L’Io era assente

11 Aprile 2024

Patologie, il breve testo di Antonella Moscati uscito per la collana storie di Quodlibet, si apre con un ironico omaggio al padre, “medico non medico”, esperto di dermosifilide – dermosifiloiatra, dermosifilologo, che, erroneamente, si autodefinisce dermosifilopatico – in un mondo che sta cambiando: il mondo attraverso cui abbiamo trascorso l’infanzia e l’adolescenza, che ha sostituito il buon senso romantico dell’igiene con la più sicura epidemiologia. 

Antonella Moscati racconta la propria storia familiare attraverso la nomenclatura medica, sanitaria e igienica: vi si descrivono scene della quotidianità di una famiglia, con la madre impegnata a tenere insieme le relazioni, il padre, supposto medico, poco accreditato dentro e fuori dalle relazioni familiari, e infine le sorelle, apprensive. Nomenclatura medica ma anche nomenclatura casalinga che riguarda comunque la salute, come l’alimentazione, dove ciò che conta è la sostanza, dalla quale vengono escluse verdura e frutta, prediletta dall’autrice, a vantaggio di carne, pesce e pasta.

Il capo famiglia, nel racconto, combatte il batterio in epoca antibiotica, ma – in un certo senso – nega o ripudia il virus. Si può leggere questa prima parte dell’opera come un glossario sarcastico, a tratti grottesco, della vita quotidiana di una famiglia di “uomini di medicina” – il padre, lo zio, il cognato – e di donne, l’autrice, la madre, le sorelle, che si confrontano, si interessano – tutte a leggere la sera, a letto, il Manuale medico di diagnostica e terapia Roversi – ma che esercitano una doverosa scepsi nei confronti dell’ossessività medica paterna. Il Roversi sembra essere, nel racconto, la bibbia familiare, pietra miliare della medicina, così come la interpreta il padre. Ma, qui e là nel testo, emerge anche un altro tratto paterno, l’affezione da qualche disordine psichico, che lo porta a essere ossessivo riguardo ad alcune malattie o sintomatologie e del tutto negligente riguardo ad altre – come spesso capita agli ossessivi.

Il testo scorre sotto gli occhi del lettore, rapito dal linguaggio. L’autrice usa il metodo dello straniero, coniato da Alfred Schutz e ripreso dall’etno-metodologia: guardare il mondo come fossi un estraneo, un marziano, che, venendo da fuori, rende il dato-per-scontato, strano e singolare. 

Insomma, bisogna leggerlo, questo testo, per sentirsi a casa e per sentire il clima di uno strano paese, l’Italia, in una particolare epoca storica, il secondo dopoguerra. Personalmente, benché cresciuto e allevato da una famiglia nel Nord, ho riconosciuto gli stessi discorsi, gli stessi umori, le stesse classificazioni, benché in famiglia non ci fossero medici. Del resto, in quell’epoca, i medici erano comunque frequentemente dentro casa, si chiamavano medici condotti perché si muovevano dall’ambulatorio, visitavano i pazienti e facevano tutti quei discorsi che Moscati rievoca nel suo racconto. Era un sapere diverso, meno rigoroso, più fantasioso. Oggi che questo mondo se n’è andato definitivamente, non possiamo che ricordarlo con nostalgia, ed è in effetti la nostalgia, assieme all’ironia, l’altra protagonista della prima parte di Patologie: una meravigliosa ironia nostalgica. 

La seconda parte del libro è un salto: Patologie diviene un trattato di neuro-filosofia, a partire da un attacco di amnesia globale transitoria, attraversato dall’autrice. L’amnesia globale transitoria consiste in un attacco repentino alla memoria, somiglia all’ischemia transitoria ma in assenza di danni focali. 

La memoria ha molti aspetti differenti, è molteplice. Può essere retrograda, quando si ricordano tempi lontani, o anterograda, quando si ricorda ciò che sta accadendo ora. C’è una memoria episodica, il ricordo di eventi del passato, e una memoria semantica, che permette di riconoscere il significato delle cose. Definiamo una memoria prassica, che permette di suonare il piano anche dopo anni di astinenza dall’esercizio, e una memoria implicita, che permette di ricordare ciò che si dichiara di non ricordare. Vari organi del sistema nervoso, e in particolare della corteccia, concorrono, in maniera complessa, alla formazione della memoria. Ci sono inoltre aree di codifica e decodifica tra loro separate: quanto ricordiamo non è mai precisamente ciò che è accaduto; per ogni decodifica dell’episodio che racconto, nel mio racconto ci sono nuove codifiche che modificano la situazione e le circostanze originarie.

