Conversazione con Enzo Moscato / Il teatro, eterna replicanza dell’altro

5 Aprile 2018

Se dovessimo identificare un diretto discendente di Antonin Artaud, quello sarebbe Enzo Moscato. Le anomalie e gli ossimori caratterizzano tutta la sua produzione artistica e drammaturgica. Pensiamo alla sua doppia natura di autore e attore che lo vede simultaneamente artefice della scrittura e del suo prendere corpo, voce e senso sulla scena; alla sua doppia e triplice funzione da un lato di autore attore sperimentale alla maniera di Carmelo Bene, dall’altro perfettamente inserito nella tradizione di capocomico di una compagnia che raccoglie alcune tra le forze migliori del teatro napoletano. 

 

Uscito come uno spiritillo dalle macerie del terremoto dell’80 che sconvolse Napoli e ne cambiò la geografia anche teatrale, Moscato fa parte, assieme a Annibale Ruccello, Antonio Neiwiller, Tonino Taiuti, di quella che fu definita la “nuova drammaturgia” post eduardiana che prendeva in carico la Tradizione con tutto il suo portato di tradurre e portare avanti ma anche e soprattutto tradire. Nato e cresciuto nei Quartieri Spagnoli, “gineceo narrante” dal quale ha attinto gran parte dell’immaginario che popola il suo universo teatrale, la filosofia post strutturalista è la lente d’ingrandimento attraverso la quale Moscato codifica e decodifica – in scena – l’universo mondo di Napoli/Babbele, puttana e santa, metafora di una condizione esistenziale che l’auto attore attraversa e da cui si fa attraversare in un perenne confronto con l’altro da sé: filosofico, linguistico, di genere e epoche diversi. Dopo oltre trent’anni di teatro agito su tutti i palchi d’Italia e d’Europa, Moscato continua a vivere e a lavorare a Napoli con non poche difficoltà produttive oltre che logistiche – in un'altra città o nazione, forse gli avrebbero dato un teatro pubblico, se non la direzione di una scuola. Vado a trovarlo al Teatro Nuovo, nel cuore dei Quartieri Spagnoli, luogo a lui caro che – assieme alla storica Sala Assoli, sua seconda casa, attualmente in stato di ristrutturazione – ha visto gran parte delle sue creazioni prendere vita. Piove anche oggi e l’acqua scorre come un fiumiciattolo mentre imbocco il vicolo che sale su dall’affollata via Toledo. In teatro brulicano i preparativi per l’imminente ripresa di Raccogliere e bruciare/Ingresso a Spentaluce, adattamento partenopeo di Spoon River presentato quest’estate al Napoli Teatro Festival. Più che una compagnia, quella di Moscato è una grande famiglia allargata, dove tutti si conoscono da sempre: alcuni sono cresciuti insieme, come i bambini che fanno gran parte degli spettacoli corali dell’auto attore. Mentre si provano i costumi e si allestiscono le scene, ci sediamo su due poltroncine rosse, in fondo alla sala, dove Enzo Moscato si concede per una lunga chiacchierata. 

 

Enzo Moscato, ph. Cesare Accetta.


La tua avventura sulle scene inizia oltre trent’anni fa. Come ti sei avvicinato al teatro? 

 

