La vegetariana, poesia e insubordinazione
Quando, d’un tratto, le luci si spengono, lasciandoci davanti agli occhi l’immagine di una tragedia in fieri, un breve silenzio cala nel buio della sala. Occorre qualche attimo per riemergere: come quando un corpo riaffiora in superficie, dopo essere andato giù. E occorre del tempo, un tempo soggettivo, sacro, per riprendersi, tornare alla realtà, dopo aver visto La vegetariana, adattamento scenico di Daria Deflorian e Francesca Marciano dell’omonimo romanzo di Han Kang (Adelphi, 2016), scrittrice sudcoreana appena insignita del Nobel per la letteratura. Chi scrive, a distanza di pochi giorni dallo spettacolo (debutto assoluto Arena del Sole 25-27 ottobre), ha ancora addosso un senso di smarrimento che deriva dall’immergersi nella purezza del dolore umano davanti alla violenza – profonda, brutale, sistemica – che questo lavoro ci consegna: con un movimento e un tempo lievi, da opera totale, in cui i generi e le arti – letteratura, cinema, arte visiva – sono felicemente in dialogo, una a disposizione dell’altra, a teatro.
Non è un caso che Daria Deflorian, regista e interprete con una fucina di attori – Monica Piseddu, Gabriele Portoghese, Paolo Musio – devoti alla causa di un teatro che, come direbbe Artaud, “mette in pericolo”, dopo il sodalizio con Antonio Tagliarini, inauguri questo nuovo capitolo della sua vicenda artistica con la scrittura sconcertante di Han Kang. È nella sua cifra ‘scavare’ dentro biografie di personaggi, nei romanzi, film, poesie, per de-narrarli in frammenti scomposti di un’epica minore, del quotidiano, nei cui interstizi, pratici, drammatici ed emotivi, si affacciano, sospese, le nostre vite. Come pure ci ha abituati a fissare lo sguardo su una serie di figure ordinarie, almeno in apparenza nella norma, portatrici di visioni altre che destabilizzano lo status quo: una su tutte Janina Turek, casalinga polacca al centro di Reality, piccolo capolavoro firmato Deflorian/Tagliarini nel 2012. Con La vegetariana – una scrittura intimista che apre squarci e risvolti profondamente politici, con ricadute più che collettive – s’inaugura una fase ancora diversa, nuova. Assieme ai suoi compagni di scena, e a una squadra di giovani artisti che hanno coadiuvato il progetto – dall’aiuto alla regia di Andrea Pizzalis, al suono di Emanuele Pontecorvo, ai costumi di Metella Raboni, alle luci di Giulia Pastore, alle scene di Daniele Spanò – continua a ragionare sulla questione della rappresentazione, immergendoci in una storia che ci colloca sul fondo a cui è giunta l’umanità.
La scena si apre su un interno spoglio, squallido, tra il giallo sbiadito e il grigio cemento, macchie di muffa sui muri, due porte ai lati. In alto, al soffitto, la luce smunta di un neon rettangolare; sul fondo, al centro, un materasso poggiato. Questo impianto scenico, immobile nella sua struttura, con la possibilità per spettatori e attori di osservare, sentire, intravedere cosa accade dietro le porte, costituisce il setting di tutti e tre gli atti. Didascalie sovraimpresse ci indicano dove ci troviamo. L’impressione, fin da subito, è che tra l’appartamento della protagonista e suo marito – un ambiente asettico, privo di vita – e l’interno di una caserma, di un ospedale, o di un manicomio, dove si svolgerà l’ultimo atto – non vi sia alcuna differenza. In scena per primo Gabriele Portoghese, abiti da impiegato, schiacciato sul fondo come un insetto, morbido, nei panni dell’inetto, carnefice e vittima allo stesso tempo; nervoso, quasi vergognandosi, racconta la storia del suo matrimonio con Yeong-hye, “la donna più ordinaria del mondo, dall’apparenza scialba, passiva, insignificante”, ideale compagna per una vita a riparo da ogni rischio e turbamento che proceda senza intoppi sull’unico binario possibile da percorrere: tertium non datur. Tutto cambia, per lui e coloro che hanno a che fare con questa presenza, quando una notte Yeong-hye ha un sogno. Un sogno rivelatore, così tremendo, lucido, disturbante, da