Materia per materia / Insegnare le scienze umane
Una storia edificante
Durante un consiglio di classe il professor Adalberto Somma che insegna matematica in un liceo delle scienze umane fa notare che l’allieva Piera Pieri è molto brillante nella sua materia e si chiede come mai non abbia frequentato il liceo scientifico. La conclusione che possiamo trarre da questa affermazione è che se l’allieva fosse stata molto brava in letteratura italiana e in latino avrebbe dovuto iscriversi al liceo classico e se fosse stata fortissima in lingua straniera forse avrebbe potuto iscriversi al liceo linguistico. Ma la domanda che sorge dopo questo racconto è: chi dovrebbe iscriversi al liceo delle scienze umane e che capacità, passioni e interessi deve avere?
Quello in cui insegno è un liceo considerato “debole” per il riverbero della cultura idealistica di stampo crociano e gentiliano che ha sempre visto negativamente le scienze sociali. Le critiche di Croce e Gentile alla sociologia, alla pedagogia (si pensi alla battaglia persa da Maria Montessori in Italia) e alla psicologia pronunciate a convegni e vergate inizialmente sulle pagine di “La Critica” hanno lasciato un segno deciso che è presente negli angoli più impensabili della società e della sala insegnanti.
Nella mia esperienza personale ho avuto modo di osservare che le allieve e, in larga minoranza, gli allievi che frequentano il liceo delle scienze umane sono affascinati dalla psicologia e in misura minore dalla pedagogia (non come disciplina ma come chiave per lavorare con i bambini), più di rado dalla sociologia e dall’antropologia. Il rimprovero che si può muovere loro è che inizialmente hanno una visione della psicologia che non esiterei a definire “magica” e influenzata spesso dalle serie tv in cui profiler femminili interpretano le abitudini e i geroglifici mentali dei serial killer o, nel migliore dei casi, dalla speranza di riuscire a comprendere cosa passa per la testa delle persone. Non ricordo neppure più quante volte ho sentito dire in classe: “io voglio fare la criminologa”.
Mi torna spesso in mente quello che disse una volta Margaret Mead riguardo alle discipline che si studiano nel liceo dove insegno: chi ha problemi con sé stesso finisce per diventare psicologo, chi ha problemi con la società si fa sociologo mentre chi ha problemi con se stesso e con la società rischia di diventare antropologo. Io mi colloco con serenità tra i secondi ma sembrerebbe che la maggioranza delle mie allieve e allievi stia nella prima categoria. Al di fuori di questo malessere, ci sono i pedagogisti e non bisogna dimenticare che spesso le persone più consapevoli e con i piedi per terra sono si iscrivono da noi perché vogliono lavorare nell’insegnamento, nell’educazione e nelle scuole dell’infanzia o primarie. L’altro grande rilievo che mi sentirei di muovere è che spesso l’iscrizione al liceo delle scienze umane avviene per cercare riparo dalle scienze esatte e in particolare dalla matematica, un elemento su cui torneremo.
Uno slogan di riferimento
Un elemento di cui tenere conto è la grande complessità e vastità di quella produzione scientifica che va sotto il nome collettivo di scienze umane, che prima del XIX secolo di fatto rientrava nella filosofia, materia dal canone storico più definito che si insegna insieme alle scienze sociali. Quello che tengo sempre a mente mentre scorro le indicazioni per il primo e secondo biennio del liceo dove insegno è il seguente slogan: “meglio meno programma ma approfondito che una marea di teorie, autori e concetti che svaniscono nel nulla”. Meglio ricordare un testo fondamentale per ogni autore piuttosto che riempirsi la testa di concetti e definizioni imparate a memoria così come emergono dai testi in adozione. Va detto che i manuali delle nostre discipline riportano alcuni autori chiave così come indicati nelle indicazioni ministeriali e una miriade di temi, concetti e box sui problemi del presente.
Non è facile educare alla complessità epistemologica. Io preferisco dopo una iniziale breve ricognizione storica in psicologia, pedagogia sociologia e antropologia (solitamente impiego circa 10 ore di lezione) fermarmi per un tempo più lungo su autori con particolare riferimento a una o due opere importanti analizzate e contestualizzate in maniera seminariale. Tanto per fare degli esempi si farà un lavoro di almeno 4 ore su Il suicidio di Durkheim e uno di 4 su Le strutture elementari della parentela di Levi Strauss e così per l’Emilio di Rousseau in pedagogia. Una delle caratteristiche dell’insegnamento delle scienze umane che le rendono significativamente contemporanee è che, con una offerta teorica e metodologica così ricca e ampia, insegnare significa privilegiare un apprendimento in intensità più che in quantità con autori classici di un canone che vanno letti partendo da una o due opere importanti.
