Filosofia e cura / Borderline: un amore radicale per la vita

26 Maggio 2022

Il concetto clinico di borderline è tra i più dibattuti ed elastici della storia della psicopatologia, per la sua alta comorbilità con diversi disturbi psicopatologici, da una parte, e per la sua estremamente elastica e nebulosa definizione dall’altra. Ad ogni modo l’organizzazione borderline della personalità riguarda un’ampia gamma comportamentale caratterizzata da una limitata capacità di controllare emozioni e, di conseguenza, comportamenti relazionali spesso imprevedibili e talvolta straordinariamente intensi ed eccessivi, nella quale Ivan Paterlini scorge, con una definizione tanto empatica quanto poetica, “un amore radicale per la vita” (Mimesis, 2022, pp. 195).

 

Una definizione tutt’altro che ingenua, che indaga approfonditamente i diversi orientamenti clinici rispetto a questo disturbo della personalità, partendo dalla narrazione di una biografia analitica di una paziente avuta in cura, alla quale dà il nome, fittizio, di Diana. Un artificio narrativo ma, in qualche modo, già una traccia in chiave mitologica: l’individuo che ci sta davanti, nella stanza d’analisi o meno, resta una verità probabilmente insondabile ma alla quale ci si può avvicinare solo se mossi da un’ero(t)ico furore, come insegna Giordano Bruno proprio nei confronti di Diana; ossia di un sapere appassionato, eroticamente connotato (secondo le leggi del transfert) ossia innamorato dell’umanità e della vita della persona che ha di fronte e di cui prova a prendersi cura, anziché concentrarsi sulla sua patologia, spesso considerata come un attentato alla vita, alla presunta idea di normalità, anziché colto come una loro espressione.

 

Naturalmente Ivan Paterlini – psicologo clinico, psicoanalista e analista filosofo – prende in cura Diana, riesce addirittura a convincerla, dopo mille resistenze, ad affiancare alla terapia analitica quella farmacologica, a farle prendere regolarmente parte a un gruppo di escursioni tra i boschi e le montagne, prende dunque sul serio la delicatezza e la pericolosità del disturbo di personalità con il quale si confronta ma lo fa come insegna Jung, al quale s’ispira:

“Come medico devo costantemente chiedermi che specie di messaggio il paziente mi reca. Che cosa significa per me? Se per me non rappresenta niente, non ho alcun appiglio.

 

Solo quando il medico è interessato, la sua azione è efficacie. Solo il medico ferito guarisce. Ma se il medico si richiude nell’abito professionale come in una corazza, non ha efficacia. Io prendo i miei pazienti sul serio: forse sono posto di fronte a un problema come loro”. (C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli, 1978, p. 173).

Paterlini si muove lungo questo solco, abbracciando una prospettiva relazionale che fa tesoro degli insegnamenti di una vastissima gamma di contributi psicodinamici, non solo analitici, che provano a rendere conto della complessità della realtà, psichica e non, con vero spirito laico. Tra i diversi metodi che emergono da questa personale ricerca di una via capace di mettersi in risonanza con l’esperienza dell’altro, scelgo di evidenziarne due che emergono con particolare chiarezza dalla lettura del libro e dalla narrazione della relazione analitica con Diana, che ne costituisce il fulcro: il gioco della sabbia e l’apertura biografico-filosofica.

 

In entrambi i casi emerge con chiarezza una particolare sensibilità estetica, ossia un’attenzione alle potenzialità di accesso a un’eccedenza di senso che tende oltre il sintomo, che non ha al centro la bellezza ma l’esperienza di vita nelle sue capacità creative, immaginative ed espressive, che vanno spesso ben al di là della consapevolezza cosciente (“e quello che non so, lo so cantare”, scrive e canta Francesco De Gregori in Battere e levare). Il gioco della sabbia o Sand Play Therapy, prende origine dalle intuizioni di Dora Kalf, che fu paziente e allieva di Jung, costituisce un metodo che invita gli analizzanti a mettere in scena una storia per oggetti, piccole figure miniaturizzate di umani, animali, piante, personaggi mitologici o immaginarie, edifici, mezzi di locomozione, pietre, oggetti vari e così via, disponendoli su una sabbiera contenuta in una cornice che rispecchia le proporzioni della sezione aurea (57x72x7 cm), contenente sabbia, che si può anche colorare o con la quale si può giocare come si farebbe al mare, con l’acqua e, più in generale.