farle decidere seduta stante di smettere per sempre di mangiare carne. Nessuno, famiglia, società, la capisce. Anzi, la giudicano pazza. Lei, che è sempre stata “docile, ingenua”, improvvisamente punta i piedi. Come Bartleby, “preferirebbe di no”, a costo di ritrarsi completamente dalla vita, mette in atto una graduale insubordinazione, che passa prima per il rifiuto degli abiti ordinari e conformisti, strumenti di controllo e giudizio sociale, a cominciare dal reggiseno; il rifiuto della carne, simbolo della violenza dell’uomo sull’uomo e sulla natura; il rifiuto della parola, e infine del corpo, sino a voler diventare un essere vegetale che si nutre solo di acqua e di luce – la natura, negata, agognata, mortificata, è la cura per questo suo male. Se Gabriele Portoghese attraversa la scena meccanicamente, spesso di corsa, in un effluvio di parole, un flusso di coscienza, diviso tra lavoro, alcolismo, veglia, tentativi di ristabilire il principio di autorità anche attraverso la prevaricazione sessuale su sua moglie, la vegetariana – Monica Piseddu, in uno stato di grazia – compare in medias res, materializzandosi sul palco come un fantasma. Difficilmente qualcun altro avrebbe potuto trasferire così magistralmente sulla scena ciò che con Han Kang in questo romanzo (forse) ha voluto rappresentare: Daria Deflorian dice di aver pensato immediatamente a lei per questo ruolo. Il suo personaggio, una giovane donna sbiadita, cancellata, sacrificata alle volontà altrui, sottile come un giunco, quasi una figura cristologica che tuttavia conserva ancora occhi vispi e sempre più assume l’andatura morbida e sinuosa di un animale selvatico, sbuca dalla penombra, si affaccia negli angoli, sfiora di sfuggita gli altri, senza mai sostare; si manifesta come un assillo, costringendoci a fare i conti con qualcosa di misterico, metafisico, un male inenarrabile, pervasivo, insormontabile come “la bianchezza della balena” di Moby Dick, “blank” come le pareti/carcere entro cui i personaggi di questo dramma si muovono. Tutto questo attraverso una serie di scelte che fanno di La vegetariana un lavoro che ci ricorda quanto potente può essere il teatro.
Per il trattamento drammaturgico, ‘spina dorsale’ su cui il gruppo ha lavorato in scrittura scenica, Daria Deflorian si è affidata agli interventi chirurgici della sceneggiatrice cinematografica Francesca Marciano: lavoro necessario per estrarre dal testo il piano della realtà su cui poi sono stati innestati fantasmi, ombre, lo scorrere del tempo che si susseguono come in unico piano sequenza. Tre anni, tre punti di vista diversi, condensati in due ore. Altra intuizione, fondamentale per sciogliere il nodo narrazione/rappresentazione, i personaggi sono insieme prima e terza persona, ovvero, oltre a dire le proprie battute – l’adattamento riprende quasi del tutto fedelmente il testo tradotto per Adelphi – mettono in scena, nel senso di “non riferire, ma essere” – ciò che l’autrice ha scritto in qualità di narratore esterno. Questo in parte rimarca lo stile di Han Kang, una scrittura modernista, sperimentale, che depista continuamente il lettore. Ri-connettendosi a una delle funzioni più antiche che la stessa parola greca “teatro” porta etimologicamente con sé, ϑεάομαι (theaomai), questo lavoro ‘mostra’ ciò che il testo di Han Kang sottende. Nel libro la protagonista non parla quasi mai, sono sempre gli altri a parlare di lei, fallendo sistematicamente nel loro tentativo di dirci la verità su qualcuno o qualcosa, perpetrando la violenza sistemica, anche del linguaggio, che ha portato Yeong-hye a decidere di congedarsi dal mondo. Sul palco, al contrario, la vegetariana è il motore immobile, deus ex machina di tutta la storia; gli altri personaggi implodono su sé stessi sotto il peso della sua costante presenza, fisica e sotto forma di rimosso – incorniciata e sottolineata da una preziosa ricerca di luci e incursioni di suoni/ rumori – che fa vacillare, apre crepe, scatena dubbi, mette in crisi.