Il nemico che evoco nelle mie lezioni sui temi classici di psicologia come di antropologia o sociologia è “l’uomo della strada” propagatore di buon senso comune o di tesi trite e ritrite ripetute per sentito dire.
Le scienze sociali educano gli studenti a non essere conformisti e a pensare che le affermazioni degli scienziati sociali sul presente e su temi delicati come disturbi mentali, criminalità, mobilità sociale, incontri e scontri di culture abbiano un valore e un rigore maggiore di quella che è l’opinione comune o del personaggio pubblico più in vista su tv e social network, punti di vista che non perseguono obiettivi scientifici o metodologie corrette. Molto utile in questo senso leggere un testo come la conferenza di Max Weber La scienza come professione, che assegno spesso in lettura durante l’estate, breve quanto efficace. Le due idee forti che cerco di portare avanti nel mio lavoro riguardano il rigore delle scienze sociali, garantito dai metodi di ricerca (sia qualitativi che quantitativi che fanno uso di statistica e della temuta matematica) e dai lavori di ricerca che hanno impegnato autori di riferimento come Durkheim, Mauss o Piaget. L’insistenza sugli strumenti metodologici mi pare utile anche in prospettiva di ulteriore formazione, perché in una tesi di ricerca il capitolo iniziale sui metodi utilizzati per il proprio lavoro è solitamente quello più faticoso e che scopre il fianco a eventuali critiche o debolezze.
I metodi e il rigore dei numeri
La battaglia più recente che sto conducendo riguarda proprio l’idea che molte allieve, in particolare, hanno inizialmente delle scienze umane: un’area dove finalmente si possa mettere da parte la matematica. Ricordo loro spesso che gli umanisti del passato erano capaci di dipingere o costruire palazzi meravigliosi dando poi alle stampe trattati di matematica. I metodi quantitativi utilizzati in psicologia o sociologia oltre ad aver dominato la scena delle scienze sociali per anni trasmettono una immagine di rigore e di chiarezza che merita un impegno caparbio per comprenderne i meccanismi.
La pandemia è stata caratterizzata dallo scontro televisivo tra fisici, statistici, matematici, virologi, medici e parlamentari laureati all’accademia di recitazione o esperti di opere d’arte che si scagliano contro il parere dell’Istituto superiore di sanità, e in questo senso penso abbia spazzato via ogni pretesa assolutistica dei metodi quantitativi (anche se ai ragazzi è meglio dirlo verso la fine del percorso). Lo slogan secondo cui “gli uomini mentono mentre i numeri non possono farlo” appare oggi controverso: la post-verità sembra aver colpito anche i dati quantitativi e aver trasmesso l’idea che anche i numeri e i dati siano fatti sociali e quindi soggetti a diverse interpretazioni e manipolazioni, come peraltro sosteneva Adorno contro Popper. Ma prima di raggiungere tali livelli di dibattito epistemologico e messa in discussione, i dati vanno studiati e compresi perché rimangono lo strumento centrale per le scienze sociali di importanza cruciale per la vita dei cittadini del nostro tempo.
Nel liceo in cui lavoro pur tra mille difetti si insiste (il Covid lo ha reso necessario) sulla “correlazione spuria” e “il doppio cieco” che sono concetti essenziali per ogni cittadino che si trovi a vivere in questi anni di pandemia.
Le scienze sociali insegnano un importante cambio di prospettiva rispetto alle metafisiche classiche. In classe ragazzi e ragazze devono imparare a discutere della pena di morte, per fare un esempio, non solo da un punto di vista etico (è sbagliata o è giusta a partire da una prospettiva valoriale) ma cercando dei dati che confortino la buona o scarsa deterrenza nei confronti della criminalità recidiva più pericolosa o più in generale prendano in considerazione gli effetti e le conseguenze sull’intero sistema sociale. Se il modo di operare in classe parte spesso da provocazioni, c’è anche la consapevolezza che molti insegnanti e allievi, esterni al nostro indirizzo di studi, non lo considerano una scelta di eccellenza: anche per le prove scritte solitamente utilizzo pareri critici sulle nostre discipline o sul nostro corso di studi, da cui emergano prospettive e punti di vista differenti.
Ci sono poi cose da segnalare che valgono per ogni indirizzo scolastico. La bontà di un indirizzo è fatta, a mio parere, dalle motivazioni dei suoi allievi (si fa la guerra con i soldati che ci si ritrova), dal riconoscimento che l’ambiente e i genitori danno alla scuola (evitando quindi di sfondare i cancelli con il SUV se la propria figlia ha preso un 8 di condotta invece dell’atteso 9) e dal clima di collaborazione reale tra gli insegnanti. La collaborazione reale tra docenti richiede però tempo per confrontarsi anche in maniera informale (e questo negli ultimi anni non c’è stato), la messa da parte delle gelosie su programmi e discipline (qualcuno guarda con compassione i colleghi di discipline avverse, nemiche e inferiori e pertanto limita qualsiasi contatto meno che formale) e delle ossessioni antiche del singolo docente. Alcuni colleghi vivono nell’affannosa rincorsa del fantomatico programma (che è molto cambiato, sostituito dalle indicazioni di indirizzo, e di fatto esiste solo in alcune teste) e trovano assurdo confrontarsi con altre discipline per trovare moduli che possano essere svolti in ottica cooperativa e multidisciplinare dove non sia esplicitamente richiesto da una circolare amministrativa.
