La poesia lieve di “Chi resta”

15 Dicembre 2023

Forse sono fuori posto, ma sempre più mi chiedo a cosa serva il teatro – o meglio, quello che, nella maggior parte dei casi, propinano come tale – in un’epoca di crisi profonda come quella che stiamo attraversando. Una crisi sistemica che dal nostro bel cantuccio di minoranza bianca occidentale e (post) coloniale facciamo finta di non vedere, girando la faccia dall’altra parte quando il disagio altrui rischia anche solo di sfiorarci. Artaud insegna che il teatro è contagio, pestilenza, uno shock psicofisico: il contrario delle narrazioni estetiche, lineari e rassicuranti a cui non riusciamo a non battere le mani per poi tornare a casa con la coscienza a posto e dimenticare all’istante quello che abbiamo visto. Per questo, quando capita – ed è raro – di incappare in qualcosa che spariglia questo triste ordine costituito, val la pena di rifletterci su. Qualche sera fa eravamo nella sala scura del Teatro delle Moline di Bologna, uno spazio che già di per sé è un dono: le sue piccole dimensioni ci espongono a quel giusto sfregamento, a quel contatto ravvicinato tra pubblico e scena, necessario perché succeda quel qualcosa di mistico che Roberto Latini in un’intervista ha descritto con la felice espressione di “stare in silenzio in coro”. Sul palco, dentro un cerchio bianco, ci sono due donne. Una, Matilde Vigna, è raggomitolata su sé stessa, in terra, stretta nei suoi nervi di giovane in fiamme. L’altra, Daniela Piperno, seduta serafica su una panca nel suo favoloso tailleur turchino, la guarda dall’alto in basso, dando istruzioni, emettendo giudizi. Una giovane figlia, “l’ultima figlia”, quella che ancora è figlia, e una madre decollata, dipartita eppure granitica nella sua presenza/assenza eterea che brucia dentro chi ne piange la scomparsa. Sono le due figure di Chi resta, spettacolo scritto e diretto da Vigna (la regia è condivisa con Anna Zanetti), il secondo dopo Una riga nera al piano di sopra del 2022.

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In questo non luogo che vomita e assorbe ricordi e frizioni dell’anima, due donne si parlano come forse mai prima hanno fatto. Le parole sono schegge: scavano, svelano, portano alla luce. È una veglia lucida, una resa finale che coinvolge tutti, gran parte del pubblico misto e soprattutto giovane che assiste in quel silenzio che si fa coro a questo ping pong di battute sinuose e ironiche che assestano colpi precisi. “Il lutto non esiste per un partita Iva” che deve sempre lavorare, lavorare, lavorare; non ha senso accendere le luci, consumare mentre “il mondo sta andando a puttane”. Eppure, “a pagare e a morire c’è sempre tempo”. Sono due mondi quelli che si scontrano in quest’atmosfera da guerra fredda più volte evocata nei suoni, nei dialoghi e in alcune immagini proiettate sullo sfondo, tra scene di decolli e ammaraggi sulla luna. Un mondo in dissolvenza, non più replicabile, in parte causa del ‘disastro’ presente, che si mantiene in piedi attaccato alle sue certezze senza accorgersi che si stanno sgretolando. Dall’altro lato, la forte disillusione, la profonda consapevolezza di dover e voler cercare altre strade, altri modelli, non di sviluppo, ma di sopravvivenza. Pianeti distanti, interdipendenti. La terra e la luna. Il buio e la luce. “Un’impiegata. Qualcuno al servizio di qualcun altro con lo stipendio fisso alla fine del mese, le ferie pagate, la tredicesima. Qualcuno al servizio di un sistema, di una casa”. Una madre in dialogo con una “senzadio”, “una donna con gli ovuli in scadenza” che s’interroga mentre vede la gente attorno a lei “che costruisce la famiglia del futuro”, mettendo in discussione quella linearità meccanica e patriarcale del passare automaticamente da figlie a madri senza neanche pensarci, “che se metto al mondo una creatura e tra vent’anni crepo, la lascio con le pezze al culo come sto io, e chiaramente il mio utero la pensa diversamente dal mio cervello, ma la situazione è questa, mi viene caldo solo al pensiero e non ci posso pensare”. 

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Matilde Vigna, nata a Trecenta (Rovigo) nel 1988, Ubu 2016 e 2019 (miglior attrice/performer under 35) e Premio Eleonora Duse 2021, al teatro ci è arrivata tardi. Dopo una laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche e un master, davanti alle prime prospettive di lavoro, ha capito con chiarezza cosa avrebbe voluto fare. Così si è iscritta quasi fuori tempo alla scuola del Teatro Stabile di Torino all’epoca diretta da Valter Malosti. Tra le esperienze indimenticabili della sua formazione c’è poi la scuola di Alta Formazione di ERT diretta da Antonio Latella e il progetto speciale con cui si è conclusa, Santa Estasi, da cui è uscita una notevole fucina di artisti, e lo spettacolo Aminta, sempre con Latella. “Da Antonio e dal suo gruppo di lavoro ho imparato soprattutto l’importanza dell’uso preciso delle parole” – racconta. Ma anche Zona Rossa al Teatro Bellini di Napoli dove ha conosciuto, tra gli altri, Licia Lanera: “senza l’incontro con la sua energia non avrei mai iniziato il mio percorso da sola”. Grazie al lungimirante sostegno di Emilia Romagna Teatro, con Chi resta prosegue il suo originale percorso di scrittura, auto regia e svelamento che parte da dati (auto) biografici e ci coinvolge tutti, facendosi carico di istanze e questioni fondanti che riguardano la nostra generazione in crisi che si domanda “quando si smette di essere figli”. 

