Emma Dante, Basile, il potere

6 Dicembre 2024

Il nero che tutto genera. Un manipolo di prefiche col volto di maschere di galline, abito scuro e rosari sgranati tra le mani, chiocciano, cincischiano, pregano attorno a una figura misterica schiacciata in terra. Inizia così, con un’immagine sul limine tra presagio e veglia, Re Chicchinella, favola irriverente e poetica con cui Emma Dante chiude la trilogia dedicata a Lo Cunto de li cunti del poeta giuglianese cortigiano Giovan Battista Basile. Come ne La scortecata e Pupo di zucchero, dentro ci sono tutti i segni, la cifra poetica del suo teatro fatto di carne e sensi, ossimori, sospensione onirica, scavo nell’umano, dissacrazione, svelamento. A fine ottobre lo spettacolo è approdato per due settimane al Teatro San Ferdinando di Napoli dove è stato salutato da una grande accoglienza di pubblico. Dopo Napoli, e una pausa dedicata al debutto di Extra moenia al Teatro Biondo di Palermo (seguono repliche al Teatro della Passioni di Modena 5-8 dicembre), a gennaio Re Chicchinella sarà in scena per un mese al teatro La Colline di Parigi. In occasione della prima napoletana, ho sentito Emma Dante per una lunga chiacchierata.

l

Come stai, sei tornata a Palermo?

Me ne sto andando da Palermo. In primavera mi trasferisco a Roma, da lì posso prendere treni, aerei, in questo modo agevolo molte cose. Palermo adesso posso anche lasciarla. Alla fine non sono riuscita ad avere uno spazio assegnato, a costruire nulla. Non ce l’ho con Palermo, che è nel mio cuore, le amministrazioni che si sono susseguite non mi hanno aiutata. Il Teatro Biondo ha prodotto i miei spettacoli, eppure un posto qui non ce l’ho. A Palermo ci vediamo per fare le prove ma per il resto siamo sempre in giro, il nostro lavoro è fuori, in Europa, in Cina, in Sud America.

Se ci penso, questo è accaduto anche ad altri grandi teatranti, il primo che mi viene in mente è Enzo Moscato, come molti nemo profeta in patria. Una sconfitta.

Non penso sia una sconfitta: per la città ci sono o no, è uguale. Certo, per me un po’ sì, mi mancherà, mi dispiace, ho investito tanto, ma negli anni vissuti qui ho scritto Palermo, Palermo ha scritto per me. Come diceva Moscato, Napoli ha scritto il mio teatro: la stessa cosa vale per me.

Re Chicchinella riprende temi a te cari come la famiglia, lo smascheramento del potere. C’è una schiera da cui viene fuori questo individuo, un corpo non conforme, malato, metafora di un male quasi sistemico.

È soprattutto questo, una malattia che questo re ha, un cancro, le malattie auto immuni spesso ce le costruiamo dentro di noi perché non stiamo bene. Questo re si è arrovellato, si è tormentato, non era come dice la moglie “un re giusto”, alla fine la gallina è il suo cancro. Muore di questa malattia, partorisce questo male che poi è il male del mondo: incoronare una gallina re significa essere governati da un animale con un cervello molto piccolo. Produce oro, ma ha una visione periferica: la corte strabica è il riflesso di questo potere ottuso, com’è ottusa la gallina. Anche se a me sta simpatica.

La gallina Odette, perfettamente in ruolo…

Odette Lodovisi, ha preso il cognome dell’attore che la tiene in campagna quando non siamo in tournée. Una gallina re in tutti i sensi, è stata tolta dalle mani di un contadino che stava per mangiarla, sta talmente bene che non fa più le uova, ci è stato detto che non si scomoda, non è necessario, vive in un tale benessere. L’uovo a quanto pare è figlio di uno stress. Ne ha fatto solo uno, al debutto al Piccolo, avevamo gridato al miracolo, poi non ne fa fatti più.

k

Con Re Chicchinella si chiude la trilogia tratta da Basile. Il suo Pentamerone attinge da una tradizione orale antica, marginale, ripresa da maestri come Roberto De Simone, per molto tempo dimenticata. Come mai hai deciso di affondare dentro queste storie?

