INDICATIVO PRESENTE | Duecento giorni in classe / È primavera, aprite le gabbie!

16 Marzo 2019

Nelle prime ore di sole tiepido di febbraio tra gli alberi in città cominciano a canticchiare passeri e capinere. Ci siamo: sta arrivando la primavera! Le aule-bunker vengono inondate dalle 11 da un sole che all’interno diventa odioso. La fila vicino alla finestra inizia a gemere e a fare smorfie, e il docente è invitato a tirare giù le veneziane. Se ci sono. Se non sono ancora sbertucciate o scassate. Se si può, si fa, se no comincia la migrazione interna alla cella degli accaldati, che si accatastano sulle due file più interne, quella sul muro del corridoio e quella centrale. Il tutto è condito da sedie senza feltrini che stridono orrendamente e inviti a non traslocare giacche a vento e pesantissimi zaini-trolley: portatevi soltanto il libro! Se ce l’hanno. Siccome ce l’hanno uno su due allora comincia la peripatetica della cerca del compagno con libro ma solo.

 

Poi qualcuno soffoca ancora e spalanca la finestra. Allora qualcuno geme per il freddo, io chiudo la porta sul corridoio, che ho cominciato a tenere aperta da quando non ho più paura di essere spiato da colleghi malevoli che potrebbero dire «ma sai cosa ha detto Tizio in classe?».

Cresce l’evidenza della claustralità psicotica del triennio della scuola secondaria di primo grado, detta per capirci “le medie”. Dai 20 ai 25 poveretti ammassati in 36-47 metri quadrati. Quando abbiamo fatto in Geografia la densità demografica, ho fatto loro calcolare la densità demografica della classe. Quando hanno scoperto che abbiamo circa 2 metri quadrati a testa ci sono rimasti male, e io ho sorvolato sulle severissime “norme di sicurezza in caso di improvvisa evacuazione”, che ci metterebbero nella condizione di topolini con pochi secondi per salvarsi la pelle.

 

 

La primavera porta a una impennata delle “uscite didattiche”. I colleghi referenti di tale dipartimento burocratico cominciano a richiedere form compilati in cui non puoi sgarrare in ogni singola cella del modulo, che ovviamente viene fornito in Word per complicare la vita: Excel sarebbe troppo. Mi è capitato di reinviare via mail spedite a tarda sera della domenica il PDF del mio form anche tre volte, poiché avevo inavvertitamente cancellato una cella in Word. Non ho per questo tolto il saluto al collega savoiardo.

I docenti possiamo classificarli, in merito alla questione “uscita didattica” in tre categorie: quella dei veterani che sarebbero in grado di garantire ottime uscite didattiche, perché esperti nel come governare il gregge in mezzo alle fermate di tram e bus, ma che si guardano bene dallo svolgere uscite didattiche poiché sanno che esse non sono retribuite e che spetta loro trovare il collega cui affibbiare la sostituzione di un’ora in altra tua tumultuosa classe quel giorno non in uscita; quella dei docenti virtuosi che non hanno capito ancora bene che le ore di uscita non sono retribuite e che il tasso di rischio penale per qualsiasi rogna accada fuori dalle mura scolastiche sarà tutto a loro carico; quelli che svolgono il loro incarico di docenti come mummie, entrando e uscendo dalla scuola, dalle classi e dalle aule docenti senza proferir verbo (questi sono detti in codice “i Muti”).

 

Appartenendo io alla seconda categoria quest’anno ho portato in uscita didattiche più volte una mia classe facinorosa. Mi sembra ovvio che uscire dalla classe e dalla scuola per dei ragazzini di periferia che non sanno neanche bene quale sia la piazza storica centrale e che non sanno letteralmente nulla dei musei cittadini o dei cinema o dei teatri della loro città sia una cosa per loro benefica. Si deve redigere una domanda cartacea al dirigente scolastico: rassicurarlo che nelle tue ore di uscite o eri già assegnato a quella classe o ti sei trovato un collega che ti rimpiazza, e allora lei firma il form. A quel punto tu devi raccogliere i soldi per eventuali biglietti di cinema o museo, e i fogliettini di autorizzazione di ogni genitore. Se un’ora prima di uscire qualcuno non ha ancora portato i soldi o lo lasci a scuola ignorando i suoi occhioni acquosi o metti tu i soldi che mancano.

