Diario di un'insegnante / Scuola. Che pesci pigliare?
Oggi in classe erano presenti solo in cinque. Cinque non è il settantacinque percento di venticinque.
Non ce la facciamo più, dice Sara, sono tutte verifiche.
"Non si sta a casa" l’ho già detto troppe volte; che "non è la via" lo abbiamo ribadito; ci abbiamo anche pensato insieme, riflettuto insieme.
Ha senso che io lo ripeta? Ha senso che dica che è sbagliato, che è importante avere fiducia nella parola e nel confronto con gli insegnanti?
Loro lo sanno già che è sbagliato, ma.
Siamo pieni anche noi adulti di cose che sappiamo, ma.
E poi Giulia sta male. La mamma e il papà vedono Giulia stare male e sanno che Giulia dovrebbe andare a scuola: saltare è la mossa meno opportuna, in un anno così in bilico, con matematica e latino sotto. Ma Giulia sta male in un modo che la mamma e il papà di Giulia, arrivati a questo punto, cosa possono fare? Possono davvero ignorare quella disperazione?
Però, mamma e papà di Giulia, non è insultare gli insegnanti che farà stare meglio vostra figlia; non è pensare che la colpa sia tutta loro, la soluzione; non è non vedere che quella disperazione non è a misura dell’ostacolo - e dunque c’è dell’altro che avrebbe dovuto esser visto - che aiuterà Giulia; non è moltiplicare le certificazioni di bisogni educativi speciali o di disturbi dell’apprendimento che risolverà magicamente l’impatto con l’imprevisto.
Quindi, ora, insieme, come risolviamo? Come affrontiamo l’incontro con il “non facile” che la scuola deve rappresentare?
Cosa vedo? Vedo insegnanti che si arroccano su verifiche che devono essere fatte e voti che bisogna avere e programmi che devono essere terminati; vedo genitori proteggere, farsi complici, spaventarsi e attaccare. Vedo un cortocircuito spaventoso in cui gli adolescenti stanno in mezzo, come se la partita si giocasse altrove e nemmeno li implicasse.
Quando Maria l’altro giorno è scoppiata a piangere, e mi ha raccontato un po’ di sé, mi ha detto che i genitori non vogliono che lei vada dallo psicologo. Ma, mi ha detto anche, forse lo psicologo della scuola lo accetterebbero. Così mi sono attivata, ho dato a Maria il documento da firmare per i genitori, ho detto che le avrei fatto sapere il giorno dell’appuntamento. Le ore previste per il progetto di sportello psicologico sono finite. Ho chiamato la psicologa: davvero non possiamo fare niente? È importante. No, non possiamo fare niente. Non possono essere finite a maggio di un anno come questo e no, non è la mia scuola che è scandalosa e non è la mia Dirigente – che ho visto alzare il telefono personalmente per contattare servizi sociali, per raggiungere comunità, per favorire l’ingresso di studenti in gravi difficoltà arrivati a scuola a metà aprile. No, non è la mia scuola e non è la Dirigente del mio Istituto.
È così tutto sbagliato che non si trova più un colpevole, un concorso di colpa collettivo, l’impressione che nessuno sappia più che pesci pigliare: sta succedendo questo alla scuola, nell’indifferenza più o meno generale, l’indifferenza più o meno generale in cui tutto si è fatto routine e burocrazia. È molto complicato, non farsi risucchiare dal vortice di routine e burocrazia. Lo dico quasi come lo direi in un confessionale: io dei giorni non ci riesco. Non ci riesco perché mi manca il senso complessivo delle mie azioni. Ma di cosa stiamo parlando, se una studentessa si apre a me e io prometto un incontro che non potrà esserci?
Sta altrove, il problema. Serve ribadirlo davvero? Serve davvero ribadire che le classi non devono essere di trenta persone e che lo psicologo deve essere presente a scuola ogni giorno – non un giorno a settimana – e da settembre a giugno?
La biblioteca? Aperta, sempre, al pomeriggio.
Gli spazi? A disposizione degli studenti.
Oggi uscita da scuola, dopo aver visto un film nella classe con le cinque studentesse, Eleonora mi scrive che nella scuola dove insegna una ragazza in bagno ha attuato atti autolesivi. L’ha portata via l’autoambulanza. Sono spaventata, triste, incazzata. Pedalo verso casa e mentre pedalo chiamo Eleonora. In classe lo sappiamo quando qualcosa non funziona, quando il ponte comunicativo è interrotto; sappiamo invece quando c’è, quando funziona, quando siamo degli adulti di riferimento.
E non degli adulti qualsiasi: degli insegnanti.