La distinzione tra discipline
La tendenza di molti anche all’interno del nostro tipo di liceo è quella di considerare il blocco scienze umane una sorta di unica materia senza troppe distinzioni al suo interno. Questo modo di pensare a mio avviso va rigettato con fermezza, anche evitando l’adozione di libri di testo che integrino due discipline diverse (per esempio psicologia e pedagogia per i primi due anni). Benché la trasversalità sia una cosa desiderabile e utile, le discipline difendono i loro confini caparbiamente come ben sa chi abbia esperienza diretta in accademia, dove in molti si stupirebbero nel vedere un pedagogista di formazione che riesce a vincere un dottorato di ricerca in sociologia. Le discipline sono diverse, i metodi sono diversi, le facoltà universitarie sono diverse, i professori sono diversi e sarebbe opportuno comprendere da subito queste differenze. Proprio la differenza di formazione tra gli insegnanti di scienze umane (a cui è destinata una specifica classe di concorso) cambia molto il tipo di lezione: i laureati in filosofia affrontano i temi in modo diverso dagli psicologi che si distinguono dai sociologi… Un liceo delle scienze umane dovrebbe consentire di fare il percorso dei cinque anni non con un unico docente ma con almeno due diversi (i laureati in Sociologia e in Psicologia o in Scienze della formazione hanno approcci molto diversi e i ragazzi devono provarli). Devo inoltre ricordare che nonostante le ore di Antropologia siano presenti dal terzo al quinto anno i laureati in questa disciplina non hanno accesso ai corsi abilitanti per l’insegnamento nel liceo delle scienze umane.
I laboratori, gli apporti esterni e la scrittura
Uno strumento molto utile in questi anni è stato il laboratorio – dove solitamente vengono gli studenti più motivati e appassionati – che consente di costruire lezioni senza l’affanno della valutazione (il premio è spesso un credito in vista dell’esame finale). Ragazzi e ragazze possono aggiungere al loro curriculum lezioni che si avvicinano molto a quello che faranno in università lavorando su testi classici delle scienze sociali (da Winnicot a Goffman) o applicando griglie di osservazione strutturata a film e situazioni di vita reale oppure approfondendo i metodi quantitativi e qualitativi spiegati anche con le lenti della riflessione epistemologica sulle diverse discipline. La disponibilità della scuola ad avvalersi delle lezioni di ricercatori dell’università che facciano loro capire cosa può fare in concreto un laureato nelle nostre discipline vale molto di più di giornate intere di orientamento (e da questo punto di vista gli esperti di neuroscienze funzionano molto bene per la novità che rappresentano dal punto di vista culturale).
Per quanto riguarda i metodi di applicazione (e valutazione) i lavori scritti sono ottimi per avvicinare i ragazzi al testo di un autore classico ma anche per confrontarsi con la realtà. Le polemiche su un libro magari affrontate leggendo recensioni e interviste all’autore consentono di spaziare e dimostrare l’utilità reale delle nostre discipline anche in relazione al mondo editoriale e del dibattito culturale. Lo sforzo che chiedo nei miei corsi è quello di produrre testi che assomiglino ai paper utilizzati per le riviste scientifiche: abstract, parole chiave, introduzione, svolgimento, conclusioni e cura di citazioni, note e bibliografia. Valuto la correttezza degli aspetti formali più del contenuto non solo perché anche prima della pandemia il lavoro di ricerca fatto a casa o in più lezioni a scuola passa sempre per la rete, ma per una questione di forma mentis. Può sembrare superfluo scriverlo per chi non lavora a scuola ma è importantissimo insegnare a citare da dove si siano prese le informazioni perché così si passi dalla semplice copiatura a un lavoro di ricerca strutturato e consapevole.
Per rispondere alla domanda sull’utilità di formarsi per poi laurearsi nelle nostre discipline mi piace sempre citare l’esempio di due secchioni laureati in Scienze Politiche come Henry Kissinger e Condoleezza Rice – non a caso negli Stati Uniti dove le scienze umane hanno una tradizione più consolidata – che hanno finito per decidere quali dittatori abbattere e quali zone del mondo sottoporre a bombardamento. Niente male per dei comuni studenti in Humanities.
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