 

 

In questa dimensione, che Paterlini assimila a quella che Gaston Bachelard ha definito “una poetica dello spazio”, “una memoria implicita si attiva a partire dall’elemento sabbia e favorisce sul piano neuronale un’integrazione che connette le vie sensoriali neuronali che presiedono alle sensazioni del corpo (e che afferiscono ai nuclei sottocorticali della risonanza emotiva), la regione limbica (sede sottocorticale della risonanza emotiva), e la corteccia dell’emisfero destro del cervello” (propria del pensiero logico-concettuale). Questa attivazione risulta particolarmente feconda e importante proprio per i profili borderline perché mette in scena una serie di conflittualità che li caratterizzano, che possono così essere rappresentati, lavorati, compresi, abitati diversamente e, almeno analiticamente, ricomposti.

 

Il tutto, spiega l’autore, sotto la guida dello “spirito di Mercurio”, simbolo di quell’opus alchemico che è la nostra vita, sempre alla ricerca di un senso che possa ricomporre i frammenti nei quali sembra smembrarsi e smarrirsi, per assumere nuova forma, dopo essere stati in grado di immaginarla diversamente da come siamo abituati a pensarla. Ecco perché l’arte – che appare nel testo anche con alcune fotografie opera dell’autore – costituisce per Paterlini un’opportunità preziosa per esercitare lo sguardo a vedere altrimenti gli oggetti su cui si posa, a ripensarli, trascendendone la tendenza alla reificazione, per abbracciare uno sguardo simbolico grazie al quale scorgere una possibilità di senso impensata; proprio la difficoltà a simbolizzare costituisce del resto una delle caratteristiche del disturbo borderline ma, a ben vedere, del nostro tempo in generale. 

 

“L’osservazione paziente dell’analista che osserva gli oggetti posizionati nella sabbiera senza avere fretta di interpretarli, permette di familiarizzare con la possibilità di “straniarli”, favorendo la nascita di “un nuovo sguardo e di un nuovo linguaggio che sa curare, ospitato da un mondo poetico”, come accade con “Giorgio Morandi, che ha svelato la vita segreta del mondo attraverso oggetti comuni”, restituendoli “al mistero”. Per poter accedere a questo mistero dell’oggetto, spiega l’analista filosofo, occorre “perdere la propria visione, quella sicura, riguardo al sintomo, per accedere a un’alterità profondissima.

 

Il setting che il gioco della sabbia offre è certamente un grande facilitatore di questo processo: il silenzio, la sabbia (l’abissale alterità archetipica), gli oggetti che possono significare, indicare o rilanciare visioni altre rispetto a quelle convenzionali, la relazione tra analizzante e analista, lo sguardo di quest’ultimo che si posa discreto sulla ricerca del paziente, lo studio come vaso alchemico, la creazione partecipata…” sono strumenti di un’animazione capace di dare espressione a ciò che, spesso, non trova voce in altri registri linguistici e che poi, magari grazie anche all’immaginazione attiva, può trovare una sua amplificazione.

Le pagine dedicate alle potenzialità terapeutiche del gioco, tra psicoanalisi, antropologia culturale, filosofia, sociologia ed estetica, sono tra le più esaustive all’interno di un libro che si muove con maestria tra orizzonti disciplinari diversi di cui riesce a sottolineare i notevoli e fecondi punti d’incontro, anche attorno ai temi del rito, delle ripetizioni ossessive, delle stereotipie, del tempo lineare e di quello sacro, il tempo del senso, del kairos, della decisione nel momento opportuno, alla quale lo psicoterapeuta accompagna Diana, talvolta in maniera decisa, quando sente che siano pronte le condizioni per affrontare temi cruciali e promuovere nell’analizzante una presa di posizione importante: 

“Tu devi dare tregua al tuo corpo! Farlo vivere in altro modo.

