1930 - 2019 / Michel Serres, o della gioia di pensare
“Il mare e la matematica”: mi piace pensare che le coordinate entro le quali Walter Benjamin iscriveva l’opera di Paul Valéry si adattino ancor meglio all’avventura del pensiero di Michel Serres che ci ha da poco lasciati. Nato ad Agen nel 1930, nel Sud ovest della Francia dove le rive della Garonna annunciano le onde dell’Atlantico, Serres entra nella scuola navale, ma ben presto rinuncia alla vita militare, per non cedere, ai tempi della crisi di Suez, alla logica di morte. Dalla terra catara delle origini aveva tratto il senso acuto di una storia umana in preda alle potenze del male e la volontà ferma di costruire una filosofia che fosse anche ricerca delle vie della pace: se il vero significato di filosofia, chiedeva, fosse “sapere dell’amore” più che “amore del sapere”? Amava ripetere che il filosofo che lo aveva maggiormente ispirato era Simone Weil, da lei aveva attinto il rifiuto della forza, quell’atteggiamento di “ritegno”, quel trattenersi che anche l’uomo contemporaneo dovrebbe apprendere dal Dio di Simone, di fronte ai rischi di una tecno-scienza diventata thanatocratica, affidata alla logica delle armi. Non amava la polemica, il cui etimo risale a polemos, la guerra; gli era estranea ogni forma di cultura del sospetto, pronta a cercare colpevoli, ad inseguire dietro ogni costruzione di pensiero i giochi degli interessi, i rapporti di forza o le insidie dei desideri.
Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo ha potuto ritrovare nel suo volto, negli occhi luminosi e nella voce ferma e suadente, quegli stessi tratti di bontà e di felicità (il pensiero è nato felice, diceva sulla scia di Rousseau) che spirano dalle pagine dei suoi libri. Lo avevo incontrato la prima volta, accompagnato da Marco Belpoliti, per una conversazione che sarebbe poi apparsa sulla rivista “Rinascita”. Era il 13 giugno del 1984, Roma era invasa dall’orgogliosa tristezza del popolo in occasione dei funerali di Enrico Berlinguer. Seduti sotto il loggiato nei giardini di Villa Medici, mentre discutiamo con Serres, il nostro sguardo è attratto da una statua di Ermes immersa nella vegetazione. Alla divinità greca, a cui era assegnato anche il ruolo di trasmigratore di anime, Serres aveva dedicato negli anni Settanta cinque volumi; prima di poterli leggere, li avevo sfogliati nella tumultuosa biblioteca della casa di Gianni Scalia a Bologna, e saranno letture fondamentali per chi allora insegnava Storia del pensiero scientifico nell’istituto d’arte di Monza. Ermes, il dio dei commerci e degli incroci, il messaggero degli dei, aveva suggerito con preveggenza il filosofo francese, personifica al meglio il prevalere della comunicazione e degli scambi d’informazione che caratterizza il nostro tempo. È lo stesso Mercurio a cui poi si rivolgerà il Calvino delle Lezioni americane (che aveva conosciuto Serres nel suo “eremitaggio” parigino”) proponendolo come nume tutelare del suo ideale di “letteratura come filosofia naturale”. Ed in effetti anche Serres potrebbe iscriversi in quella tradizione di “filosofia naturale” che in Francia, oltre a Valéry, include Roger Caillois e Raymond Queneau. La sua è certamente una filosofia “francese” anche nell’affidarsi ad una scrittura inventiva, in cui si smarriscono i confini tra filosofico e letterario, com’era in Bergson, in Sartre o Camus. Formatosi alla scuola di Canguilhem e di Bachelard, Serres ha ripreso da quest’ultimo il duplice interesse per la scienza e l’immaginario ma, se nel filosofo del Nuovo spirito scientifico ragione e rêverie restavano in relazione polemica, in lui si orientavano nella ricerca di una conciliazione fra la verità e il senso.
Da buon marinaio, quel che Michel Serres propone nei volumi di “Hermès” è un vagabondaggio nel Paese d’Enciclopedia, una randonnée fra i saperi chiusa dal quinto volume il “passaggio a nord-ovest” (Pratiche editrice) fra le scienze della natura e la cultura che diciamo umanistica, fra “incolti istruiti” e “sapienti ignoranti”. Alla base c’è la convinzione che il sapere formi “un corpo continuo come un oceano”, le cui acque si scambiano senza sosta attraversando mari a cui solo arbitrariamente diamo nomi diversi. È in Leibniz, a cui dedica nel ’68 un saggio mirabile, che Serres rintraccia il precursore del suo “nomadismo strutturale”, in virtù della scatola di attrezzi concettuali fornita dalla matematica del Novecento, una matematica qualitativa, dell’anesatto, quella che dalla topologia conduce alla scuola di Bourbaki, alla teoria delle catastrofi e dei frattali. Gli anni Settanta vedranno così apparire alcuni dei testi più felici del percorso erratico di Serres, dove il rigore d’analisi non dimentica l’originalità degli accostamenti, testi purtroppo non sempre noti al pubblico italiano e per i quali rimando all’antologia che, con Gaspare Polizzi, ho curato per la rivista Riga (n° 35, 2015). Il ciclo dei Rougon-Macquart di Zola è riletto alla luce delle scienze di metà Ottocento, dalla genetica nascente alla termodinamica che già, allo sguardo di Serres, era emersa nella pittura vaporosa di Turner. I romanzi di Jules Verne riscrivono il ciclo delle leggende e dei miti arcaici per l’umanità adolescente che affida il progresso all’avanzata della tecnoscienza. La pittura di Carpaccio (una delle grandi passioni di Serres, a cui ha dedicato due volumi), dai teleri di sant’Orsola agli affreschi di san Giorgio degli Schiavoni, illustra nell’alfabeto delle forme e dei colori la sintassi della violenza che governa la storia e il distacco di chi insegue la pace.
