Per una filosofia del tragico / Vita filosofica e vocazioni al dionisiaco

20 Novembre 2021

Può sembrare controintuitivo ma una delle tragedie del nostro tempo è che non abbiamo il senso del tragico. Questo concetto caro agli antichi greci e fondamentale per l’intera filosofia occidentale che da esso prende le mosse (Nietzsche), è quanto mai attuale se si considera tragica la vita stessa “sempre sul punto di andare in pezzi, tenuta insieme soltanto da uno sguardo che ne colga nessi e strutture, là dove, nel fitto degli avvicendamenti e dei coinvolgimenti, ci adoperiamo ciecamente”. Così Claudia Baracchi, curatrice della collana Mimesis/Philo – pratiche filosofiche, nella prefazione al bel libro di Alessandra Filannino Indelicato, Per una filosofia del tragico. Tragedie greche, vita filosofica e altre vocazioni al dionisiaco (pp.214, euro 20). Il sottotitolo indica la strada da percorrere se si vuole tenere insieme i pezzi di Dioniso dilaniato, i frammenti che compongono la nostra identità e gli aspetti spesso inconciliabili di una realtà così complessa da assumere più volte la forma di un caos ingovernabile che squaderna ogni progetto e disorienta.

 

Assumere la postura di una vita filosofica che sappia sostare in ciò che fa barcollare, nell’angoscia dello spaesamento e dell’incertezza, che presa “nella vertigine del sentirsi essere” provi ad ascoltarsi, a contemplarsi, magari rispecchiandosi nelle tragedie greche che, come ogni classico, “non avvennero mai ma sono sempre” (Sallustio). Così intesa la filosofia non è distaccata analisi dei testi ma ermeneutica esistenziale, messa in gioco di sé nel confronto con opere che ci raccontano ciò che di noi non sapevamo ancora: “mi sentivo accompagnata dal testo: come se il testo fosse lui lo spettatore, e lo spettacolo la mia vita”. Un’opportunità filosofica ben evidenziata dall’asse Heidegger-Gadamer- Ricoeur, che qui si avvale però anche degli strumenti offerti dalla psicologia del profondo, specie, ma non solo, nella piega che ne danno Jung e Bernhard e nel confronto con i lavori sul mito di Campbell, Detienne e Kerényi.

 

Ma lo sguardo resta filosofico e il metodo biografico: “la filosofia del tragico, quindi, intesa come disposizione e postura, vuole com-prendere, cioè prendere e tenere insieme, la confusione che è il mondo” imparando a confrontarsi con esso così com’è e non la sua rappresentazione edulcorata che spesso ce  ne facciamo, insegnando a “mettere in discussione tutto ciò che viene avulso dal mondo, nel parlare del mondo, e cioè, avulso dal divenire” per assecondare, al contrario, “una spinta  tutta simbolica e mitologica di adesione alla vita”, che rifugge le secche della letteralità. Questo approccio, che radica alla terra e invita a un pensiero incarnato e attento alle risonanze biografiche, richiede di non leggere le aporie e le messe in scacco del pensiero e della vita, “come paralisi esistenziali” ma come “opportunità di cambiamento, grazie ad un lavoro di scavo del testo”. 

Alessandra Filannino Indelicato, infatti, rifiuta di far coincidere il tragico con la sventura: “la tragedia solleva questioni delicatissime e allo stesso tempo infinitamente intricate quali, ad esempio, la vita intesa nel suo essere paradossale, nel suo presentarci continuamente conflitti, crisi, ferite e dolori di varia natura finanche nel suo porci davanti alla morte, tutti, nessuno escluso, istante dopo istante (…) si fa espressione autentica del conflitto tra vita e morte, individuale e collettivo, umano e divino e (…) espone al dolore altrui costringendo ciascuno ad ascoltare il proprio”. 

 

 

In questa proposta ermeneutica Dioniso, divinità tragica per eccellenza, è presentato “come il vero e proprio antidoto allo smembramento del nostro tempo”, per la sua capacità di suturazione, per la sua ebbrezza panica, per l’irriducibile testimonianza incarnata e contagiosa del legame di tutti con tutto, ben al di là dell’identità come pericolosa ipseità, della superstizione di essere un io identico a se stesso, astratto dal mondo che ci innerva e pienamente padrone di sé. Dioniso: il dio straniero, la cui origine appare molteplice, mai riconducibile a una genesi esclusiva, è l’altrove che ci abita e che non ci fa mai combaciare perfettamente con nulla ma che, al contempo, ci introduce al tutto esistente, nella sua irriducibile metamorficità e nella caducità di tutto ciò che esiste, svelando “la povertà del nostro concetto di realtà, l’incertezza della ragione, la fragilità della nostra visione del mondo, la precarietà di ogni conquista umana”.

 

 

Dioniso è “l’assoluto nella complessità”, una condizione che non si lascia imbrigliare da nessuna definizione e che richiede di essere vissuta per essere compresa, per non essere tradita. Scrive l’autrice: “Dioniso ci indica una strada, una possibilità, ci esorta a proseguire per il cammino del senso e dell’integrazione psichica, proprio nel segno della scissione, della frammentazione e dello smembramento doloroso e tragico, che pure tocca a ognuno di noi, e di cui ogni uomo e ogni donna fanno esperienza per il semplice fatto di vivere. Ecco perché Dioniso è un dio a metà tra la vita e la morte, ecco perché è il dio dell’estrema gioia e dell’estrema trance estatica, ma anche della più tremenda inquietudine”.  Se non cerchiamo di definirlo ma lo riconosciamo come un simbolo e come un mito che, interrogato, non smette mai di parlarci ogni volta con voce nuova – la nostra, trasformata dall’incontro – se non lo si relega “a divinità della promiscuità e dell’incontinenza sessuale, quando invece è prima di tutto un daimon”, potremmo riconoscerlo come un testimone della possibilità di vivere “il paradosso e il bilico; di non scinderci  in un mondo che ci vuole scissi (…) che ci indica la via dell’individuazione, una vita fatta di passione e di dolore, certo, ma anche una vita in cui è possibile rinascere umili”.

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