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Abbiamo creato la scrittura e, prima della scrittura, i cliché, le rime e la metrica per sovra-codificare quanto accaduto, creare una seconda memoria, come insegna Platone nel Fedro. Ma la memoria ha a che fare con l’immaginario. Per questa ragione ognuno di noi si trova sovente – o forse sempre – di fronte a sensazioni di déjà vu, oppure a quel fenomeno definito da Daniel Schacter nei termini di falsa memoria. Ogni volta che ricordiamo qualcosa, contemporaneamente, immaginiamo qualcosa che si discosta dalla cosa che stiamo ricordando. Insomma: siamo un po’ autori dei nostri ricordi, così come quando traduciamo un testo, siamo un po’ co-autori del testo che abbiamo tradotto.

La questione posta da Antonella Moscati riguarda il senso dell’identità, la questione dell’Io. L’autrice parte da una frase di Kant, e scrive “«Das Ich denke muss alle meine Vorstellungen begleiten können» e cioè: «L’io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni». La ripetevo fra me e me in italiano e in tedesco questa frase, mentre fissavo la parete bianca dove era appeso, in questo paese dove la laicità non esiste, un crocifisso”. Moscati fa un salto iperbolico: dal lessico – benché medico, sanitario e paramedico – familiare, per citare l’espressione di Natalia Ginzburg, al lessico filosofico, filtrato però dall’esperienza di un’assenza, un disturbo neurologico o, per dirla con Cartesio, un attacco alla “ghiandola pineale” che connette la res cogitans con la res extensa. 

Che cos’è dunque l’Io, si domanda in un certo senso Moscati? “Ho risposto in modo adeguato al mio nome, quando mi è stato chiesto, ma l’Io era assente”. 

La questione che pone Moscati è filosofica, ma ha una componente neurologica specifica, si tratta dell’avvedersi, che i filosofi, sulla scorta di Leibnitz, chiamano appercezione. Quando percepisco, nel mio percepire c’è anche la coscienza di essere là a percepire. Moscati traduce una frase di Leibnitz: “La percezione della luce o del colore di cui ci avvediamo (dont nous nous appercevons) è composta, per esempio, da una quantità di piccole percezioni delle quali non ci avvediamo (nous ne nous appercevons pas) e un suono (forse un rumore?) di cui abbiamo percezione, ma al quale non prestiamo attenzione, diventa appercepibile con una piccola addizione, con un piccolo incremento”. Ci vuole dunque un’addizione, un piccolo incremento, così piccolo da restare, a sua volta, sotto la soglia della consapevolezza. Carlo Emilio Gadda ha chiamato questo fenomeno “cognizione”. William Weaver, traduttore inglese di molti scrittori italiani, ha tradotto “aquaintance”, o meglio “to be aquainted”, che non è propriamente consapevolezza, forse ha più a che fare con l’abitudine, l’habitus. Forse, come suggerisce David Hume, l’io non è che l’abitudine alla ripetizione. Per questo la perdita dell’io, come è accaduto ad Antonella Moscati, è la perdita di un mondo, perché è la perdita di un’abitudine. Ma da dove viene l’habitus dell’io? Viene da quel piccolo incremento, quella piccola addizione che ci rende coscienti di percepire ciò che percepiamo: l’immaginazione. Le piccole percezioni di cui non ci avvediamo, vengono raccolte, poste sotto l’attenzione, da un’istanza immaginaria. Forse l’inconscio è una relazione tra il caos dell’infinità priva di senso e l’unificazione di questo caos nel senso: caosmos. La quidditas che vediamo, quando guardiamo un cesto, o una mela, quando le riconosciamo, come il suono della voce di Clemens, il compagno di Antonella, dipende dal nostro sistema nervoso. Forse per questo Emily Dickinson aveva composto i versi che seguono, dei quali tento una traduzione a misura della filosofia di Antonella Moscati:

Il cervello — è più grande del cielo —
perché — mettili fianco a fianco —
l’uno l’altro conterrà
facilmente — e anche te

Il cervello è più profondo del mare —
perché — se li tieni — blu su blu —
l’uno l’altro assorbirà
come spugna col secchio fa

Il cervello è proprio il peso di Dio —
perché — alzali — libbra su libbra —
ed essi differiranno — semmai —
come suono da sillaba —

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