Ragionando intorno a questo mio incontro col teatro, mi vengono in mente immediatamente due cose. Una è abbastanza inconsapevole: da ragazzino non sapevo di avere un fratello che aveva fatto teatro. L’ho saputo dopo. Era il mio primo fratello, Nicola: dopo la guerra faceva teatro con una compagnia di adolescenti. Poi si sposò e trovò lavoro: piangeva quando veniva a vedere i miei spettacoli. Questa è la ragione non consapevole, inconscia, archetipica, che sta a monte. L’altra è questa: io non pensavo direttamente al teatro, pensavo alla scrittura. Leggevo e scrivevo. Una volta un amico romano mi disse: “Tu dovresti far teatro”. Allora, per soddisfare questa curiosità, presi una delle cose che avevo scritto per me e lo misi in scena: Carcioffolà [si tratta del primo debutto sulle scene di Enzo Moscato nel 1980 al Convento Occupato a Roma. Il testo è poi andato perduto, ndr]. Tutto quello che è accaduto nei quarant’anni successivi, è successo perché doveva accadere. Pensandoci ora, non avevo nessuna vocazione nell’essere attore, avevo una sola cosa: la scrittura, che era la mia singolarità. Anche rispetto ai miei fratelli, avevo questo dono. Mi piaceva scrivere, ho sempre scritto. Anche alle elementari ero molto amato dai maestri perché, pur essendo un bambino dei vicoli che parlava napoletano nella vita, ai temi mi mettevano otto, nove, dieci: ero bravo in questa lingua straniera che era l’italiano. Poi una parte della scrittura l’ho trasferita a teatro ed è diventata drammaturgia. Ecco perché forse la mia scrittura non è proprio drammaturgica: è scrittura in generale e scrittura per il teatro, se vuoi. Anche nei primi testi, è vero, c’è un’aderenza rispetto ai canoni del teatro; i primi sei anni, però sono molto singolari. Ieri rileggevo le bozze di Festa al celeste nubile santuario [di cui ci sarà una prossima edizione, ndr]. È più codificato, ha tutti gli elementi che si definiscono parti della drammaturgia. Allo stesso tempo, il contenuto, la visionarietà è tutta un’altra cosa dal teatro. Da dove viene questa storia così anomala, così strana? Queste tre sorelle, tutto sommato assassine, che ironicamente ricalcano un po’ Cechov, hanno un potenziale dentro dirompente. Ogni volta che parlo di teatro, non posso scinderlo dalla scrittura: il teatro è una parte del mio approccio con la scrittura. 

 

Tu vieni da una formazione filosofica: prima di prendere definitivamente la via del teatro facevi l’insegnante…

 

La scrittura è stato anche il mio essere insegnante. Scrivevo le mie lezioni prima di farle: avevo bisogno, dal punto di vista della docenza, di riscriverle a modo mio. I ragazzi sentivano quest’originalità nell’esposizione, sempre con forti agganci alla realtà. Ancora si ricordano di me, qualcuno di loro è diventato anche attore. Il teatro ha rappresentato il brodo di cultura in cui sono cresciuto. Però poi, per dirla con Sartre, è stata davvero un’opzione esistenziale. Ho chiuso con la scuola nell’88 quando mi diedero la cattedra: avevo già vinto premi di drammaturgia, facevo teatro da otto anni, avevo una compagnia. Erano anni in cui il teatro per così dire “nuovo” esplodeva in Italia. Avevo avuto la cattedra a Como. Finalmente dissi: la mia vita è il teatro, lasciamo perdere il resto. Però, da dopo la laurea ho fatto oltre dieci anni d’insegnamento da precario, collaboravo con l’università come ricercatore. C’era anche la mia amica Angela Putino, grande filosofa che ha portato a Napoli tutto il discorso lacaniano di Deleuze, insomma tutta la semiologia a parte Eco che abbiamo avuto in Italia. Ho iniziato a fare teatro nell’80, la mia famiglia non ne voleva sapere. Per loro l’attore potevano farlo tutti, io avevo studiato e in famiglia di attore ce ne era già stato uno. Dovevo insegnare. Io furbamente avevo il piede in una scarpa e l’altro in un’altra. Un po’ prendevo spezzoni di supplenza – mai interi – e facevo teatro. La mattina insegnavo e la sera stavo in scena. I miei alunni venivano a vedermi. All’epoca si faceva in teatro en travesti. Loro me l’hanno sempre detto: noi non siamo rimasti scioccati. Per noi tu non eri professore, per noi eri un accesso all’anima. Quando hanno visto Scannasurice, Trianòn, Festa al celeste nubile santuario e poi i lavori con Annibale (Ruccello) per loro è stato naturale, come se lo sapessero prima di me che il mio posto era il teatro. Anche se poi mi sono capitate tante altre occasioni di formazione, seminari, incontri. Assieme alla drammaturgia metto sempre anche la filosofia. Oggi non lo farei, a maggior ragione. La vedo tragica. Mentre in anni lontani un insegnante che era diverso dalla serialità degli altri insegnanti era ben accetto, ora credo che sarebbe proprio messo al rogo, c’è un desiderio di omologazione che è terribile. A parte che da ciò che si sente e dalla cronaca, i ragazzi li hanno perduti per strada. Ricordo negli anni ’50 c’era un imperativo di scolarizzazione: nel mio palazzo le signorine e i maestri della scuola elementare del quartiere venivano a dire ai nostri genitori che dovevano mandarci a scuola. Anche i ragazzi che lavoravano dal fruttivendolo o al bar la mattina dovevano andare a scuola, altrimenti lo Stato gli stava addosso. C’era una differenza sostanziale che non voglio enfatizzare più di tanto sennò poi qualcuno pensa che sono nostalgico. (Sorride.) La verità è che oggi la scuola è sempre più un optional. 