La storia della scienza viene così ritrovata e riscritta nelle pagine dei romanzieri o dei poeti. L’atomismo di Lucrezio anticipa con la teoria del clinamen la termodinamica di non equilibrio di Ilya Prigogine, le pagine del Capolavoro sconosciuto di Balzac sono rilette in Genesi per affrontare la questione del caos e dell’informe, quelle realtà mescolate e fluide eluse ed escluse dalla tradizione filosofica. Riflettendo sulla natura del tempo, di quello cronologico come di quello meteorologico, Serres ci ha lasciato alcune delle testimonianze più acute sui temi dalla complessità e dell’auto-organizzazione. Nel frattempo, all’insegnamento a Parigi si è aggiunto quello all’università di Stanford dove avviene l’incontro con René Girard. È dall’antropologo e studioso delle religioni che Serres trae spunti per rileggere le origini di Roma, sulla scorta di quanto narra Tito Livio, per ritrovare l’azione del meccanismo sacrificale e della morte nella fondazione delle civiltà e dei saperi. Ma di questa storia umana la vittima misconosciuta è stata la natura, a cui la nostra civiltà ha fatto guerra fin dalle sue origini. Di qui la prospettiva ecologica che Serres propone in uno dei suoi libri più noti, Il contratto naturale del 1990 (Feltrinelli), dove chiede di estendere la sfera dei diritti oltre l’ambito dei rapporti fra gli Stati per includervi anche il riconoscimento dei diritti delle cose. La nostra cultura ha spesso ripetuto il gesto dell’esclusione, è stata guerra proseguita con altri mezzi: sfuggire alla logica lineare del dominio apre la possibilità di tracciare uno spazio in cui le differenze si mescolino senza annullarsi, in cui si rispetti l’abito di Arlecchino che le civiltà hanno tessuto.
Gli anni del nuovo millennio sono contrassegnati da scritti che vedono accentuarsi l’attenzione al tempo presente. Hominescence traccia le nuove coordinate dell’umanità entrata nell’epoca in cui la tecnica ci consegna un nuovo corpo e nuove potenzialità sensoriali. L’incandescent e Rameaux iscrivono la storia della nostra specie nella memoria del mondo, nell’avventura che le scienze contemporanee ci offrono in forma di “grande narrazione”, quella che dal Big Bang ha portato, tra ramificazioni e contingenze, alla civiltà odierna. Sempre attento alla dimensione pedagogica, come attestano le pagine del Terzo istruito (Il mantello di Arlecchino, Marsilio), Serres non poteva ignorare, vivendo a lungo nella Silicon Valley, la portata delle trasformazioni innescate dalle tecnologie informatiche. Nel tempo di Pollicina, termine proposto per alludere all’abuso del pollice delle nuove generazioni che con il cellulare tengono in mano il mondo, possono essere gli allievi ad istruire i maestri (Non è un tempo per vecchi, Bollati Boringhieri, 2012). Certo, quando il connettivo sostituisce il collettivo, si possono rimpiangere le relazioni che un tempo gli uomini stringevano fra loro, ma Serres fino all’ultimo ci ha ricordato che prima, ai tempi della sua infanzia di povertà e guerre, non era certo meglio di adesso, anche se dopo potrebbe essere peggio (si veda Contro i bei tempi andati, Bollati Boringhieri, 2018). Quando ci ha proposto la sua filosofia della storia, in Darwin, Napoleone e il Samaritano (Bollati Boringhieri, 2017), Serres, che Umberto Eco definì “la mente filosofica più fine che esista oggi in Francia”, non ha mancato di rilevare che l’ideale eroico e sanguinario, cantato in quello che Simone Weil chiamava il poema della forza, cioè l’Iliade, trova sempre meno seguaci in Europa, la prima comunità della storia che ha vissuto settant’anni in pace. Siamo entrati in un’era anti-darwiniana, lottiamo contro la selezione proteggendo i deboli, dando corpo alla speranza di Simone Weil, l’avvento del regno della debolezza. Il medico rimpiazza il guerriero: cominciamo a pensare che non sia lo schema dialettico, lo scontro servo/signore, il motore della storia, ma la cura, debole e silenziosa, che combatte lo strepito dei violenti diffuso dai media.