Mitologia dell’immaginario

22 Luglio 2022

È possibile una mitodologia, ovvero una scienza del mito capace di cogliere la germinazione di immagini che costituisce la memoria collettiva a fondamento di ogni vita sociale? Gilbert Durand, antropologo fondatore in Francia degli studi sull’immaginario, era convinto di sì; di più riteneva che fosse non solo possibile ma necessario fondarla chiamando a cooperare le scienze “esatte” con quelle che autoironicamente chiamava “le scienze inesatte”, quelle umanistiche.

I suoi studi dimostrano come al cuore di entrambe sia possibile scorgere miti e come, specie nel XX secolo, le scienze esatte abbiano fornito descrizioni del reale e dei suoi fenomeni oggetto di studio che sovvertono l’epistemologia classica della logica aristotelica, della geometria euclidea e della fisica newtoniana a favore di una complessità che richiede nuovi paradigmi epistemologici che, tuttavia, sembrano perfettamente consonanti con alcuni miti millenari. 

Furono proprio premi nobel per la fisica ad accostare le loro teorie alla visione del mondo di antiche sapienze orientali: Niels Bohr considerò la sua teoria dei quanti più facilmente comprensibile alla luce del pensiero taoista, Erwin Schrödinger al Vedanta, Oliver Costa de Baugerard all’induismo e potremmo proseguire a lungo, basti pensare al celebre libro di Fritjof Capra Il tao della fisica. Questo nuovo spirito scientifico invita il ricercatore a prendere atto che l’oggetto di cui si occupa non è poi così oggettivo, che dipende dal sistema in cui si manifesta (la teoria della relatività di Einstein), dalla procedura di osservazione e dagli strumenti che si utilizzano (la relazione di incertezza di Heisenberg), che la “dissimmetria temporale” tra passato e futuro non è più un’evidenza e “la causalità è fondamentalmente non orientata” (Costa).

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Insomma ciò che le scienze umane chiamano “il senso” rivela “le connotazioni inesauribili del fenomeno” anche nelle scienze esatte e trova nel pensiero immaginale del simbolo e del mito le sue più efficaci espressioni. A venir meno è innanzitutto l’illusione/presunzione di poter spiegare il funzionamento di un fenomeno qualsiasi riducendolo a un’unidimensionalità (come denunciava Herbert Marcuse). 

È evidente che in quest’ottica l’approccio interdisciplinare sarà dunque quello che risulterà maggiormente capace di promuovere lo studio dei fenomeni che s’indagano e di permetterne una più ampia comprensione; per questo Durand tesse le lodi di “quello straordinario circolo che furono, per cinquant’anni, gli incontri di Eranos, ad Ascona, nel Canton Ticino, sotto la guida di Carl Gustav Jung, fondatore della psicologia complessa e archetipica. In questo eccezionale simposio della modernità s’incontrarono e si confrontarono per una settimana all’anno, etnologi, storici della religione, filosofi, antropologi, filologi, fisici, psicologi che s’interrogavano sulle capacità umane di simbolizzare, soprattutto attorno al fenomeno del sacro, del numinoso, ma non solo.

Contemporaneamente anche il pensiero marxista tedesco – con Walter Benjamin, Ernst Bloch, Karl Mannheim, Herbert Marcuse, ecc. – prese coscienza dell’importanza e del potere delle strutture mitologiche e simboliche sui comportamenti umani e su ciò che chiamavano “infrastrutture”, tutti aspetti che però fu innanzitutto l’antropologia culturale ad evidenziare a portare a coscienza. 

Tuttavia la vera svolta, secondo Durand, sarebbe avvenuta in un altro circolo intellettuale al quale, esattamente come a Eranos, ebbe la fortuna di partecipare direttamente: si tratta del circolo di Cordova nel quale fisici come F. Capra, D. Bohm, O Costa da Beauregard, astrofisici come H. Reeves, neurologi come K. Pribman, si confrontavano con sociologi, poeti, antropologi, psicologi, scrittori, epistemologi che dovevano molto all’opera di Gaston Bachelard Il nuovo spirito scientifico (1971). Questo nuovo spirito scientifico invita il ricercatore a prendere atto che l’oggetto di cui si occupa non è poi così oggettivo, che dipende dal sistema in cui si manifesta (la teoria della relatività di Einstein), dalla procedura di osservazione e dagli strumenti che si utilizzano (la relazione di incertezza di Heisenberg), che la “dissimmetria temporale” tra passato e futuro non è più un’evidenza e “la causalità è fondamentalmente non orientata” (Costa), introducevano paradossi che nel pensiero simbolico trovano una loro perfetta sensatezza. 

