Marosi Stromboli, back to the roofs
Quando arriviamo a Stromboli è sera. In piazza San Vincenzo, il punto di ritrovo dell’isola, è radunata una piccola folla. Pochi turisti, molti abitanti. Sono tutti in attesa della Big Friends Guggen Musk Malta che si esibisce per salutare gli Alpini che l’indomani partono. In mattinata la piazza ha ospitato un’assemblea cittadina: gli abitanti hanno deciso di non accogliere il ritorno della troupe cinematografica che ha incendiato l’isola lo scorso 25 maggio. Il sindaco Riccardo Gullo, da poco nominato commissario straordinario per l’emergenza, una volta a settimana incontra gli abitanti per ascoltare le loro istanze o dare aggiornamenti. Prende parola e ringrazia tutti coloro che in queste settimane hanno dato una mano. Stromboli, dopo l’incendio di maggio e l’alluvione del 12 agosto è un’isola mutilata. Offesa. “L’uomo – dice Pina, ‘la signora dei capperi’ – ha fatto più danni di quanti ‘Iddu’, il vulcano, non ne abbia mai fatti da quando ho memoria”. Fuori, sul “continente”, forse non ci siamo resi conto della portata della tragedia che ha colpito questo paradiso in terra, da sempre rifugio di chi cerca un tempo altro, dove la potenza degli elementi non si addomestica ma si accoglie.
Tutto questo – la comunità, la natura violata, come l’arte e gli artisti possano dialogare con un luogo – confluisce in Marosi, Back to the roofs (maroso è l’onda del mare in tempesta), andato in scena dal 29 agosto al 4 settembre 2022: dispositivo, più che un festival, che da circa quattro anni coinvolge abitanti e artisti attorno alle arti performative, il cui lavoro quest’anno è stato riconosciuto anche dal Ministero. Un dispositivo innestato prima di tutto su dove le performance avvengono. Ciò che vediamo – le incursioni sonore, performative, alcune in forma di studio, altre in forma più compiuta – sono tutte nate su e per l’isola. “Mio nonno negli anni settanta fece un viaggio alle Eolie. S’innamorò di Stromboli. All’epoca non c’era luce elettrica né acqua. Erano isole difficili, non turistiche. Nel ’72 comprò casa. Ci vengo da quando sono nata, è una parte di me”, racconta Giulia Ferrato, curatrice e danzatrice milanese trapiantata a Napoli, co-ideatrice di Marosi assieme alla performer abruzzese Anna Basti. “Mi sono messa a riflettere su come nasce un progetto che prova a creare relazioni e sinergie con un territorio così particolare come Stromboli, che sia un tutt’uno col suo humus e riesca a radicarvisi”.
La Ferrato assieme ad alcuni degli artisti che fin dall’inizio hanno sostenuto il festival – la danzatrice Luna Cenere è una di questi – vengono dalla pratica di sperimentazione collettiva e artistica all’Asilo Filangieri di Napoli che nel 2019 ha ospitato anche una versione invernale di Marosi, Stromboli approaching Vesuvius: oltre ai workshop di formazione e ai processi di composizione istantanea multidisciplinare, si è approfondito il tema dell’arte come ricerca da un punto di vista teorico e in campo accademico. “Negli anni il team di Marosi è cambiato, l’idea è che a un team fisso a ogni edizione si possano aggiungere artisti provenienti da diverse discipline che co-partecipano alla curatela che ogni volta si amplia e si modifica”. L’altro cuore del festival è il coinvolgimento della comunità di Stromboli, anche dal punto di vista artistico/ produttivo: si cerca di intercettare i percorsi artistici già attivi sull’isola, di trasmettere delle conoscenze. “Ho tenuto dei laboratori nell’unica scuola dell’isola, nelle scorse edizioni abbiamo dato vita a piccoli corsi di illuminotecnica per i ragazzi più grandi. Vorremmo proseguire, un giorno magari della tecnica si occuperanno loro”.
Nella tre giorni a cui prendiamo parte a Marosi – 2-4 settembre – si susseguono lavori di danza, sonorizzazioni site-specific, performance che s’intrecciano a momenti di “art and community” e azioni partecipate per un pubblico di ogni età. Ogni giorno in punti diversi dell’isola gli artisti tengono laboratori di “consapevolezza corporea”, come lo yoga per le mamme, o gli esercizi di Trisha Brown rimodulati da Annika Pannitto per i più piccoli. Il pomeriggio dal Bar Ingrid si trasmettono due ore di Radio Marosi, a cura di Renato Grieco. Dal tramonto iniziano i vari happening che attraversano l’isola: uno dei luoghi più suggestivi è il Parco Parco, un palco aperto di 100 metri circondato da canne con vista vulcano, quartier generale della storica Festa del fuoco di Stromboli, ideata e realizzata dal mitico Gusti Schuldes, austriaco e isolano acquisito scomparso improvvisamente qualche anno fa.
Qui assistiamo all’intensa partitura di corpo e strumento della berlinese Maya M. Carrol e del compositore Roy Carrol. L’altro ‘palco’ del festival è il terrazzo quadrato bianco con sfondo Strombolicchio della pensione La Nassa: ci raccontano che un tempo c’era una discoteca. Qui si apre la prima sessione dei vincitori di Marosi #around a process of making, una call nazionale in cui artisti emergenti vengono affiancati da coach nel processo creativo. Uno degli elementi più interessanti è il venire meno del concetto canonico di palco e platea. Non ci sono ‘sedute’ ma posti dove accomodarsi, come si vuole, se si vuole, dove l’artista ti suggerisce. Il tempo è diluito, morbido, non scandito da pratiche formali (tutti gli spettacoli sono gratuiti), si segue un flusso fluido, un andamento collettivo, in cui ti ritrovi a camminare al buio, sotto un cielo stellato che ti cade addosso, da una parte all’altra dell’isola, in luoghi più e meno desueti, tra odori e suoni naturali.
