Ereditare il trauma
Un mio analizzante mi riporta un dialogo con la madre durante il quale cerca di sapere di più del periodo in cui lei e suo padre si sono separati. Si tratta di una fase della sua vita che fatica a collocare con chiarezza nel tempo e della quale serba ricordi estremamente confusi. Un’immagine però gli si è incisa nella memoria: tra sua madre e suo padre volavano piatti. La madre tuttavia gli spiega che una cosa del genere non è mai avvenuta e che il problema, dal suo punto di vista, era che non litigavano mai davvero perché lei era incapace di farlo e che pertanto non solo non volarono mai piatti ma nemmeno parole grosse, che si trattò di una sorta di resa sorda, caratterizzata da aggressività passiva e incomunicabilità sulle quali poi lei, in analisi, lavorerà a lungo. Non c’è motivo di dubitare di questa versione, i due hanno un ottimo rapporto, specie per quella che potremmo definire “un’alleanza terapeutica”: il mio analizzante, ancora minorenne, chiese infatti alla madre di poter intraprendere un percorso di analisi dopo aver visto gli esiti positivi che questa aveva avuto su di lei, così la collega che la seguiva l’inviò da me.
Da allora, in piena autonomia, il figlio ha sempre potuto trovare piena collaborazione dalla madre nella ricostruzione di scenari biografici utili alla comprensione della sua vicenda personale e familiare. “Piuttosto”, prosegue la madre, “i piatti volavano tra tua nonna e tuo nonno, ma tu questo non l’hai mai saputo, tanto meno l’hai potuto vedere” (i suoi nonni vivono infatti al sud mentre lui è nato a Milano). Tuttavia, mi ribadisce il mio analizzante in seduta, questo ricordo è per lui nitido e emotivamente forte. Una fantasia? Forse. Tuttavia c’è un’altra pista che si può seguire, e che in effetti decidiamo di sondare: quella dell’eredità emotiva, esito di un trauma transgenerazionale. È il tema al centro dell’ultimo libro dell’analista israeliana Galit Atlas, L’eredità emotiva. Una terapeuta, i suoi pazienti e il retaggio del trauma, uscito lo scorso anno per Cortina, nella collana Storie di psicoterapia (pp. 270, euro, 16.00). Un libro agile, non particolarmente tecnico, come si richiede a questa collana, ma avvincente ed estremamente interessante, che proverò ad amplificare grazie ai contributi, potuti esprimere con maggiore analiticità, tratti dal preziosissimo libro di Clara Mucci intitolato Trauma e perdono (Cortina, 2014, pp. 272, euro 27.00.
L’incipit del libro di Atlas – ebrea figlia di immigrati arabi trasferitisi in Israele negli anni ‘50 del secolo scorso e a sua volta emigrata a New York – si apre con un’epigrafe che va subito al cuore della questione: “In quei giorni non si dirà più: i padri hanno mangiato uva acerba e i denti degli figli si sono allegati!” (Geremia 31, 29). Per questo il testo passa in rassegna alcuni frammenti di biografie analitiche nelle quali l’eredità emotiva di traumi non elaborati dai genitori, dai nonni o più in generale dal proprio clan familiare, emerge e preme su figli e nipoti che si trovano a sapere e sentire cose di cui non si spiegano l’origine, fantasmi spaesanti e tendenzialmente ansiogeni che si manifestano in particolar modo in occasione di snodi simili a quelli con i quali hanno dovuto fare i conti i loro avi. Un vissuto amplificato e reso ancora più complicato dal fatto che molto spesso queste generazioni che si trovano a fronteggiare simili situazioni non sanno in che modo esse riecheggino traumi irrisolti dei loro familiari. Secondo l’autrice, infatti, “i segreti della mente non includono soltanto le nostre esperienze di vita personali, ma anche quelle che inconsapevolmente portiamo dentro di noi: ricordi, sentimenti e traumi che ereditiamo da generazioni precedenti” (p. 16) che non sono riuscite a mentalizzarli, simboleggiarli ed elaborarli adeguatamente. Una condizione spesso innescata da segreti taciuti nell’intenzione di proteggere i propri figli o nipoti da informazioni che si ritiene avrebbero potuto addolorarli o addirittura sconvolgerli; oppure di vicende familiari mai rivelate per vergogna o sensi di colpa o, ancora, di eventi letteralmente forclusi, ossia mai pienamente integrati nella memoria cosciente da chi li ha vissuti perché troppo gravi e dolorosi per poter essere registrati dalla coscienza (come accade con i traumi in senso stretto) ma di cui la psiche porta comunque una vivida traccia inconscia, spesso inscritta nel corpo e apparentemente incomprensibile.