 

Ph. Daniela Capalbo.


Quest’anno, all’interno della rassegna “Garofano Verde” curata da Rodolfo Di Giammarco, hai rimesso in scena una parte di Occhi gettati. Com’è stato riprendere un lavoro che è nato oltre trent’anni fa? 

 

Occhi gettati era una summa di tutto ciò che avevo fatto in sei anni, era una sorta di offertorio del mio corpo, della mia anima di tutto me al pubblico. Non mi riservavo nulla nel darmi completamente. La ripresa di quest’anno è stata molto più sulla difensiva: io al leggìo, la tremendità avviene attraverso le parole e basta. Nell’86 mi denudavo, ballavo, mi dannavo, cantavo, appicciav o’ ffuoc ‘ncopp a scena che non si poteva fare: sono stato cacciato da tutti i teatri. Negli anni, una persona sviluppa anche una sorta di auto difesa. Il teatro è una cosa terribile, ti mangia dall’esterno, oltre che dall’interno. All’epoca non lo sapevo ma credo che il teatro vada fortemente codificato. Il mio andare in scena era totalmente in oblazione, senza cautele. Oggi lo faccio ma con una serie di tutele. Ho capito che come dice Artaud il teatro è una grande terapia, è una grande medicina ma contemporaneamente anche un grande veleno, se non lo sai dosare. 

 

Se la tua formazione in campo filosofico/storico è molto definita, in teatro possiamo dire che non hai avuto maestri

 

Sono stato orfano. Orfani veleni nasce da questo. Fortunatamente, aggiungo, sono stato orfano. La mia drammaturgia è la sintesi di ciò che sono io, come differenza. È stata anche un’etichetta che mi/ci hanno attaccato addosso. Al che ci siamo agguerriti. Io e Annibale mettevamo in pratica una teoria della differenza che ci veniva da Deleuze ma anche da Carmelo Bene. Tutto questo oggi passa, ma in una maniera così patetica, senza sublimità. Non si può dire che Bolero o che Jennifer è solo un trans. C’è una storia di borghi di ghetti di esclusione di tutta l’umanità di cui lui/lei era portavoce. Senza essere nostalgici, è triste vedere come abbiano lasciato andare le grandezze del teatro italiano. Scontiamo molto provincialismo, (anche) in teatro. Lo spazio storico non c’è stato, così com’è avvenuto in Francia, Inghilterra, Germania. Per esempio, noi – al Sud – non abbiamo una drammaturga. Qualche tentativo c’è stato ma l’Italia è tornata indietro. Oso dire che la nostra drammaturgia era un’altra cosa. Oggi si fa letteratura. Io sono tradizionale e innovativo, sono sulla scia di una genetica del teatro e nello stesso tempo sono altro da quello. 

 

Parliamo del tuo rapporto con Leo de Berardinis? 