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Scrive Durand “il simbolo è la coerenza (nel senso fisico del termine, vale a dire il fatto che le cose possono essere messe insieme senza che ci sia esclusione) di due tipi di identità differenti”, per questo è “l’epifania di un mistero”; il mito invece, da parte sua, è ciò che “implica e spiega, ma non si spiega”, per questo, ora che, come dice il fisico Costa, “i paradossi sono diventati paradigmi”, il metodo classico deve essere abbandonato a favore non di un nuovo metodo ma dell’adozione di un comune “bacino semantico”, ossia di un medesimo ambiente culturale, che si scopre innervato dai miti che lo attraversano. Occorre indagare, per citare quella che è forse la sua opera più celebre, Le strutture antropologiche dell’immaginario (1960), per comprendere il significato e il senso dei simboli, dei miti e dei riti attivi nella nostra società, riconoscendoli come eco o evoluzione di miti millenari; non per sostenere che tutto è già stato detto ma per rilanciare quel pensiero immaginale e meditativo che la supremazia “dell’economico sull’iconico” (dalla prefazione di Michel Maffesoli) rischia di spazzare via. 

Di contro a una scienza che si è a lungo identificata con il logos e si è definita per sottrazione dal mythos, occorre riconoscere come ogni positivismo si radichi in un proprio mito e come questo risulti, alla fine, trasversale, nelle sue diverse forme, ad ogni scienza. 

Occorre dunque passare “da una mitocritica a una mitoanalisi”, applicando ai testi sociali le stesse tecniche ermeneutiche utilizzate per la comprensione di un testo letterario (il libro si produce in una vasta e interessante gamma di esempi per i più celebri fenomeni letterari del ‘900 che non posso qui riassumere), ai contesti dai quali è emerso: le istituzioni, le pratiche sociali, i monumenti, i documenti, ecc. In questo modo la mitoanalisi può “partire da mitemi e sequenze di un mito stabilito, leggendone le risonanze in una tale società o in un tale momento storico” senza dimenticare mai che l’anima di un gruppo è sempre “tigrata”, ossia mai del tutto omogenea.

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Questa nuova prospettiva evidenzia come “tutto il nostro pensiero, tutte le nostre ragioni si mettano agli ordini del significato, ossia della capacità di simbolica dell’essere umano che si fonda sul pensiero immaginale che affonda le proprie radici nei miti di ogni tempo, che costituiscono un costante invito all’interpretazione, sempre nuova e aggiornata, di ciò che accade da sempre ma non è mai esistito. 

Interessantissimi in questo senso gli accenni che Durand fa alla convivenza in ogni civiltà di tre “stratificazioni delle quali ognuna possiede il proprio mito fondatore”: quella pedagogica, incentrata sul mito prometeico, incatenato e divorato, però dall’avvoltoio delle regolamentazioni e dei metodi quantitativisti, oggettivisti e agnostici; la stratificazione dei massmedia – che ha progressivamente fagocitato anche la politica spettacolo – che incarna attualizzazioni dei miti dionisiaci e orfici e, infine, la stratificazione degli intellettuali che avrebbero proprio il compito di promuovere questo cambio di paradigma di cui la metodologia vuole essere un esempio.

Essa consiste appunto nella disposizione a immergersi in quella che Durand chiama “una geografia mitica” che svela la partecipazione delle diverse identità culturali ai valori comuni dell’umanità per tornare ad apprendere un pensiero meditativo che sappia abitarla per provare a indagare e rendere coscienti, sia a livello cognitivo che emozionale, quei riti e quei miti sociali che sono il cuore della produzione umana e che, al contempo, costituiscono la struttura portante che l’innerva. “Uguale l’inizio e la fine nella circonferenza”, diceva Eraclito, proprio come nel simbolo dell’uroboro così caro all’alchimia e alla psicoanalisi junghiana, ma trasformato colui che ha compiuto il percorso.

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