La questione del trauma è davvero complessa e scivolosa perché è difficile inquadrare qualcosa che per definizione non si può ricordare: come mi spiegava una mia analista, dobbiamo comportarci con esso come farebbe un fisico con un buco nero che non è osservabile direttamente ma del quale possiamo inferire l’esistenza dal modo in cui si comporta lo spazio ad esso circostante. Si aggiunga a questo che l’evento traumatico dipende dalla suscettibilità del soggetto che lo subisce, dalle condizioni psicologiche in cui si trova quando lo sperimenta, come da quelle culturali e ambientali che possono impedire o inibire alcune reazioni che potrebbero risultare maggiormente adeguate rispetto a quelle che si sarà costretti ad agire ma che il contesto rende impraticabili, e così via.
Diversi studi evidenziano ormai da decenni come fenomeni quali l’abuso fisico, il suicidio, la morte per mano umana, se non opportunamente elaborati, gravino fino a tre generazioni, presentandosi nella psiche in maniera estremamente confusiva. “Le esperienze troppo dolorose per essere interamente comprese ed elaborate vengono trasmesse alla generazione successiva. Questi traumi indicibili e troppo dolorosi perché la mente possa digerirli, diventano la nostra eredità e influenzano i nostri figli e iloro figli, in modi che non riescono a comprendere o controllare. (p. 21). Un po’ alla volta “si creano miti familiari” carichi di sentimenti conflittuali e irrisolti di distruzione, rabbia, vergogna; sensi di colpa accompagnati da meccanismi difensivi come la proiezione psicologica, benevola o malevola, o il congelamento emotivo, specie nelle relazioni con le persone amate, in un quadro di costante senso di insicurezza, instabilità e minaccia, con difficoltà a sviluppare un equilibrato ideale dell’io e un adeguato senso di sé. Un fenomeno che la professoressa Yolanda Gampel, della Tel Aviv University, ha definito “radioattività del trauma”, una metafora presa in prestito dalla fisica nucleare per descrivere come la radiazione emotiva, al pari di quella fisica, “si diffonde nella vita delle generazioni successive, manifestandosi in forma di sintomi fisici ed emotivi, reminiscenze del trauma [non sperimentato personalmente] e in un diffuso attacco alla propria vita” (p. 110).