Io chiedo a tutti di mostrarmi o l’abbonamento all’azienda dei trasporti o i due biglietti per l’andata e il ritorno. Massimo stress quando alla fermata in centro devi tenere il branco lontano dai binari, mentre sghignazzano su selfie, meme, e varie scemenze su smarphone. Finora non me ne è morto nessuno. Una volta soltanto mi è preso male perché, passando per strada la moglie di un celebre calciatore, una decina di loro si è tuffata tra un bus e un jumbo tram per inseguirla e farsi il selfie con lei; essendo una ricca moglie di origini maghrebine, per loro, africani e maghrebini di origini, era fondamentale documentare il momento magico con un sorella economicamente molto fortunata.

Sui bus ci accalchiamo in mezzo ai pensionati. I ragazzi mi raccontano che i momenti più frequenti di neorazzismo avvengono appunto sui bus: i pensionati, inferociti non so bene da cosa (visto che hanno una pensione e vivono in uno dei continenti meglio messi al mondo e in un Paese non messo poi così male), non sopportano i ragazzotti e le ragazzotte; in particolare quelli di origini marocchine e africane. La mia collega ed io ci dislochiamo ai due capi del mezzo. Cerchiamo di verificare il timbro dei ticket. Io sono piuttosto chiaro con i miei: se verrete beccati da un controllore senza avere pagato il biglietto saranno cavoli vostri, io la multa non ve la pago e vi faccio venire a prendere da un vostro genitore. Il deterrente funziona abbastanza bene.

 

 

Lascio che ascoltino musica dagli smartphone per strada. Le ragazze cantano, e sono così carine! I maschi non hanno niente da cantare perché ascoltano trap con testi non cantabili e irripetibili in pubblico, oppure trap americano di cui non capiscono una parola, pur studiando inglese da svariati anni. Lascio anche che utilizzino amplificatori: ma non sui bus, e ovviamente non nei musei; se entriamo in un bar non possono mangiare il loro panino nei bar. Le ragazze in giro si fermano davanti ai negozi di intimo e di trucco. I ragazzi davanti a niente. Hanno una fame mostruosa e incessante: mangiano l’enorme panino della mamma, e poi non sazi si fanno regalare svariate orrende pattine fritte che le ragazze più facoltose acquistano nelle friggitorie su strada; a nulla vale il mio appello a tutela del loro fegato e della loro carnagione, nonché l’invito ad arginare il sovrappeso. Niente da fare. Una volta sono entrato in una pasticceria rinomata e ho comprato loro 17 baci di dama, svenandomi: ma mi hanno ringraziato tutti e mi hanno guardato con un sorriso anche i più famigerati. 

 

Fuori dalle gabbie sono carini: in particolare sui bus scherzo platealmente e ad altissima voce con i miei maghrebini e africani. Molti pensionati così si rendono conto che non sono un pericolo per loro, e addirittura qualcuno sorride. Una gentile signora, mentre stavo uscendo appeso a un mancorrente volando dietro l’ultimo tardigrado, mi ha guardato con amore e mi ha detto sorridendo «certo che è una bella fatica fare il professore!»; io, in estasi, volando già dal bus, le ho urlato «sì ma è una fatica bellissima!» La propaganda è propaganda.

 

 

Ai giardini della passata monarchia si sono messi a giocare. Non giocano mai. Hanno giocato a nascondino! Ho vinto il terrore di perderne qualcuno, e alla fine c’erano tutti. Ho proposto di giocare a fazzoletto ma si sono categoricamente rifiutati. Un vecchietto feroce con badge museale era agitatissimo perché qualcuno di loro tagliava sui praticelli vietati. Ho ribadito ai miei che dovevano correre soltanto sui vialetti ghiaiosi. Infine, il vecchietto ringhioso ha urlato che se qualcuno avesse ancora tagliato su un prato avrebbe chiamato la polizia. Uscendo gli sono passato davanti e non l’ho salutato. Stronzo.

Spesso, in qualche momento di pace, su una panchina, qualche ragazzino ti racconta cose sue. Io lo ascolto. Quando la graziosa, capricciosa, lagnosissima Huda ha scartato anche il secondo gelataio, perché voleva un cono enorme ma a un prezzo da periferia, mi sono alterato e le ho detto che aveva due opzioni: o stare senza gelato, o accettare – da me offerto – un piccolo cono di altissima qualità; ha accettato la seconda opzione, dopo un lungo giro musone per i giardini. E alla fine ha detto che il gelato era buonissimo.

 

10 marzo 2019

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