Adoro Basile, il Pentamerone è un pozzo di segreti, misteri, attingerei sempre da lì, forse perché Carmine (Maringola, marito della regista, scenografo e attore, n.d.r.) è campano, abbiamo questa passione per le sue favole, che poi tutti hanno ripreso, per la lingua che usa. Le favole sono sempre state atroci, sono vere, Basile è grottesco, esilarante. L’animale, nella favola originale a cui si ispira Re Chicchinella, era una papera che si attaccava alle natiche del principe, io poi ho esagerato, ma che sia una papera o una gallina la metafora è quella: di un principe che non si può sedere sul trono. Basile ha la capacità di capovolgere la realtà, come la protagonista de La scortecata che per trovare la pelle nuova si fa togliere quella vecchia dal barbiere che la scortica viva. Sono gesti artistici che l’autore fa compiere ai personaggi, gesti straordinari perché feroci, eloquenti. Non esistono immagini più potenti di queste per raccontare l’abuso, l’ottusità, il male del potere, la tragedia della vecchiaia.

Pupo di zucchero è legato a tradizioni antiche del sud, penso a Napoli, Palermo, e a un esercizio di memoria che ha a che fare con un teatro che convoca i morti. Siamo circondati da teatro iper contemporaneo, a volte sembra ci sia solo il presente. Penso di nuovo a Enzo, quando diceva di trovare il presente molto poco interessante e, dunque, per niente ‘teatrabile’. Tu sei unica, anche in questo. Paradossalmente più si va avanti e più tu ti ancori nel ‘precedente’. Sbaglio?

Assolutamente no: più si va avanti, più io vado indietro. (Ride.) Ti faccio un esempio banale rispetto a quello che dici. Quando vado a teatro e vedo uno spettacolo – mi piace, non mi piace, non importa – e gli attori recitano senza microfono, mi sembra un miracolo. Per me l’archetto è una bestemmia, una cosa indecente. Quasi tutti lo usano – adesso sono anche molto sofisticati, non li vedi neanche. Senti una voce che non è quella che viene dall’anima di quell’attore, di quell’attrice, una voce metallica, che viene da un'altra fonte che non è quella del corpo, esce da una cassa. Non potrei mai concepire uno spettacolo con gli attori con la cintura dietro per tenere la batteria, si spaccherebbero la schiena in una caduta, con queste protesi attaccate. Per me anche questo è rimanere nell’antichità. Gli archetti sono il nemico del teatro. Antico è una bellissima parola. L’importante è che non sia vecchio, datato. Antico come il culto dei morti di cui parlavamo prima. In alcuni posti è stato sostituito da Halloween. Il culto dei morti era importante per la famiglia. Ma che roba è Halloween, Babbo Natale, tutti questi personaggi che non ci appartengono, l’appiattimento totale di una memoria collettiva. Da noi per la festa dei morti si fa la pupaccena, abbiamo mantenuto questa tradizione di preparare i dolci per i defunti, aprire le porte delle case nella notte tra l’1 e il 2 novembre per farli entrare, regalare ai bambini giocattoli, dire loro che provengono dai nostri cari che non ci sono più, farglieli conoscere. Che roba è dolcetto o scherzetto? A cosa serve travestirsi da vampiro e andare in giro a fare gli idioti? Questa cosa non la concepisco. Se stiamo dentro la tradizione, se portiamo avanti quello che è il filone antico della nostra memoria, allora la salviamo. Il teatro deve fare questo percorso. Il culto dei morti per me è legato al fare teatro. Il teatro serve a tenere in vita chi non c’è più. Ritorno agli archetti. Quando si debuttava, l’indomani c’era l’attore, l’attrice che avevano messo così tanta energia, che erano un po' afoni, sai quando si dice “ho perso la voce”. È bello se quando fai teatro perdi qualcosa, quel pezzo di voce va agli spettatori, questo è uno scambio straordinario. Certo, poi ti riprendi, misuri le energie, occorre assestarsi sul palcoscenico. Perdere qualcosa significa darla, penso. Invece adesso con questi microfonini uno si mette lì, sussurra, fa, dice, ma cosa perde? A che serve fare il teatro così?

k

In Re Chicchinella gli attori sono diventati quasi delle maschere. Ti volevo chiedere dell’importanza del processo che precede la messa in scena finale, immagino che Re Chicchinella abbia avuto un periodo di gestazione lungo.

