Da oggi «Riga» 39: Maurizio Cattelan / Bidibibodibibu, ovvero i sogni hanno gambe lunghissime
Sono arrivata negli Stati Uniti poco dopo Maurizio Cattelan, che si è trasferito a New York nei primi anni Novanta. Ho abitato per qualche anno dalla parte opposta, a Los Angeles, e per poco più di sei mesi a Brooklyn, a Park Slope più precisamente, in quella parte di città dove scrittori e artisti si stavano raccogliendo via via in una piccola comunità, anche se all’epoca io non lo sapevo o non me ne rendevo conto. Avremmo potuto incontrarci, eravamo entrambi giovani con ambizioni artistiche, ma non è mai successo e d’altra parte non so se saremmo riusciti a parlarci, a risultarci simpatici abbastanza da aver voglia di andare oltre il riconoscimento della reciproca italianità, il che, si sa, può ridursi a ben poco una volta all’estero.
Comunque sia, ho visto una sua opera per la prima volta nell’estate del 1997 alla Biennale di Venezia: i piccioni appollaiati in alto su cavi tesi, lo sguardo dei visitatori che ruotava penosamente sul collo verso l’alto e lì indugiava per assicurarsi che non si muovessero, cioè che fossero piccioni morti e imbalsamati, il titolo che era una graziosa presa in giro, ma anche una geniale spiegazione: Turisti.
Eravamo nella città dei turisti e dei piccioni, ci muovevamo come fiumi fangosi nelle anse della Biennale, come i turisti per le calli di Venezia, senza un perché ma con l’avidità di consumare, i marmi antichi, le finestre occhiute, i riflessi d’acqua, le vedute pittoresche. Chi dice turismo dice consumismo, si sa. Però mi sentii particolarmente colpita da quell’installazione perché ne riportai un senso di perdita che andava oltre il vellicamento intellettuale tipico dell’arte contemporanea, che spesso non crede all’emozione estetica e punta dritta alla presa per i fondelli, alla terapia d’urto sul cervello dello spettatore che dovrebbe essere grato all’artista di averlo risvegliato dal suo torpore.
Io non mi sentivo intorpidita prima di vedere centinaia di pennuti imbalsamati sulla mia testa mentre, dopo, provavo una malinconia indefinita. Vissi un altro anno negli Stati Uniti, di tanto in tanto ripensavo ai piccioni, quelli vivi, voraci e scacazzanti che invadono le piazze italiane, e quelli immobili di Cattelan, che chissà adesso dove erano finiti, in quale magazzino, in quali e quanti scatoloni. Ci pensavo soprattutto quando andavo nei parchi, ma anche nel campus di Ucla dove frotte di scoiattoli, aggressivi quanto i piccioni perché abituati a essere nutriti, assalivano qualsiasi umano, senza pudore e senza paura. Spuntavano dai cespugli e dai cassonetti della spazzatura, planavano dai rami degli alberi, sfrecciavano nei viottoli asfaltati e immancabilmente ti si paravano davanti: i denti in movimento, gli occhi feroci, le code gonfie e ricurve. Altro che gli adorabili Chip e Chop di Disney. Così quando mi capitò, in seguito, di vedere riprodotta in un catalogo l’opera Bidibibodibibu – molto in sintesi uno scoiattolo suicidato e seduto al tavolo di una cucina – pensai che anche lui doveva essere stato circondato dai terribili roditori statunitensi a Central Park o in qualsiasi altro posto di New York, perché lì gli squirrel regnano sovrani, almeno quanto i ratti. Come i piccioni nelle piazze italiane. Animali che fanno così tanto parte del paesaggio urbano che quando non ci sono ne noti l’assenza. Forse mi ero immalinconita a vedere i pennuti alla Biennale perché erano la reliquia di una cosa che negli Stati Uniti non c’era – le piazze italiane –, e adesso che non vivevo più negli Stati Uniti m’immalinconivo a vedere il roditore che si era sparato, lasciando un bicchiere vuoto sul piano di una cucina di formica, una sedia vuota difronte alla sua, un acquaio in ceramica bianca ingombro di stoviglie sporche dietro di lui, un boiler appeso alla parete.
