Speciale
La generazione peggiore
Quando il contratto non c’è, i topi ballano.
Stanno tutti in fila davanti al nuovo Trony di Ponte Milvio, i topi, fanno rumore puntando al formaggio, sgomitano, rosicchiano altri dieci centimetri verso la linea gialla, perché quella è la cosa più vicina alla pensione a cui possono aspirare: è la dignità dell’arrivo, il conseguimento del legittimo risarcimento per tutta quella fatica fatta. D’altra parte si sono presentati lì alle cinque del mattino e quando hanno girato l’angolo si sono accorti di non essere né i primi né i soli. Hanno dormito in macchina, hanno accampato tende, si sono portati i fornelli da campo e sul farsi dell’alba hanno riscaldato fette biscottate col burro: se la meritano la linea gialla, se lo meritano di guardare negli occhi l’addetto alla fila che ne fa entrare due o quattro alla volta. Sono anche loro lavoratori, tutto sommato: devono arrivare a timbrare il cartellino per tempo e devono riuscirci da soli. Non si possono dare il cambio, altrimenti non vale: a uno che ha provato la carta della furbizia hanno urlato tre vaffanculo e hanno rotto gli incisivi centrali. L’addetto alla fila non ha fatto una mossa, salvo alzare un cartello scritto a mano con l’elenco di tutti i prodotti in esaurimento: loro non sono pagati per provare pietà. “Tanto io mi faccio dare un finanziamento quando mi pare!”, zufola nel suo diastema dentale nuovo di zecca il malcapitato, mentre le risate si alzano più veloci e prorompenti di un’erezione da Viagra. Ammiccano agli obiettivi dei fotografi e fanno segno di “vittoria” con l’indice e il medio perché la linea gialla è vicina: sanno a malapena compilare un curriculum in lingua italiana, ma per comparire in una gallery di Repubblica darebbero il fritto; va bene, non conosceranno mai l’effetto di una tredicesima in busta paga, ma di quello non hanno responsabilità, perché la responsabilità è del governo e dei politici brutti e cattivi, invece se finiscono gli iPhone 4 prima del tempo, con quale cazzo di faccia si ripresenteranno a casa? Ai figli come lo spiegheranno?
Sono la peggiore generazione della storia recente, si vestono male e mangiano peggio, non hanno spirito critico, venerano Roberto Saviano e respingono Aldo Busi, perché i narcotici sono meglio dei froci, leggono “Internazionale” perché vogliono farsi un’idea del mondo che conta e sono cattolici praticanti perché Dio è meglio di niente, poi aspettano la notte e sgattaiolano fuori dal letto, si portano con l’auto lungo la via Salaria per un ribollire di Spirito Santo: l’indomani qualcuno alla moglie dirà buona la cena, ti stanno bene i capelli, e davanti al tg farà segno di no con la testa, perché il politico all’opposizione è stato beccato con la stagista. Hanno lavorato quaranta minuti in vita loro e si sono presi pure il lusso di arrivare in ritardo: eccola qui, la generazione più povera e frustrata di sempre. Rivendicano diritti da tutte le parti e se la prendono col controllore dell’autobus quando vengono sorpresi senza biglietto, però i cinquanta euro per un pompino li trovano sempre. Piove, governo ladro, sussurrano mentre guardano con un’invidia ancestrale chi sta uscendo dall’edificio con le buste piene e i telefonini tenuti tra il mento e la spalla: “Ce l’ho fatta, amore! Sì, l’ho già attivato! Funziona, torno a casa!”, li sentono dire. Sulle teste si riversano mantelle colorate come punte di pastelli e il ticchettio degli sms viene sostituito da quello delle gocce di pioggia: in realtà non è nemmeno giusto parlare di “casa”. Sono stanze affittate che condividono con coetanei fuori corso, cioè il massimo che si sono riusciti a permettere per offrire un loculo degno all’iMac comprato l’anno prima all’inaugurazione di Euronics (facevano tre euro di sconto per ogni mille ben spesi). Dopo cena rovistano con le dita dentro vecchie confezioni di latta “Fisherman’s Friend” e col contenuto modificano sigarette: d’altra parte devono reagire in qualche modo all’aumento dell’iva e se la droga non è tassata mica la colpa è la loro.
L’addetto alla fila non muta espressione mentre i più stanchi chiedono pietà con la piegatura degli occhi: ostentano compagne incinte e osteoporosi. Qualcuno ha seguito un corso per corrispondenza per imparare a zoppicare. Quando anche i televisori LED ultrascontati vengono dichiarati esauriti si solleva un moto di pena che fa tremare l’asfalto. Si sente urlare vergogna e un lancio di oggetti si sostituisce alla pioggia: c’è chi parla di raccomandazioni, di soliti noti, di conventicola, di cricca. Ci si insulta a vicenda, seppure a debita distanza: si accusano i giornalisti di non esserci mai quando ce n’è veramente bisogno. Improvvisamente si scoprono di un umore talmente nero che nemmeno Fiorello li farebbe più ridere. Cercano una frase di Proust che descriva bene la situazione, ma hanno lasciato troppo presto l’università e comunque ai classici preferiscono l’ultimo di Ammaniti. Gli smartphone in comodato d’uso si fanno roventi mentre i più pronti aggiornano i loro status su Facebook: vogliono ottenere un riscontro al loro dissenso, ma sono solo le undici di mattina e tutto il resto dei loro contatti sta lavorando.