Dare corpo al simbolo che siamo

25 Settembre 2022

Che cos’è il corpo? La domanda è al centro di una serie di saggi scritti tra il 1924 e il 1929 da José Ortega y Gasset, uno dei filosofi più interessanti e meno studiati del secolo scorso, pubblicati in un unico volume da Meltemi dal titolo Il corpo tra simbolo e psyché, (124 pp, 14 euro). Si tratta di domanda tutt’altro che scontata, e non solo in filosofia. Eh sì, perché il corpo, questa è una delle principali tesi, è inscindibile dalla psyché di cui è, per certi versi, espressione, manifestazione, simbolo. Simbolo che esprime il profondo che ci abita – la psiche, lo spirito, l’anima – ma che può manifestarsi solo attraverso la sua superficie.

La natura del corpo pertanto non è soltanto fisica, biologica ma anche biografica, psichica, è non tanto sede quanto “topografia dell’intimità”, “tettonica della persona”, “simbolo manifesto di una realtà nascosta”, “geroglifico”, “metafora”. Ma il filosofo spagnolo si guarda bene dal ribaltare semplicemente la celebre posizione cartesiana: in lui psiche e soma non sono né separabili né riducibili l’uno all’altro; il nesso che li lega non è fisico ma, appunto, simbolico, dunque capace di tenere insieme gli opposti: “risulta falso e inaccettabile pretendere di distinguere l’anima e il corpo. Non perché non siano distinti, ma perché non vi è modo di determinare dove finisca il nostro corpo e dove inizi la nostra anima. Le loro frontiere sono indiscernibili, come lo è il limite del rosso e dell’arancione nello spettro cromatico. L’una termina dentro l’altro”.

Perché dovrebbe interessarci questa visione somatopsichica di ciò che siamo? Perché a un secolo quasi esatto da quando questi saggi sono stati scritti, la profondità psicobiografica del corpo è fortemente messa a rischio dalla sua sovraesposizione che lo riduce a cosa tra le cose, merce tra le merci, oppure a spazio prestazionale, limite da portare all’estremo, da espandere o comprimere, manipolare, forzare, superare. Se consideriamo invece la natura simbolica del corpo, ossia la sua intrinseca e irriducibile complessità, e la riconosciamo come inscritta in una rete di relazioni che la trascendono, non potremmo mai cosificarla, ridurla a oggetto, né astrarla dalla vita che la innerva e che in essa si mostra, salvaguardandone l’umanità.

Se ho accennato alla rete di relazioni nella quale è preso il corpo è perché l’essere umano, per Ortega Y Gasset, è sempre in situazione, s’incarna in un mondo reale, non è mai idea astratta. Di più, è punto d’incontro di tutto ciò che esiste: “tra l’universo e noi si interpone il nostro corpo come un setaccio o un reticolo che seleziona, attraverso le sue sensazioni, il cumulo immenso di oggetti che completano il mondo. Ma non accade la stessa cosa per la percezione intima? In ogni momento percepiamo del nostro Io soltanto un numero esiguo di pensieri, immagini ed emozioni che vediamo passare come il flusso di un fiume dinnanzi al nostro sguardo interiore”.

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Nonostante il filosofo spagnolo creda di elaborare questa sua visione in antitesi alla psicoanalisi, la sua posizione è sostanzialmente identica a quella di Jung per il quale “se siamo ancora prigionieri dell’antica idea di un’antitesi tra mente e materia, ci troviamo di fronte a un’intollerabile contraddizione che può anche alienarci da noi stessi. Ma se proviamo a riconciliarci con la misteriosa verità che lo spirito è il corpo vivente visto dall’interno, e il corpo la manifestazione esteriore dello spirito vivente – e corpo e spirito sono in realtà un tutto unico – allora possiamo capire perché il tentativo di trascendere l’attuale livello di coscienza deve tributare al corpo la dovuta attenzione”. 

Come già Platone e Freud prima di lui – solo per dirne alcuni – anche Ortega Y Gasset non resiste alla tentazione di tracciare una sua personale tripartizione (in vitalità, spirito e anima) di ciò che chiama “intracorpo”, nella piena consapevolezza che di questo fenomeno, tuttavia, si può parlare solo per metafore, tale è la sua eccedenza di senso rispetto a ogni possibile definizione – come per ogni simbolo vivo, direbbe appunto Jung. 

C’è un’ultima considerazione che secondo me merita attenzione e che proverò a sviluppare anche grazie ad un altro testo che si muove, seppure del tutto autonomamente, in consonanza con questo; “il corpo dell’uomo è l’unico ente dell’universo di cui abbiamo una doppia conoscenza, formata da notizie di ordine completamente diverso. Lo conosciamo, in effetti, dal di fuori, come l’albero, il cigno, la stella, tuttavia aggiungo che ognuno percepisce il suo corpo da dentro, ha di questo un aspetto o una vista interna”, legata all’attenzione e alla consapevolezza, ma della quale, ancora una volta, non si può che parlare che per metafore.