 

Da anni sta urlando la sua sofferenza, sta implorando una tregua rispetto ai tuoi pensieri distruttivi e suicidari. Fargli vivere una tregua è cosa urgente. L’aiuto primario può avvenire solo tra te e te stessa. Basta con i giochini, sempre uguali. Devi essere grata a questo tuo corpo che da anni accetta, cambia forma, per accogliere e contenere i tuoi attacchi continui. È l’amore più grande quello che ti ha mostrato e tu gli devi gratitudine. Prenderti cura del tuo corpo significa muovere la tua gratitudine nei confronti di chi ti ha salvato e contenuto: il tuo corpo.” Diana è infatti una paziente bulimica che ha dichiarato guerra al suo corpo, anzi lo vive come terreno di battaglia.

 

La bulimia, sottolinea Paterlini, non ruota, come spesso si è creduto, attorno ad un vuoto da riempire, un’assenza da colmare, e così via, ma chiama piuttosto in causa il tema della regolazione, della dismisura, del limite emozionale-corporeo da riconoscere e tracciare. È qui che si gioca un amore radicale, illimitato, incontenibile per la vita. Durante l’analisi Diana impara a stare nei limiti giocando con la sabbia, dipingendo, rispettando i tempi e i ruoli imposti dal setting, aprendosi con crescente fiducia, testimoniata e sostenuta dall’analista, alla possibilità di una naturale riparazione, alla possibilità che le ferite possano rimarginarsi e che la vita possa cambiare il proprio corso, trasformarsi, mutando di significato alla propria avventura esistenziale. 

 

Per questa ricerca di senso che orienta diversamente, illumina, trasforma e rilancia la vita accartocciata su dinamiche compulsive e ossessive che si ripetono coattivamente, Paterlini sceglie appunto, proprio terapeutica, gli strumenti dell’analisi biografica a orientamento filosofico. Lo “sguardo filosofico ha saputo ostinatamente posarsi sulla dimensione sana di Diana e sulla parte malata che, in una cera misura, è presente in ciascuno di noi. La bussola per orientarsi negli orizzonti di senso è dunque sempre la propria esperienza biografica, costantemente sottoposta a elaborazione e aperta a scenari che possano arricchirla di consapevolezza e significato. Con le sue parole: l’apertura filosofica si è rivelata necessaria “per poter sostare senza paura nelle strette fosche (come le nebbie di Luigi Ghirri) di paesaggi psichici che chiedono altri paradigmi, altri paragoni, altre forme del sentire e del pensare rispetto alle riduzioni ingenue di tante psicoterapie”.

 

La filosofia, in questa particolare declinazione sembra aver offerto, a Diana e a Paterlini, la sua straordinaria capacità di articolare e integrare in una visione d’insieme il particolare e l’universale ancorandoli al biografico, proponendosi come opportunità per esercitarsi a ricomporre le scissioni, non solo attraverso uno sguardo complesso, che intreccia cioè le diverse trame di cui siamo intessuti, ma anche attraverso alcuni “esercizi spirituali” – appresi dall’insegnamento di Pierre Hadot – che opportunamente ripensati per i nostri tempi e per le esigenze delle singole persone che vi si esercitano, la possibilità di trasformare alcuni riti compulsivi in scelte consapevoli, aiutato a ritessere un rapporto profondo tra sé e il mondo, interiore e esteriore, svelato un senso capace di benedire la vita e di reggerne il peso nelle sue prove più dure, insegnando innanzitutto ad esercitare una postura esistenziale nella quale il riconoscimento dei nostri limiti incontra l’apertura dello sguardo e del desiderio che apprende a trascenderli, trasformando il limite in opportunità e liberando potenzialità inespresse di straordinaria portata terapeutica. 

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