Un’immersione panica che sembra indicare e cercare una modalità alternativa di vita e di pratica artistica: le due cose a Marosi vanno di pari passo. Tutto il festival è un processo creativo continuo che prende luogo nella comunità e “rifiuta il concetto di ‘location’ per provare a instaurare una relazione non neutra e non strumentale con l’isola e i suoi abitanti”. Le performance sono multidisciplinari. Video proiezioni di immagini e fotografie, sonorizzazioni dal vivo o campionate, con i corpi che attraversano, modificano, invadono anarchicamente lo spazio della messa in scena che è sempre un luogo naturale cui gli artisti devono adattarsi.
Così Messa in abisso della performer Valeria Apicella e della fotografa Ilaria D’Atri sconfina da una terrazza alla spiaggia di ciottoli sottostante, con la Picella che s’immerge gradualmente in acqua a far decantare il telo/simulacro/oggetto di scena nel mare nero di notte. In Sinfonica, s-concerto della danzatrice Chiara Orefice e del musicista Stefano di Costanzo, su un rullante suonano pietre di lava e pezzi di vetro. Mentre la luna tramonta dietro al vulcano, la performer esplora ogni angolo dello spazio-natura, fino ad arrampicarsi su un albero di fichi.
La dicitura Back to the roofs, che accompagna il festival dal 2019, è legata alla storia di Stromboli. “Ho fatto delle chiacchierate con gli abitanti: ho chiesto loro se avevano un ricordo legato alla danza”, racconta Giulia Ferrato. “Sono venute fuori due cose: la memoria delle discoteche che negli anni ’80 c’erano sull’isola e la ‘battitura’ dei tetti’. I più anziani ricordano che i tetti si facevano con materiali che avevano bisogno di essere livellati: il ‘mastro’ batteva il tetto con un attrezzo. Alla fine del lavoro, siccome la costruzione di una nuova casa era una buona notizia per la piccolissima comunità dell’isola, si faceva una grande festa sul tetto in cui tutti mangiavano e ballavano per completare la battitura. Abbiamo voluto ridare presenza corporea ai tetti che creano situazioni inaspettate: c’è un pubblico occasionale, abitanti delle case vicine che si affacciano; entrano elementi non previsti, come un uccello, una barca, avventori casuali”.
Dalla strada, seduti sui muretti, guardiamo verso la piccola caletta dello Scalo dei Balordi – siamo nella zona di Piscità, dove l’alluvione ha portato via case intere e ancora il fango ostruisce alcune abitazioni. Sul tetto di Casa Schuldes, la coreografa Clara Furey in total black fa danzare un drappo al vento, su un tappeto di dolci beats. Stagliata sull’orizzonte del mare è una prefica moderna, spirito antico, frammento onirico, in dissolvenza. Qualche ora dopo siamo su un altro tetto, questa volta sotto piazza San Vincenzo: Giovanni Lami dietro una consolle campiona voci e suoni per una ‘sound performance’ di circa due ore a ingresso aperto. Ci si accomoda e si ascolta quanto si vuole. Le voci sono quelle di Stromboli: abitanti o avventori intervistati a più riprese nel corso dell’estate.
Uno studioso racconta di essere salito sul vulcano dopo il devastante incendio di maggio e di aver visto che “le piante con l’apparato radicale più debole sono letteralmente andate, e anche gli ulivi secolari che popolavano l’isola”; un ragazzo di Bologna, venuto sull’isola per un periodo prima della pandemia, alla fine ci è rimasto ed è divenuto parte della comunità di isolani, la sua nuova famiglia. Conundrum, questo il titolo della sonorizzazione, è un racconto vivo, corale e sonoro di un momento preciso della storia dell’isola. Tutti i lavori, in modalità diverse, sono delle istantanee di Stromboli: della sua bellezza, dei suoi tempi dilatati, delle sue ferite, delle sue anime e colori.
Questa rassegna di frammenti e schegge multisensoriali dall’isola si chiude – più che compiutamente – con Embrace the darkness, vero e proprio rituale che la musicista e performer Stefania Alos Pedretti ha costruito in residenza tra l’isola e la Fondazione Lenz di Parma, dove il lavoro ha debuttato a luglio in forma di studio. “Sono arrivata a Stromboli una settimana dopo l’incendio. C’era solo nero e odore di bruciato attorno a me. Abbiamo fatto molti sopralluoghi, raccolto suoni e immagini”. Le splendide fotografie di Giulio Di Mauro sono lo sfondo per un’esplorazione estetica ed emotiva che evoca l’anima del vulcano, le sue tinte dark, le sue sonorità più delicate – e analogiche – fino al rumore tellurico e elettronico delle esplosioni.
Pedretti, sciamana, celebra un rito postmoderno ma al contempo antichissimo che urla lo stato di una natura violentata, abusata, sfruttata fino all’ultimo; la necessità di porre fine a questa violenza. Stromboli è mondo e il mondo non sta bene. L’arte può e deve farsi carico di tutto questo. In questi mesi, in diverse occasioni, e a più riprese, ci si è interrogati sulla funzione dei festival. Marosi appare come una realtà parallela, anarchica, come l’isola che lo ospita. Questi giorni lasciano un segno, una traccia viva, in chi fa e in chi assiste, qualcosa che decanta e viene assimilato nella lunga durata, nella lentezza, nel piacere della sospensione, in ritmi più naturali che tutti – festival in primis – abbiamo un po’ perso.
Le foto a corredo di questo articolo sono di Fabio Artese. Nell’ultima immagine Embrace the darkness di Stefania Alos Pedretti.