Ed ecco allora farsi strada un altro piccolo saggio che vorrei sottoporre alla vostra attenzione, non solo per la grazia della sua scrittura ma per la sua capacità di instradarci verso questo tipo di ricerca paziente, giocosa e sottile, ossia di offrirci un metodo: si tratta di La musica dell’anima. Voce, canto e meditazione (Enrico Damiani, 2022, p. 192) di Domitilla Melloni.

Anche questo libro, per buona parte figlio di esperienze laboratoriali e seminariali condotte o sperimentate in formazione dall’autrice, costituisce un appello a apporsi alla “letteralità della carne, che la priva del suo rapporto con l’anima e con il mistero che abita ogni essere vivente”; ma mentre i saggi del filosofo spagnolo sono riflessioni sulla possibilità di pensare il nostro corpo dal di dentro (con interessanti pagine sui disturbi d’ansia, le nevrosi e l’ipocondria in particolare, con la loro ossessiva attenzione al corpo, ai sintomi, ai dubbi sulla sua tenuta e sull’inerzialità del suo funzionamento), l’analista filosofa invita a sperimentare un metodo che permetta di apprendere a sentirlo e, secondariamente a concepirlo, grazie all’attenzione sul respiro, base di ogni meditazione e porta d’accesso alla consapevolezza corporea: “il respiro che unisce corpo e mente, cuore e spirito vitale, non incontra solo le emozioni: inattesi e spesso indesiderati, gli si fanno incontro anche i pensieri, con il loro carico di ricordi, considerazioni, giudizi, rivendicazioni, dolori…”.

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Capiamo allora di “non avere un corpo ma di essere corpo. Allo stesso modo pensiamo di avere una voce e invece siamo la nostra voce. Pensiamo di poter modificare entrambi, per avvicinarci all’immagine ideale che ne abbiamo, un’immagine standardizzata, che quasi nulla ha a che fare con la nostra storia e con la nostra essenza autentica di persone”. 

Molti criticano la meditazione con argomentazioni simili a quelle, che per altri versi, si muovono alla psicoanalisi: si tratterebbe di un ripiegamento su di sé, di un’astrazione dalla complessità del mondo, di un atto ego riferito; non è così, perché in entrambi i casi si tratta di partire da sé per riconoscere l’eccedenza che ci abita, di sperimentare la trascendenza come relazione con tutto e con tutti, l’esistenza come trama di un’incredibile sistema dinamico di correlazioni, la cui complessità, a ben vedere, non è meno incredibile e affascinante di quella del corpo. L’attenzione a sé, o meglio attraverso di sé a quell’universo di cui, come diceva Y Gasset, il corpo non è che un’interpunzione, può insegnare ad aprirsi amorevolmente a noi stessi, agli altri, all’ambiente, a ogni forma di vita. Con le parole dell’autrice:

“la meditazione ci insegna la via dell’accettazione amorosa e paziente soprattutto verso ciò che è più bisognoso d’amore. Ciò che è difficile amare non è la nostra immagine ideale, ma la verità nuda e povera del nostro essere colto nella sua autenticità. È difficile amare noi stessi per quello che siamo, accogliere con tenerezza ciò che vorremmo cambiare di noi: questo solo siamo e solo in questo poco, per di più imperfetto, c’è il germe di ogni possibile amore, di ogni possibile gioia. Pensieri che interrompono quando vorremmo tenerli distanti ci rivelano per quello che siamo: meglio allora scegliere una via intermedia che non attribuisca loro importanza, certo, ma che non preveda nemmeno la loro cacciata dal paradiso ideale che desidereremmo”.

Ed è proprio il corpo ad offrire la possibilità di sperimentare tutto ciò attraverso l’attenzione e il respiro, un corpo dimora, in cui le emozioni e i pensieri possono “ritornare e acquietarsi, così come noi stessi respiriamo di sollievo la sera quando rientriamo la sera in casa dopo una giornata faticosa”.

Rispetto ad altre forme di meditazione Domitilla Melloni sceglie di portare l’attenzione sulla voce, forse il nostro tratto identitario più distintivo, irriducibile allo psichico o al corporeo ma mistero del loro impasto biografico. Ed è a questo punto che si aprono gli esercizi spirituali (nell’accezione laica che apprendiamo dalla lezione di Pierre Hadot) di cui si compone soprattutto la seconda parte del libro in cui la teoria si appoggia e s’intreccia a piccole pratiche da sperimentare per scoprire, tra le mille voci che ci abitano, quella davvero in grado di illuminare ciò che siamo ai nostri stessi occhi e, con essa, la fitta eredità e complessità relazionale che in essa si esprime e che, se siamo fortunati, si fa armonia con la vita, con l’incanto che l’abita. Un incanto che non sappiamo dire ma al quale, nondimeno, possiamo dare espressione.

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