e alla domanda da parte del padre della psicoanalisi: “ma, scusi, lei sogna?”, l’uomo risponde con orgoglio “io non ho mai sognato!”
Forse siamo di fronte a una vera e propria mutazione antropologica e l’osservatorio clinico è solo un punto di vista prospettico sul mondo, ma quel che sta accadendo nel mondo sembra confermare questo risorgere di discriminazioni, omicidi, guerre, e altre nefandezze. Forse la frequenza presso le sedute psicoterapeutiche o psicoanalitiche – il desiderio di curiosità verso se stessi e verso l’emergenza terapeutica – sta scomparendo e si diffonde il bisogno di consigli, prescrizioni, protocolli comportamentali, robotizzazioni, assoggettamenti. Credo che la scomparsa della curiosità verso la cura di sé, se così sarà, sarà un grande perdita di umanità, vale la pena di ripensarci e di riumanizzare le cure.