Crisi in cui piomba il cognato, video artista fallito che si fa mantenere dalla sorella di Yeong-hye. Scioccato dalla presa di posizione di questa donna, pensa a come farla diventare funzionale alla sua arte, reificandola, abusando della sua malleabilità, del suo corpo inerme. Anche in questo caso, la soluzione immaginata per sublimare quest’ennesima violenza, dettata da una visione consumistica ed estetica dell’arte, è degna di nota. Paolo Musio ben rende la vigliaccheria di quest’uomo piccolo piccolo, che tanto dice del mondo posticcio e cinico dell’“arte per l’arte” in cui oggi siamo immersi fino al collo, su una lavagna luminosa disegna pennellate di china colorata che germogliano, sul corpo di Monica Piseddu, proiettandovi una magnifica, scandalosa fioritura. Questa sospensione onirica precede la ‘mazzata’ dell’ultimo atto. Daria Deflorian, perfetta nei panni della sorella maggiore della vegetariana, manifesta dichiaratamente, definitivamente ciò che fino a ora avevamo solo intravisto nei tremori delle ombre, dietro le porte, nei lunghi silenzi. Impermeabile, ombrello, un borsone pieno di cibo, abbigliamento normale per una donna sull’orlo di una crisi totale, sotto una pioggia incessante va a trovare la sorella ricoverata. Si muove leggera, impalpabile, passando in rassegna una galleria di ricordi, epifanie che riaffiorano come onde – a tratti evocando una versione svilita della Mrs. Dalloway di Virginia Woolf – dentro un tempo/non tempo tutto interno, che scorre inesorabile nel suo modo di parlare fermo, razionale, intimo: disperato.
Entra ed esce dal suo doppio: viva fuori e morta, già da tempo morta, dentro, tanto che all’accettazione della clinica psichiatrica dove Yeong-hye è stata rinchiusa, all’inizio non sapevano quale tra le due dovesse essere ricoverata. Lei, ingranaggio funzionale di un meccanismo ereditato, rodato, sempre troppo occupata a fare, a prodigarsi per gli altri – il padre patriarca violento, il marito, il figlio – non è stata in grado di proteggere quella sorella fragile che “aveva ingoiato sofferenza fino nel midollo”.
Ora, quel corpo ridotto a larva, finalmente liberato, che vorrebbe mescolarsi alla terra umida, le parla, pur senza emettere parole; dice molto di lei e degli altri carnefici accorsi al capezzale. Secondo Roland Barthes esistono due tipi di testo: uno “leggibile”, per cui il lettore è un mero consumatore, e uno “scrivibile”, in cui il significato sfugge: il lettore continua a cercarlo, a produrlo, dentro di sé. L’immagine finale di quel corpo seminudo, rivolto sul materasso, accerchiato da quei tre individui che la guardano, apre uno spazio vuoto che non può non farci vacillare, fosse anche solo per un istante, sulle nostre comode sedie di spettatore addormentato. “Forse questo è un sogno, mi ha detto mia sorella, dentro un sogno tutto sembra un sogno. Quando ti svegli, capisci che non è tutto là dentro. Quindi, quando prima o poi ci sveglieremo…”.
In scena fino a domenica 3 novembre al teatro Vascello per Romaeuropa Festival; agli Ateliers Berthier / Théâtre de l’Odéon, Festival d’Automne a Parigi dall’8 al 16 novembre; alla Triennale di Milano dal 26 al 28 novembre; al teatro Astra di Torino dal 28 gennaio al 2 febbraio.
Le fotografie sono di Andrea Pizzalis.
Leggi anche:
Rossella Menna | Han Kang/Daria Deflorian. La vegetariana in scena