Uno degli impulsi maggiori a queste ricerche proviene infatti dall’analisi degli effetti intergenerazionali provocati dal trauma di chi è sopravvissuto alla Shoah, poi estesi agli studi sui reduci della guerra del Vietnam, dell’ex Jugoslavia e di altri contesti terribilmente violenti – in Trauma e perdono si passano in rassegna considerazioni straordinariamente lucide e ficcanti di Primo Levi, specie in Sommersi e salvati, su questo fenomeno e sulle sue importanti ricadute politiche, ben indagate da Mucci, che nel breve spazio di questo contributo non posso analizzare. Tutti gli studiosi concordano nel riscontrare “quanto sia traumatico il silenzio; maggiore era la presenza del silenzio nel dialogo familiare, più forte era l’impatto del trauma reso silenzioso nella terza generazione” (Clara Mucci, Trauma e perdono, p. 182), un fenomeno con il quale la stessa Galit Atlas dovrà fare i conti, come racconta in chiave autobiografica nel suo libro. È comprensibile come persone che hanno subito traumi relazionali umani non riescano, una volta genitori, a promuovere nei loro figli un “attaccamento sicuro” (Bowlby) per cui le ragioni ambientali e relazionali della trasferibilità del trauma alle generazioni successive appaiono chiare e considerevoli (Mucci, p. 186-188) tuttavia sono presenti anche ragioni epigenetiche:
“A partire dagli anni Settanta, le neuroscienze hanno confermato quanto scoperto dalla psicoanalisi, ovvero che il trauma dei sopravvissuti e persino i segreti più oscuri, ma svelati a nessuno, influenzano davvero le vite dei figli e dei nipoti. Questi studi, relativamente recenti, si focalizzano sull’epigenetica, sull’impatto non genetico e sulle variazioni dell’espressione genetica; analizzano il modo in cui i geni vengono modificati nei discendenti dei sopravvissuti al trauma e studiano le modalità tramite cui l’ambiente, e il trauma in modo particolare, possono lasciare un’impronta chimica nei geni di una persona, impronta che viene trasmessa alla generazione successiva. Questa ricerca empirica evidenzia il ruolo fondamentale degli ormoni dello stress nello sviluppo del cervello e, quindi, nei meccanismi biologici attraverso cui il trauma si trasmette di generazione in generazione” (Atlas, p. 17).
Gli studi comparati analizzati da Mucci dimostrano chiaramente come “più è profondo il silenzio, più pervasivo è l’impatto interno degli eventi” che conducono spesso a relazioni instabili o deboli caratterizzate dalla paura della perdita, della separazione e della rottura; ipervigilanza, tendenza a prendersi eccessivamente cura degli altri e a identificarsi con le vittime con fantasie di poter salvare gli altri; oppure movimenti di segno opposto: identificazione con il carnefice, timore di essere pericoloso per gli altri, di non essere degno di vivere ciò che di positivo ci capita, con forme di autodistruttività, con aggressività difensiva o affettività evitante (p. 163).
Scenari che a diverso titolo possiamo riscontrare anche in individui con una storia diversa da quella inscritta nel dramma della Shoah, come quelli che emergono dal libro-testimonianza di Galit Atlas, nel quale si tratteggiano vicende legate all’abuso sessuale, al disagio di accettare l’omosessualità di un proprio familiare, al suicidio di un nonno, ai traumi generati dall’abbandono o dall’incapacità di riprendersi dalla perdita improvvisa di un figlio, dalla compulsione al tradimento e, soprattutto, dall’imbarazzato silenzio intorno ad essi. Tutti scenari molto più familiari di quello che si possa pensare, che si rivelano opportunità per sanare ferite antiche, affinché l’eredità emotiva che portiamo sulle nostre spalle, una volta elaborata, possa smettere di riecheggiare in chi verrà dopo di noi, perché “in definitiva è la vita non analizzata degli altri che noi finiamo per vivere” (p. 262), nei panni di quello che tecnicamente viene definito come «il paziente designato».
La possibilità e l’importanza di allargare lo sguardo alla storia familiare delle persone che ci troviamo di fronte nella stanza d’analisi permette talvolta di “affrontare il lutto e l’elaborazione del dolore che i nostri genitori non sono riusciti a sopportare e favorisce la cessazione dell’identificazione con quelli che hanno sofferto” (p. 264); un’operazione delicata e difficile ma preziosissima perché “quando impariamo a identificare l’eredità emotiva che vive dentro di noi, le cose iniziano ad acquisire un senso e le nostre vite iniziano a cambiare” (p. 266).
I fantasmi vagano senza sosta finché non trovano qualcuno disposto a riconoscerli e ad ascoltarne la storia; solo allora, finalmente, sono liberi di riposare (e di lasciarci) in pace.