 

Leo e Perla erano dei miti, tutti noi li seguivamo. Due maledetti della scena. Maledetti davvero. C’era un malessere della vita che loro cercavano di elaborare in scena. Ho conosciuto Leo dopo che si erano lasciati. Erano grandissimi. Non c’era convenzione teatrale. Quello che era la conflittualità del loro amore la posavano direttamente in scena, con violenza. E poi c’era tutta la sapienza del mettere en scene. Ero al San Carluccio a fare proprio Occhi gettati. Leo era molto amico di Igina di Napoli [fondatrice del Teatro Nuovo e attuale direttrice di Casa del Contemporaneo, da sempre segue e produce i lavori di Moscato, figura cruciale del teatro d’avanguardia napoletano dagli anni ’80, ndr]. Lei lo portò a vedermi. Da lì tra di noi nacque un rapporto. Era l’86, mi pare. Ci scrivevamo, andai a trovarlo al teatro Testoni e al Teatro San Leonardo che lui diresse. Poi divenne direttore di Santarcangelo. Venne a trovarmi a Napoli. Allora non c’era più Perla. Stava con Valentina Capone. Mi chiamò e mi disse: “Senti, io devo fare Santarcangelo e tu sì Amleto!” Mi disse proprio così: “Tu sì Amleto. Te lo devi scrivere tu. Perché tu hai la malinconia di Amleto, hai questa sibillinità”. Mi aveva visto a teatro qualche volta, mi aveva sentito cantare. Diceva: “Quando canti c’è tutto il teatro, dentro”. Io presi questa consegna e così venne fuori Mal d’Amlè, il primo anno. Mi ha chiamato per quattro anni. Anche questo c’è da dire. Non è che tu fai uno spettacolo e poi muore: c’è bisogno di una progettualità. Così nel 1994 feci Mal d’Amlè, da Shakespeare. Poi Recidiva, da Copì. Lingua Carne Soffio, da Artaud. E Aquarium Ardent, da Rimbaud, il quarto anno. Tutti autori stranieri. Inizia così il mio rapporto con la “tradinvenzione” drammaturgica. Ci vogliono gli artisti che capiscono altri artisti. Il più giovane nei confronti del più grande deve avere umiltà. Magari Leo mi avesse detto più di quello che mi ha detto. Oggi non c’è questo. Oggi chiunque vuole arrivare. Io sono sempre stato nell’orfananza. Abbiamo perso Leo, Annibale, Antonio. Ci troviamo davanti a questo stato di cose odierno anche perché i grandi che potevano accompagnarci fino a oggi non ci sono più. Certo per fortuna ne sono rimasti, penso a Morganti, a Santagata, ma sono pochi. 

 

Una scena di Raccogliere e bruciare / Ingresso a Spentaluce.


Ritorniamo alla scrittura. È di recente uscita dall’editore Cronopio Ritornanti, una sceneggiatura filmica tratta da Spiritilli, uno dei tuoi primi testi teatrali. In questi giorni sei in scena con Raccogliere e bruciare, un adattamento partenopeo di Spoon River che avevi scritto tempo fa. Hai un vero e proprio universo di scrittura su cui torni e ritorni, di cui una parte sommersa. 

 