Ma Bidibibodibibu affondava a uno strato ulteriore della malinconia: era proprio perdita e delusione. Immaginavo lo scoiattolo correre fuori dalla sua cucina economica – quante ne avevo viste così nella mia infanzia provinciale – avventurarsi pieno di speranze nella grande città e poi rientrare ogni sera più desolato, più incerto, fino a quando non aveva preso la decisione di spararsi nel mezzo della sua desolazione, per la quale nemmeno la magica formula della fata Smemorina avrebbe potuto fare niente: quella cucina non si sarebbe mai trasformata in un oggetto di design, e lui sarebbe rimasto un roditore, poco più di un ratto. Anche qui il titolo non è poca parte dell’opera, d’altronde Cattelan quando parla delle sue opere si riferisce sempre a idee, talora a immagini, mai a oggetti, e un’idea è prima di tutto una sintesi linguistica di ambiti dell’esperienza diversi.
Bidibibodibibu è meno sarcastica di Turisti e meno epica del cavallo, sempre tassidermizzato, appeso al castello di Rivoli e intitolato Novecento, e nonostante il riferimento nel titolo alla formula magica, pronunciata dalla fata nella Cenerentola disneyana, non è nemmeno un’opera pop. Assomiglia piuttosto a un brutto sogno, di quelli in cui un oggetto familiare, la cucina in formica che furoreggiava nelle case proletarie negli anni Sessanta e Settanta e un’immagine primaria, un animale che è sempre un nostro doppio, un nostro possibile altro, si combinano in una logica beffarda. Incantesimo rotto o fasullo, perdita di un sogno. Ma i sogni si sa, e l’artista lo sa meglio di tutti, hanno le gambe lunghissime.
C’è tanta morte in tutto quello che fa Cattelan, anche adesso che dice di aver smesso di utilizzare gli animali morti, ma nel frattempo ha creato la tomba di un cane, e nella copertina della sua Autobiografia non autorizzata (Francesco Bonami, Mondadori 2011) si è fatto ritrarre di profilo in uno scatto di Pierpaolo Ferrari, con una lapide sottobraccio che porta incisa la scritta: “The end”. La posa e il piglio non sono quelli di chi si stia avviando verso la propria tomba, piuttosto quelli di un surfista che corre con la tavola verso le onde, e non stupisce visto che quello del surf e della surface è un ambito metaforico ricorrente nelle interviste rilasciate dall’artista, ed è un bene che anche sulle cose ultime che lo riguardano mantenga la consueta ironia.
Si possono dare molte spiegazioni, e moltissime ne sono già state date da critici, galleristi, opinionisti, biografi, sul perché di tanta morte. A essere molto spiccioli: è un tema universale e si può stare sicuri che prima o poi avrà successo, infatti a Cattelan il successo non è proprio mancato. Solo che un conto è vederla nei musei e nelle gallerie, la morte, un conto è mettersela in casa. Ad esempio i piccioni sui tralicci si sono rivisti di recente alla mostra nel palazzo del Quirinale a Roma, “Da io a noi. La città senza confini”, e facevano sempre il loro effetto. Al Quirinale. Ma in una casa privata, che senso avrebbero? Avrebbero senso?
Potendomela permettere mi porterei in casa, ad esempio, Bidibibodibibu? Non lo so. Però mi sembra una domanda cruciale, che molto ha a che vedere con il senso di morte, di perdita, e con le gallerie e i musei che di questo sentimento sono collettori naturali. E con il bisogno spasmodico dell’arte contemporanea, non tutta ma quasi, di nascere e vivere musealizzata (dunque in parte già morta? O è questo un altro modo per neutralizzare la morte, introiettarla?)
Ecco, se mai incontrassi Maurizio Cattelan, sarebbe questa la domanda che vorrei fargli: hai sempre lavorato per gallerie e musei o hai mai pensato a persone in carne ed ossa che si sarebbero portate in casa le tue opere?
Non so cosa mi risponderebbe, immagino che da abile prestigiatore della superficie – “I just slide down the surface of things” è una sua affermazione – troverebbe il modo di spostare ancora una volta il piano.
Da oggi il nuovo numero della collona monografica «Riga»: Maurizio Cattelan, Quodlibet, Roma 2019. Per approfondimenti sulla collana e su questo numero consulta il sito appena rinnovato www.rigabooks.it.