Che figure sono gli insegnanti? Chi sono per gli adolescenti, oggi, gli insegnanti? Come ci conquistiamo questo ruolo e, soprattutto, cosa ce ne facciamo?
Forse questa è una buona domanda da porsi e forse questa domanda annoda gli insegnanti al mondo. Perché l’impressione che ho è che la solitudine degli insegnanti, e la rabbia dei genitori, siano proprio in questo mancato annodamento.
Come posso io insegnante essere un adulto di riferimento se niente – in famiglia, nei media, nei libri – contribuisce a presentarmi al mondo degli adolescenti? Come posso sostenere da solo un compito tanto gravoso? Chiediamoci perché gli insegnanti delle scuole superiori, in una realtà in cui quel che conta è il capitale reputazionale, siano sempre a zero, chiediamoci perché quando mi chiamano a intervenire scrivano “vicedirettrice di doppiozero” e non “insegnante di liceo”.
Ci sono molte persone che nella scuola non dovrebbero esserci. Se mi chiedessero di selezionare dei docenti per un consiglio di classe della cui efficacia sarei certa, saprei farlo. E sono tanti. Se dovessi raccontare che ci sono stati in questo, e negli anni passati, docenti che hanno preso l’incarico e che non si sono mai visti a scuola beh, anche questo posso farlo.
Ma c’è un velo di omertà: si sa, ma che si può fare? Bene, è necessario che invece si faccia qualcosa, è essenziale la selezione del corpo docenti, è essenziale che chi non debba essere in un’aula con venticinque studenti non ci sia. Ne va anche di chi in quella classe vuole esserci, e vuole pensare di poter fare una grande differenza: è questa la posta in gioco, è questo che rischiamo, altrimenti.
Ci sono persone che non credono che in quel luogo si faccia cultura e che non sanno che fare cultura non è provare, più o meno bene, a restituire un manuale. Ci sono persone che entrano con ben chiara l'importanza del compito e la perdono strada facendo. Perché?
Non sono un’anima migliore delle altre. Ho un part-time, a scuola. So che se dovessi fare diciotto ore farei molta fatica, e farei fatica perché la scuola non è per me come la redazione di doppiozero, o l’equipe con i colleghi psicologi. Ecco, questo mi pare grave. Perché la scuola non è il luogo dove io mi formo, dove mi confronto, dove problematizzo il mio operato? Perché non ci sono delle equipe, come nel lavoro di ascolto? Perché i consigli di classe si riducono a una verifica della documentazione? Perché la differenza di salario tra i docenti universitari e docenti di scuole superiori è così rilevante? Perché siamo sempre, noi docenti di scuola superiore, parlati da altri? Figure con le quali dovremmo piuttosto confrontarci e discutere: docenti universitari, scrittori, psicologi, a illustrare le difficoltà della scuola e non a occuparsi della scuola?
Ho avuto, in quest’anno scolastico, la fortuna di coordinare un dipartimento di sostegno eccezionale. Ci siamo trovati al pomeriggio, abbiamo fatto formazione, abbiamo gestito situazioni di grande gravità nell’anno più complicato che ci sia mai capitato di attraversare. Non ci siamo sentiti soli: ci siamo formati a vicenda, confrontati, abbiamo sentito che c’era una corrispondenza tra azione e risultato perché, in quanto forza collettiva, siamo stati molto più potenti del nostro agire da singoli. Mai come quest’anno la mia scuola è stata attenta all’inclusione: non vuole dire qualcosa, tutto questo? La scuola è un luogo di desiderio e il desiderio si diffonde per contagio: da docente a docente, da dirigente a docente, da docente a studente, da studente a docente.
È stato un anno molto difficile e sono spaventata. Spaventata perché se quella ragazza si è davvero tagliata nel bagno di una scuola, magari per una verifica andata male, abbiamo sbagliato tutti. Non possiamo giocare al ribasso, annullando il sapere e la formazione e la fatica, è vero. Ma non si “forgiano” i ragazzi, non lo si fa con la forza né con il sacrificio. Non si può pensare, però, nemmeno di proteggerli sempre: da cosa? Dalla vita? Siamo in un tempo differente ed è bene che ci si affretti a capirlo. Serve farsi capaci di ascolto, serve deporre le armi e trovare un nuovo modo della relazione educativa che passi per la parola: la nostra e la loro. Serve anche, io credo, che ci si metta in discussione tutti – insegnanti e genitori – e ci si assuma la parte di responsabilità che abbiamo nell’aver concorso a costruire una narrazione della scuola secondaria e del corpo docente che non aiuta nessuno e per la quale tutti stiamo pagando un prezzo molto alto.
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