Prima di tutto le scritture sono diverse, così come le fonti e gli approdi. La mia scrittura è composita: riflessioni sulla teoria del teatro, racconti. Quella preponderante è stata la scrittura del teatro. Molte cose sono andate in scena, quasi la totalità. Altre sono inespresse. Poi c’è un particolare rapporto con le cose già andate in scena: o me lo chiedono o sono io che sento l’esigenza di ritornarci. Il ritornare è importante. Se devo rimettere in scena oggi un testo del passato – ovviamente per me l’aspetto del presente, passato, futuro non ha senso in teatro, è una convenzione – lo puoi fare anche tale e quale. Rendiamoci conto che il tale e quale, in teatro, non esiste. C’è una grande illusione che la gente coltiva e nella quale vuole stare. Anche quando fai una replica, hai una settimana di tempo. Poi la rifai dopo un mese. La replica non è la stessa. La replica cambia per spazio, per pulviscolo atmosferico, per la testa che hai. Il teatro è eterna replicanza: non del medesimo ma dell’altro. Anche se non si è consapevoli di questo, è così. Il teatro è sempre altro, anche quando sei nella replicanza. Se poi questa cosa la vai a teorizzare diventa…come lo stato dello specchio di Lacan. Il teatro secondo me avrebbe bisogno di tanto in tanto che qualcuno lo ri-teorizzasse. Prima di tutto in pratica. Poi dalla pratica nasce una nuova teoria. Penso a Leo. Gli attori li faceva innanzi tutto divertire. C’erano delle invenzioni sceniche continue, anche rispetto a un copione dato. E da qui si diceva: cosa abbiamo fatto? Siamo andati sul classico a riscriverlo. Io parlo di “tradinvenzione”. Hai a che fare con uno statuto che è tradizionale, che appartiene al passato, alla classicità, ma non c’è niente da fare: lo devi riscrivere, continuamente. Allora, o lo riscrivi in scena ed è un lavoro sugli attori, o lo passi addirittura in scrittura e poi sugli attori. Il classico non è una cosa morta. È una provocazione continua a essere ridetto, riscritto. E oggi chi lo fa questo discorso? Il teatro è una pizzeria. Vieni tu vieni, tu vieni tu: nella più totale ignavia di quello che stanno facendo. Penso a Il balcone di Genet. Parla della rivoluzione. Quello che deve accadere fuori, se non accade dentro, non può esistere. Ci dev’essere un rapporto molto stretto tra quello che fai e quello che accade dentro e fuori di te. Questo è essere rivoluzionari. Quando c’è un combaciamento. Non sempre questo succede. Se non c’è una consapevolezza della necessità sociale di quello che stai facendo, sei destinato a morire. Se mi chiedi adesso quali sono le mie opinioni sul teatro, ti dico che il teatro, se non è già morto, ha ancora pochi anni da respirare. Vedo come vanno le cose. Non sono mai stato amante dei narcisismi teatrali. Non si può parlare di sé senza parlare dell’altro da sé. Non può essere. Le même et l’autre. Non l’ho inventato io. 

 

Cosa stai leggendo in questo momento?

 

Leggo in continuazione, non sto solo su una cosa. Passo dal saggio storico al romanzo. A volte trovo l’esigenza di ritornare anche nella lettura. Recentemente ho ripreso in mano Il vangelo secondo Gesù Cristo di Saramago: trovo che ci sarebbe molto da dire sul sacro oggi. Per l’ennesima volta ho sentito l’esigenza di riprendere qualche pagina del Diario del curato di campagna di Bernanos. Uno scrittore cattolico e di sinistra, eretico. Gli scrittori, quelli buoni, ti correggono, t’insegnano la sottrazione, la composizione. Se hai un figlio e lo devi crescere, ti preoccupi che si prenda del latte buono, non latte avvelenato. 

 

Progetti prossimi in cantiere?

 

Ci sarà una riedizione di Festa al celeste nubile santuario diretta me. Una delle due protagoniste sarà Cristina Donadio. Poi ho scritto un nuovo spettacolo di cui preferisco ancora non parlare: ha molti punti di contatto con Il mare non si mangia, la terza raccolta di racconti che dovrebbe uscire a breve. Questi due lavori sono connessi tra loro dalla guerra. “O polemos”, diceva Eraclito. Nella guerra c’è tutto. 

 

Il compleanno.


È passata oltre un’ora. È tempo di provare. Fuori ha smesso di piovere. Nel vicolo scende la sera e penso che non vedo l’ora di tornare a teatro. Leo de Berardinis di Moscato ha scritto, nell’introduzione alla Quadrilogia di Santarcangelo (Ubulibri, 1999):

“Ma prima del silenzio c’è la tragedia del linguaggio, la tragedia di Shakespeare, la nostra tragedia, la vocazione scismatica dell’Occidente. E pensai a te come corpo in cui s’incarnano quelle tensioni prima del silenzio, quelle tensioni che sono qui e ora, ma che ci fanno vagamente desiderare il prima e l’oltre […]. Il desiderio del tuo fragile corpo di attore è il desiderio di una canzone nuova, di un canto nuovo, spremuto dalle macerie, dal dolore e dal sorriso; un desiderio che è oltre a ciò che avviene sulla scena, è intorno al tuo corpo, e in quei momenti in cui fai in modo che anche gli altri, gli spettatori, si pongano in ascolto / in prossimità del silenzio.” 

 

Enzo Moscato sarà a Bologna nella stagione della Soffitta e di Ert, il 2 maggio al Laboratorio delle arti con Compleanno e il 4 maggio all’Arena del Sole con Patria puttana.

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