Abbiamo fatto molti laboratori, siamo partiti dalla favola di Basile, La papera: in realtà il protagonista non è mai stato il principe, che arriva quasi alla fine, ma due sorelle povere che vanno al mercato e con gli ultimi risparmi comprano una papera. La accudiscono, trattandola come una sorella, lei per riconoscenza inizia a cagare scudi d’oro, così diventano ricche. È una favola sull’invidia. Non c’entra niente la deriva che ha preso nel mio teatro: due comari vedono che le sorelle – “Lilla” e “Lolla”, così si chiamano – si sono arricchite, guardando da un buco scoprono la storia della papera e la rubano, ma l’animale non fa più scudi d’oro perché capisce che è finita in mano a due cattive invidiose, anzi gli riempie le lenzuola di “cacatorio”. Loro, arrabbiate, le tirano il collo e la gettano dentro un “vicuozzolo”. Da lì passa il principe a fare i suoi bisogni, vedendo questa papera semi morta la prende per pulirsi. La mia favola inizia da lì. All’inizio abbiamo lavorato sulla prima parte, ma non ne veniva fuori niente. Ci siamo detti: basta, abbandoniamo il progetto. Un’estate Basile mi torna in sogno – viene a trovarmi sempre d’estate – e capisco, anche con Carmine, che la cosa che m’interessa è questo animale che si alloggia dentro il re, il potere, dentro questa corte di “buciardi”. Capendo la direzione che volevamo prendere, abbiamo capito anche lo spettacolo. Poi sono arrivate le damigelle/ gallinelle che hanno lavorato sull’immagine del pollaio. Tra una cosa e l’altra, lavorandoci tra un progetto e l’altro, ci abbiamo messo due anni.

Hai un repertorio molto ricco. I tuoi lavori girano tanto, eppure mantenere vivo un repertorio in Italia è complicato, si è un po' perso, anche per colpa di un principio di iper produttività a cui le compagnie devono sottostare. Si fa tanto, e i lavori stanno in scena poco, a volte pochissimo.

Cerchiamo di tenere in vita gli spettacoli il più possibile, ma anche io sto perdendo il mio repertorio. mPalermu, il mio primo spettacolo della trilogia sulla famiglia, ha girato per quasi vent’anni. Anche Misericordia ha girato tanto, purtroppo si fermerà perché Simone Zambelli non vuole più farlo, la stessa cosa vale per Le sorelle Macaluso. Con lavori così non ti metti a sostituire, significherebbe snaturarli, a meno che non me lo chiedano per un mese di repliche, e allora ha un senso, forse. Poi hai ragione tu, questo non è più il tempo del repertorio, le leggi che sono state fatte sul teatro non hanno permesso agli spettacoli di avere vita, c’è stata una richiesta sempre più ossessiva e compulsiva sulle nuove produzioni: più produci, più ti sosteniamo, quando invece dovrebbe essere il contrario, meno produci e più fai vivere le cose che fai, più noi ti aiutiamo. È difficile tenere insieme una compagnia, non è difficile fare repertorio. Se penso alla mia compagnia, quelli storici non hanno mai mollato, loro credono nel repertorio, siamo quella generazione lì. A un certo punto, la generazione successiva ha iniziato a lavorare sull’idea dell’evento. Faccio uno spettacolo, poi uno nuovo, poi un altro ancora, fino ad arrivare a questa generazione che non si vuole impegnare più di un anno, a volte neanche più di due mesi. È difficile tenere insieme una compagnia se ci sono i giovani che scalpitano, fanno una cosa e poi se ne vogliono andare. Da questo punto di vista, il mio repertorio è quello degli storici che non se ne andranno mai.

l

Parliamo di Extramoenia.

Era un lavoro nato in forma di saggio a Marsiglia anni fa, l’ho ripreso e fatto diventare uno spettacolo con la mia compagnia. È un viaggio di questa piccola comunità che si sveglia con “Bella ciao” ed entra in questa specie di marcia dove accade tutto: tutto ciò che ci riguarda. Dall‘incontro col migrante, ai vari divieti imposti da questo governo. Incontra un plotone di soldati che stuprano una ragazza, due innamorati che si vogliono sposare ma lei è pervasa dai dubbi, il suo compagno ha una cultura patriarcale troppo impressa dentro di sé e dunque ha paura di fidarsi. Finché non finiscono tutti in un naufragio in mezzo a un mare di plastica. È un viaggio dentro la violenza, i divieti, la guerra.

...torniamo quindi al presente.

Ma non c’è nulla di realistico. È sempre un viaggio, metaforico, un grido, una lamentazione. Mi piace definirlo come un rituale collettivo, un cammino che questa comunità fa, cercando di lacrimare insieme. Queste lacrime diventano il mare. Marciano, lacrimano, finché non finiscono in mare e si tengono per mano per salvarsi con questi salvagenti che gonfiano nella plastica. Non c’è una trama. Sono frammenti di vite, passaggi.

Ultima domanda. Cosa stai leggendo in questo periodo?

Dei racconti di Truman Capote. Contemporaneamente sto rileggendo La storia di Elsa Morante. Per me è come leggere Dostoevskij, è qualcosa di miracoloso, immenso.

Le fotografie di Re Chicchinella sono di Masiar Pasquali, courtesy Piccolo Teatro di Milano.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO

Bollo blu Dona (Mobile)