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Vigna costruisce una genealogia di donne che si parlano da un’epoca all’altra, affidandosi e tramandando storie sommerse, racconti che sanno di casa, terra natale, che ti mettono di fronte al fatto compiuto, a quella sensazione perenne che ti assale e non ti dà tregua di essere eterni precari, eterni “giovani” in attesa del proprio momento, impegnati sempre a dover dimostrare qualcosa, in un presente che appartiene ancora a chi ci ha preceduto e non lascerà neanche una briciola a chi viene dopo. Affondare mani e cuore nelle radici, in quel grumo che ognuno di noi si porta dentro, la famiglia che passiamo metà della vita a rinnegare e il resto a ritrovare. Un percorso complicato da compiere, mentre sembra proprio che tutto ci dica: non è più così, tutto è cambiato, de-atomizzato, scomposto e qualsiasi sforzo tu faccia non vedrai mai più ricomparire quell’orizzonte di serenità, benessere e imperturbabilità nel quale sei cresciuto. Perché, se anche dovesse andare tutto bene, è il mondo che si è ammalato. Qualcosa in questa caducità liquida e inconsistente in cui siamo immersi è scomparso, venuto meno, e non tornerà. Non a caso i primi due testi della trilogia di Matilde Vigna, pubblicati nella collana Linea di ERT edita da Luca Sossella, vanno sotto il nome di Sopravviverci, due pezzi sulla perdita. Matilde Vigna, come pochi della scena contemporanea – il primo che mi viene in mente è Alessandro Berti – scrive di un mondo al capolinea, in cui la crisi climatica non è più un’ipotesi ma realtà percepita, un problema reale che modifica la vita delle persone. Se in Una riga nera al piano di sopra. Monologo per alluvioni al contrario (candidato al Premio Ubu 2022 come miglior novità drammaturgica italiana), lo scavo dentro la storia della nonna e dentro la storia dell’alluvione del Polesine del 1951 era affidato a una voce sola, in questo secondo capitolo l’autrice e attrice allarga il respiro e la visione, affidando la sua scrittura morbida, minimale e tagliente a un’altra presenza in scena che fa esplodere questo dramma consumato in pochi oggetti di scena, colori fluo e battute di uno humor inglese che ti trafiggono mentre sorridi. 

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Perfetta e giustissima da questo punto di vista la scelta di Daniela Piperno, attrice formidabile, icona del teatro italiano con la t maiuscola (memorabile la sua interpretazione della madre di Daria Deflorian in L’origine del mondo di Lucia Calamaro), che in questa partitura incarna e fa sua ogni smorfia, respiro, posa, piglio ironico e snervante di una madre che non molla la presa, neanche quando non c’è più. In un’ora di messa in scena asciutta e godibilissima, il rapporto tra queste due presenze cresce, matura, si sistema nelle pieghe morbide di scambi verbali acuti che scandiscono il ritmo emotivo di un incontro e di una caduta. In questo chiacchierare e litigare con la mamma, nel non essere mai all’altezza di, nel dover performare ciò che non si è, dentro un raffronto a tratti impossibile eppure inevitabile tra due individui uniti da un legame di sangue che si amano ma non si conoscono bene e non riescono a comunicare pur parlando la stessa lingua, si apre un varco. In scena, con queste due generosissime attrici ci siamo anche noi. C’è un momento preciso in cui questo piccolo prezioso lavoro, frutto dell’impegno collettivo di un gruppo consolidato, innesca una catarsi che ci conduce lisci fino al monologo finale di Chi resta. Questo momento è una festa. È un baule dei ricordi che si apre, con tutti i giochi, i vestiti, i travestimenti, i piccoli insignificanti oggetti che nella memoria ci riconducono alla felicità di bambini. E questa è ovviamente anche l’ora della dipartita, della perdita, dell’incursione della realtà. Indimenticabile la scena in cui la Piperno indossa una tuta e un casco da astronauta e scompare sulle note sospese di un piano, consegnandoci uno spazio bianco, lunare, metafisico, ammutinato. Sul diradarsi del dolore, chi resta raccoglie e fa tesoro dei frammenti esplosi da questo razzo che ha preso la sua via. Dei momenti, dei passaggi, dei gesti di cura infinita e infinito amore ricevuti: su cui non ci si era soffermati mai. C’è un passaggio di consegne, e di ruoli, e una pacificazione dolce a cui questa scrittura che è veleno e medicina insieme ci conduce, inerpicandosi su e giù per le vette e gli sprofondi dell’animo umano con passi felpati. “Alla fine ognuno si fa il suo, di albero di Natale. Come gli piace, come vuole, come può”. Gli applausi rompono l’emozione di un finale che è come una confessione. Su Starman di David Bowie, raccogliamo i pezzi di quel che resta: i segni di questa battaglia non ci lasceranno per un po’. Siamo felici, finalmente, che sia tornato il teatro. 

Le fotografie sono di Luca Del Pia. 

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